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Home ›Crescono profitti e rendite, crollano i salari
Lo scorso mese di gennaio l'inserto economico del Corriere della Sera ha pubblicato degli interessantissimi dati sulla distribuzione del reddito in Italia, commentati dall'economista Geminiello Alvi. I risultati dell'inchiesta condotta dal maggior quotidiano italiano confermano sostanzialmente i dati che solo qualche mese prima aveva pubblicato la Banca d'Italia, in occasione dell'annuale rapporto sulla situazione economica del paese. Anche la stampa borghese non è più in grado di nascondere i risultati economico-sociali degli attacchi perpetrati dalla classe dominante nei confronti del proletariato in oltre trent'anni di crisi economica duranti i quali il capitalismo mondiale ha profondamente modificato i rapporti tra le classi sociali e le diverse aree del pianeta.
Il dato più eclatante pubblicato dal Corriere della Sera è quello relativo al crollo del monte salari. Mentre nel 1980 la quota del reddito nazionale destinata ai salari superava il 56%, alle soglie del nuovo millennio (1999) la quota si è drasticamente ridotta fino a rappresentare solo il 40%. In soli venti anni la percentuale della somma dei salari percepiti dal proletariato italiano in rapporto al prodotto nazionale è crollata sotto i colpi degli attacchi della borghesia. I più ottimisti difensori del capitalismo potrebbero obbiettare che la caduta del monte salari sia stata determinata dalla riduzione del numero di lavoratori dipendenti; ma puntuale il Corriere della Sera ci informa che la caduta del monte salari invece è dovuta al fatto che la retribuzione media dei lavoratori dipendenti in soli dieci anni, dal 1989 al 1998, è diminuita di quasi il nove percento, per essere precisi del 8,7%. Geminiello Alvi inoltre ci informa che la perdita di potere d'acquisto dei proletari del meridione d'Italia è stata ancora più consistente in quanto i salari si sono ridotti nello stesso periodo del 16,2%.
Negli ultimi due decenni il peggioramento delle condizioni economiche del proletariato italiano è stato costante nel tempo e smentisce clamorosamente nei fatti tutte quelle teorie economiche che vedevano nella globalizzazione dell'economia maggiore ricchezza per tutti.
I processi di trasformazione dell'economia mondiale, la finanziarizzazione ed il trasferimento della produzione industriale nei paesi il cui costo della forza lavoro è anche 35 volte inferiore rispetto a quello delle aree a capitalismo avanzato, modificando la struttura della società italiana e quella degli altri paesi, hanno imposto pesantissimi sacrifici al mondo del lavoro, con tagli generalizzati ai servizi sociali, laddove esistevano, e con una contrazione violenta del costo della forza lavoro. La tanto osannata globalizzazione dell'economia non solo si è concretizzata in un peggioramento complessivo per il proletariato mondiale, ma ha creato i presupposti per estendere quelle attività parassitarie che accentuano la concentrazione della ricchezza. A fronte del crollo dei salari sono infatti cresciute le quote destinate alle rendite ed ai profitti. Agli inizi degli anni ottanta le rendite e i profitti rappresentavano rispettivamente il 22,5% e il 21,3% del reddito nazionale. Alla fine degli anni novanta la quota spettante alle rendite rappresentava il 31,3% mentre ai profitti spettava il 28,6%. Nel 1980 il rapporto tra salari e la somma tra rendite e profitti era di quasi sessanta a quaranta, in venti anni tale rapporto si invertito e ora è di quaranta a sessanta.
La diversa distribuzione del reddito ha avuto delle conseguenze anche sui processi di concentrazione della ricchezza. Infatti, grazie ai processi di finanziarizzazione dell'economia, le rendite non solo sono cresciute in percentuale rispetto alle altre fonti di reddito ma hanno accentuato il divario esistente tra le diverse componenti sociali. Anche in Italia, così come negli altri paesi industrializzati, è aumentato il rapporto tra il volume della ricchezza finanziaria e volume annuo dell'attività economica; tale rapporto era pari al 210% all'inizio degli anni novanta ed è diventato del 360% alla fine del 1999. Nello stesso periodo il peso della componente azionaria è cresciuta a dismisura, tanto che la capitalizzazione della borsa di Milano è salita dal 40 al 125% del Pil.
Lo sviluppo delle attività finanziarie, per la caratteristica di essere quasi completamente estranee a qualsiasi attività produttiva, accentuano la concentrazione della ricchezza in poche mani. Infatti, sempre secondo i dati pubblicati dal Corriere della Sera, a partire dai primi anni Novanta i fenomeni di concentrazione della ricchezza riprendono vigore. In Italia ci sono 260 mila famiglie miliardarie con un patrimonio di 670 mila miliardi di lire, pari al 14% della ricchezza privata complessiva e il 7% degli italiani ne possiede ben il 44%.
Sono tutti dati che confermano pienamente la critica marxista dell'economia capitalistica che questi fenomeni ha ampiamente previsto e anticipato; ma Geminiello Alvi, a chiusura del suo commento, sferra invece un attacco frontale contro Marx e la sua teoria del valore-lavoro che è il fondamento della critica al capitale. Il fatto che i redditi da capitale, profitti e rendite, siano cresciuti a dismisura, è per Alvi motivo sufficiente per recuperare il concetto di surplus economico, ma non negli stessi termini di Marx. Testualmente scrive: "la teoria del valore-lavoro non funziona e inoltre il suplus si è ridistribuito, né poi è diminuito il tasso del profitto come prevedeva il marxismo" e poco oltre prosegue " il gran mutamento degli anni novanta è il patrimonializzarsi dell'economia, il fatto che i patrimoni comandano una quota di lavoro multipla rispetto al passato". Ma se sono i patrimoni il cardine del sistema occorre riprendere le teorie classiche di Smith il quale affermava che "il valore di una merce è uguale alla quantità di lavoro che essa mette in condizione di acquistare".
Ora, per Smith il valore della merce si risolve sostanzialmente nei salari percepiti dagli operai, e tale valore varia al variare del saggio dei salari, per Marx, invece, il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro socialmente necessario a produrla, e varia non al variare dei salari ma in relazione alla quantità di lavoro in essa contenuto.
Senza riprendere tutta la critica fatta da Marx alla citata teoria di Smith, qui ci è sufficiente rilevare che se si assume il valore della merce nei termini smithiani la formazione del surpuls rimane un mistero che Marx invece, grazie alla sua più puntuale teoria del valore-lavoro, ha svelato dimostrando che esso è il prodotto dello sfruttamento della forza-lavoro, cioè lavoro non retribuito.
I dati che la stessa borghesia ci offre confermano pienamente tutto ciò e la necessità del superamento del capitalismo. Ovviamente, il timore che in un prossimo futuro il proletariato possa riappropriarsi del programma rivoluzionario di classe elaborato dal marxismo e porre così all'ordine del giorno il seppellimento di questa società che ormai offre solo fame, guerre e miseria spaventa gli osservatori borghesi e soprattutto i più illuminati tanto da spingerli inorriditi fra le braccia del vecchio Smith nonostante non si sia ancora spento l'eco dei loro peana che inneggiavano alla fine di ogni contraddizione e alla scoperta di nuovi e perfetti paradigmi economici.
lpBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio 2001
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