La Lega è espressione della barbarie borghese e del disarmo proletario

Derive borghesi, sbandamento del proletariato, quel che non s’ha da fare e quel che è necessario

La fine (?) della Prima Repubblica ha rotto, come si sa, l’equilibrio politico su cui si reggeva il potere delle varie bande borghesi, le quali, per far navigare la barca del capitalismo italiano nel mare tempestoso della globalizzazione, ce la stanno mettendo tutta al fine di dotarsi di “nuove” forme istituzionali le quali, dando la necessaria (per la borghesia) stabilità, sappiano assicurare il controllo della classe operaia e del proletariato in genere.

Da Alleanza Nazionale a Rifondazione Comunista, ognuno avanza la sua brava proposta di riforma dello stato ossia - visto che per noi marxisti lo stato non si può riformare ma solo distruggere - di ripulitura da quelle incrostazioni divenute dannose per il dominio di classe; il tutto accompagnato, naturalmente, dalla “riforma dello stato sociale”. cioè la rapina totale di quanto resta del salario differito.

In questo coro disgustoso si distingue la Lega Nord, non per essere meno disgustosa, ma perché, a differenza delle altre bande, esprime le aspirazioni e gli interessi di una parte sola della borghesia italiana, quella piccola e media borghesia del Nord che, per le sue dimensioni, deve accontentarsi di sbafare i soldi dello stato dopo che il grande capitale si è servito.

L’aggressività politica della Lega è espressione diretta dell’aggressività di tanti padroni e padroncini che, per reggere la concorrenza e sod-disfare le commesse della grande industria da cui molto spesso dipendono, impongono nelle loro imprese rapporti di lavoro di tipo schiavistico. Per es., il cosiddetto miracolo economico del Nord-Est, roccaforte leghista, ha alla base proprio lo sfruttamento furibondo di una classe operaia che a causa - ma non solo - della frantumazione in tante piccole aziende, non riesce, se non in via del tutto eccezionale, a dare risposte, seppur minime, che in qualche modo possano attenuare l’ingordigia padronale. Infatti, tanto per citare qualche dato, il Triveneto - assieme all’Emilia Romagna, altra regione caratteriz-zata dalla piccola e media impresa - è in testa alla classifica degli infortuni sul lavoro che, per il solo Veneto nel 1992 “sono costati alla collettività quasi 1100 miliardi” (il Manifesto, 30-5-97). Siccome chi paga le tasse nella “collettività” sono quasi esclusivamente i lavo-ratori dipendenti, ne traiamo la scontata conclusione che ancora una volta i padroni scaricano i costi improduttivi sul lavoro sala-riato. Gli osceni lamenti su “le tasse che soffocano l’impresa” provenienti da un padronato sempre più incanaglito e rapace, che occupa ormai permanentemente gli schermi televisivi, hanno appunto lo scopo di smantellare ciò che rimane di oltre un secolo di lotte operaie (benché spesso addomesticate), con la continua richiesta di flessibilità della manodopera, mentre, contemporaneamente, esigono dallo stato (più o meno padano) che faccia con ancor più forza ciò che ha sempre fatto negli ultimi cinquant’anni ossia che continui a ingozzare “l’impresa” di denaro pubblico, cioè nostro. A dir la verità, però, in questo il borghese legaiolo si distingue poco o niente dal suo collega forzista o progressista, dato che per tutti il liberismo finisce quando si tratta di intascare sovvenzioni statali e facilitazioni di ogni tipo.

Ma il vero dato drammatico è che la borghesia riesce a coinvolgere nei suoi piani strati non indifferenti di classe operaia, e non solo nelle tradizionali, bigotte “Vandee” italiane (per usare un’espressione di Bordiga anni ‘20), ma un po’ in tutta Italia. Nell’assalto al campanile di piazza S. Marco, metà dei componenti di quella che qualcuno, in Veneto, ha battezzato “brigate mona” (tonti, stupidi, ecc.), erano operai. E per che cosa lottano questi “mona“ di operai? Per i rozzi borghesi della LIFE (Liberi imprenditori federalisti europei), bieca e sordida accozzaglia di padroni e liberi professionisti che non hanno mai pagato una lira di tasse e sempre sfruttato fino all’osso la loro manodopera, i quali si sono affrettati a solidarizzare con quella specie di commando. Se prima, dunque, una fetta non indifferente del proletariato del Nord-Est era tenuta legata al carro borghese dalla religione in salsa democristiana, oggi la borghesia si è inventata un altro mito per rimbecillire gli operai, un mito etnico-culturale che tragici frutti ha dato proprio a due passi da casa, ma che suggestiona le menti di tanti operai incapaci di riconoscersi come classe opposta e nemica a quella dei padroni, siano essi il cognato che ti fa sgobbare dieci-dodici ore al giorno nella sua fabbrichetta, o il grande industriale dell’Ulivo, preoccupato dei contraccolpi economici che le rozze parole d’ordine della Lega possono provocare in un contesto economico già difficile. Ancora una volta, allora, per capire e lottare contro la miseria del presente, bisogna ritornare a Marx, secondo il quale (e anche secondo noi) il proletariato o è rivoluzionario o non è nulla, materia inerte plasmata dall’ideologia della classe dominante che è sempre quella della classe dominante. Per questo, se non è guidato dalla prospettiva comunista, dal partito di classe, quando si muove pungolato dalle crisi economico-sociali, può farlo solo confusamente e, non di rado, nella direzione sbagliata. Anche tra le squadracce fasciste c’erano operai e disoccupati, e ancor di più nelle SA, i gruppi d’assalto nazisti, che assassinavano i loro fratelli di classe comunisti nel nome della nazione o della comunità di sangue ariana, dove le disparità sociali si sarebbero composte in un’immaginaria armonia comunitaria; insomma, il solito interclassismo, spogliato però dei fronzoli democratici e progressisti, ormai di peso al capitale italiano e tedesco.

