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Una crescita che non crea occupazione e che abbassa i salari del proletariato
La tanto sospirata ripresa economica sembra proprio arrivata anche nel vecchio continente. Dopo un decennio di crescita del prodotto interno lordo quasi impercettibile, con politiche economiche restrittive e tese a favorire la nascita della nuova moneta unica, il nuovo millennio si apre con una vigorosa ripresa economica. Non passa giorno senza che sulla stampa o in televisione la martellante propaganda di regime esalti gli sforzi compiuti dalla borghesia europea nel seguire le politiche economiche del capitalismo statunitense. È stato sufficiente seguire gli Stati Uniti sul terreno della New economy ed introdurre una maggiore flessibilità nel mondo del lavoro ed anche la vecchia Europa ha ripreso la sua marcia verso lo sviluppo economico.
Secondo gli studi econometrici più ottimistici di governi e organizzazioni internazionali quest'anno la crescita economica nel vecchio continente sarà intorno al 3% e il trend positivo, sempre secondo le entusiastiche previsioni, è destinato a consolidarsi anche nei prossimi anni. Se l'Europa è finalmente uscita dal torpore in cui era caduta nell'ultimo decennio l'economia italiana sta vivendo un vero e proprio boom economico. I dati che la stampa borghese ci sta propinando in questi giorni non sembrano temere smentite di sorta; l'Italia è il paese che in Europa sta crescendo al ritmo più elevato. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale, che per anni ha bacchettato i vari governi che si sono succeduti alla guida del paese per essere poco incisivi nel contenimento della spesa pubblica e nel non tagliare a sufficienza le pensioni, si è recentemente sbilanciato nell'elogiare l'economia italiana, confermando i tassi di crescita economica previsti dal governo e da altri istituti di ricerca. Sempre secondo il Fondo Monetario Internazionale, il futuro dell'economia italiana sarà migliore del previsto; infatti, le previsioni di crescita elaborate a gennaio 2000 devono essere riviste al rialzo sia per l'anno in corso che per il 2001. Nel World Economic outlook, che sarà presentato nell'assemblea annuale del Fondo Monetario Internazionale a Praga il prossimo 19 settembre, è contenuta la previsione che la crescita del Pil italiano nel 2001 si manterrà al 3%, ben al di sopra del 2,5% precedentemente previsto.
Ci troviamo di fronte ad importanti segnali di ripresa economica che dovrebbero far ripartire lo sviluppo del capitalismo europeo ed italiano in modo particolare. Il ciclo economico europeo dovrebbe essere uscito definitivamente dal cono d'ombra della stagnazione per riprendere la fase ascendente che dovrebbe portare nel giro di poco tempo a un sensibile miglioramento delle condizioni di vita di milioni di lavoratori. Dopo la stagione dei sacrifici sembra proprio arrivata la stagione delle vacche grasse nella quale regneranno la pace e la prosperità. Per la borghesia si tratta ora di saper cogliere le opportunità della ripresa economica per rilanciare l'occupazione e ridurre il debito pubblico, vera spada di Damocle per lo sviluppo del paese. L'euforia della borghesia italiana per i buoni risultati ottenuti nella crescita del Pil è tale da presentare il meridione come la Silicon Valley italiana. Non più solo il Nord-est e le grandi fabbriche del Nord-ovest, ma anche le filiali delle grandi multinazionali che operano al sud hanno contribuito in maniera importante a far crescere il prodotto interno lordo. In un servizio apparso su Repubblica lo scorso mese d'agosto, la città di Catania, per la presenza di aziende del settore elettronico, veniva definita come l'Etna Valley capace di creare migliaia di posti di lavoro ed un tessuto industriale capace di trainare economicamente tutta la regione siciliana.