Ma se nel proletariato del triveneto il ripugnante fenomeno leghista ha toccato - per ora - le punte più estreme, anche nel resto del Nord avvelena settori più o meno ampi di classe operaia, favorito, come abbiamo sempre detto, dal crollo di ciò che si credeva il comunismo e dal conseguente sbracato sputtanamento del PCI - PDS.

Quanti operai, negli scorsi decenni, hanno scioperato “per lo sviluppo del Mezzogiorno”, sforzandosi di cacciare dalla mente il sospetto che forse i loro sacrifici erano inutili, sorretti dalla speranza che un giorno PCI e Sindacato, le “loro” organizzazioni di classe (almeno così dicevano di essere...), li avrebbero ripagati conquistando il potere e regolando i conti con un regime che, oltre a sfruttarli, non aveva alcun ritegno a “sfondare” migliaia di miliardi in opere pubbliche inutili, per la gioia di mafiosi, industriali (del Nord e del Sud) e politici, strettamente legati da un groviglio inestricabile di interessi? Da un giorno all’altro si sono sentiti dire che c’era stato un errore, che il comunismo è, nella migliore delle ipotesi, un sogno irrealizzabile, che c’era anche una DC brava e buona, che le classi e l’oppressione di classe sono cose del secolo scorso o del Terzo Mondo, perché oggi siamo tutti cittadini, membri di una stessa famiglia, i cui membri hanno quindi gli stessi interessi da difendere.

È ovvio, allora, che una volta rotta la diga formata da una seppur vaga coscienza di classe o di appartenenza di classe, i sordidi istinti che covano in una società per natura antisociale, perché fondata sull’individualismo, sono dilagati anche tra gli operai. Non importa se gli esponenti leghisti sono molto spesso “i coglioni del paese”: proprio per questo sanno toccare l’operaio e il proletario privati dell’identità di classe, con i grezzi e vuoti discorsi da bar, dove proletari e piccolo-borghesi si fondono in un’indistinta e acida marmellata sociale, dove l’operaio e il padroncino gioiscono assieme per la squadra del cuore, e assieme imprecano in modo qualunquistico contro i politici che “mangiano” o contro gli immigrati che turbano la quiete.

Insomma, per concludere, la barbarie sociale che avanza, di pari passo con l’incancrenirsi della crisi del capitale, pone ai comunisti come uno degli obiettivi prioritari quello di contrastare ed estirpare dal corpo della classe il cancro del leghismo e del nazionalismo in genere; oggi, per le deboli forze rivoluzionarie, questo è un compito enorme, ma sarebbe un po’ meno enorme se certi compagni la smettessero una buona volta di parlarsi allo specchio e cominciassero a parlare con chi condivide la meta finale...

Quel che non s’ha da fare

Non dimenticare le proprie differenze o le stratificazioni storiche e sociali, ma metterle a frutto insieme: questa è la sola ragionevole scelta per opporsi a un futuro “etnico”.

Pierluigi Sullo su Il Manifesto del 6 giugno

Quel mettere insieme viene definitivo nel dotto articolo anche “autonomia municipale” che viene vista come “il fondamento di una democrazia rinnovata in cui si mescolino forme di rappresentanza diverse”.

Ebbene, se per un verso è ammirevole lo sforzo di rintracciare nelle dinamiche della barbarie le vie per contenerla, è anche evidente lo spirito che anima tale nobile intento: conservare gli equilibri sociali e statuali della società così come è data.

L’esatto contrario della posizione marxista e comunista, da una parte, e soprattutto delle urgenze generali e locali dall’altra.

Sullo, il Manifesto e l’ala padovana dell’autonomia vogliono mettere insieme, nell’autonomia municipale, le differenze sociali; è urgente invece sottolinearle come tali, fare emergere la divaricazione, rilan-ciare l’iniziativa proletaria nella lotta di classe.

È questa, nello specifico, la differenza che separa la sinistra dello schieramento borghese, dallo schieramento di classe.

Ultima notazione: le forze pure e sagge, interne a una formazione sociale non hanno mai, nella storia, fermato la sua deriva, quando le condizioni oggettive la determinavano. In quelle situazioni o si salta o si sprofonda. Può essere che a fare il salto non ce la si faccia, ora, ma è certo che è meglio accumulare le forze per compierlo che non accontentarsi di sprofondare insieme a ciò che si vorrebbe salvare.

cbm

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.