Ci troviamo quindi di fronte ad un nuovo miracolo economico con la prospettiva di un aumento dell'occupazione ed un miglioramento delle condizioni di vita del proletariato, oppure la ripresa dell'economia è il frutto di condizioni particolari che il capitalismo italiano è riuscito a sfruttare a pieno? Se andiamo ad analizzare nei dettagli i numeri della ripresa economica risalta subito come la crescita dell'economia italiana sia stata alimentata ancora una volta dalle esportazioni. La svalutazione dell'euro rispetto al dollaro non è poi quella tragedia che la borghesia italiana ci vuol far credere, ma è proprio questa svalutazione ad aver contribuito in maniera determinante all'incremento delle esportazioni e quindi alla crescita dell'intera economia. Se la borghesia europea fa finta di disperarsi per la svalutazione della moneta unica in quanto tutto questo fa perdere "prestigio" al vecchio continente, sotto i baffi se la ride perché proprio grazie alla svalutazione dell'euro le merci europee verso gli Stati Uniti diventano sempre più competitive. Una ripresa che non rappresenta quindi un'inversione della fase discendente del ciclo economico del capitalismo internazionale, ma sono le stesse contraddizioni strutturali del capitale ad aver temporaneamente favorito questa ripresa. Infatti, una delle componenti che stanno rendendo possibile la ripresa economica in Italia ed in Europa è che le imprese, le famiglie e lo stato americano continuino ad accumulare una montagna di debiti (l'intero debito statunitense supera i 12 mila miliardi di dollari), rinviando nel tempo l'esplodere di questa bolla speculativa, vera e propria bomba ad orologeria che potrebbe far saltare l'intero sistema finanziario internazionale.
Se nel passato le fasi di sviluppo dell'economia s'accompagnavano ad un aumento dei salari e degli stipendi dei lavoratori, alimentando il circolo virtuoso della crescita, questa ripresa è il frutto di una politica economica in cui la borghesia europea ha compresso fino all'impossibile il costo della forza lavoro.
Gli ultimi contratti firmati dalle varie organizzazioni sindacali prevedono un taglio medio al costo del lavoro di quasi il 15%. Nelle multinazionali che hanno installato le loro unità produttive alle pendici dell'Etna, il costo del lavoro di ingegneri, fisici, chimici e semplici operai è mediamente inferiore del 20% alla media nazionale, e del 50% rispetto agli Stati Uniti. Considerando anche la fiscalizzazione degli oneri sociali e i contributi a fondo perduto elargiti dalla regione, il costo del lavoro è inferiore del 40% rispetto alla media nazionale. La compressione del costo del lavoro non interessa solo il mezzogiorno d'Italia ma interessa tutto il proletariato italiano ed europeo. Nei primi giorni di settembre l'Istat ha reso noto alcuni dati che confermano come il costo del lavoro stia crescendo ad un ritmo nettamente inferiore al tasso d'inflazione; infatti, come rileva l'istituto di statistica, nell'ultimo anno mentre i salari e gli stipendi sono aumentati mediamente del 2%, l'inflazione è stata del 2,6%, e visti i continui aumenti dei beni di prima necessità (vedi benzina e carburanti in genere) supererà la soglia del 3% entro la fine dell'anno in corso.
La tanto osannata ripresa dell'economia italiana oltre a sfruttare la svalutazione dell'euro si basa quindi sostanzialmente sulla riduzione generalizzata dei salari e degli stipendi e non ha creato un solo nuovo posto di lavoro.
In un suo rapporto dello scorso mese di luglio, l'Istat ha reso noto che nella grande industria sono andati persi oltre 120 mila posti di lavoro, posti di lavoro che il settore dei servizi non è riuscito ad assorbire. Chiamata nel recente passato a farsi carico di pesanti sacrifici per permettere all'Europa di rispettare i parametri di Maastricht, la classe proletaria è oggi attaccata dalla borghesia e dal suo stato per sostenere la stessa ripresa economica. Una ripresa economica che fa aumentare i profitti della borghesia, ma che impone al proletariato di cedere anche quelle misere briciole strappate coi denti in un ormai lontano passato.
plBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #9
Settembre 2000
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