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Gli ultimi anni hanno visto prodursi, nel comportamento dei Sindacati, mutamenti profondi la cui natura, ampiezza e profondità hanno però introdotto non pochi elementi di confusione.
Fra gli stessi lavoratori e anche fra le forze e i raggruppamenti politici che in qualche modo si richiamano alla sinistra comunista si vanno facendo strada interrogativi che non trovano sempre adeguata risposta.
Il difetto, a nostro modo di vedere, è dato dal fatto che i più non si curano di calarsi nel seno delle contraddizioni esistenti nel rapporto tra capitale e lavoro, ma si limitano alle constatazioni formali producendo analisi che quasi sempre fanno bella mostra del loro rigore formale, ma mai giungono a centrare il cuore dei problemi.
Vi è così chi rimpiange il sindacato "dei consigli", chi, dalla parte opposta, liquida la questione riproponendoci "un'approfondita rilettura" di Salario prezzo e profitto e chi, ancora, la schiva immaginando crisi esistenziali dell'intera classe operaia dalle quali dovrebbe sgorgare la "coscienza rivoluzionaria": i rivoluzionari, insomma, indicano l'obiettivo finale, ma il resto è opera della classe e pertanto non esiste il problema.
Il Sindacato che oggi abbiamo di fronte, in realtà, pur avendo subito non pochi mutamenti, è lo stesso di trenta o quaranta anni fa; lo è almeno per quel che riguarda il suo ruolo fondamentale.
Non vi è dunque stata, negli anni recenti, una svolta profonda che ha determinato tali mutamenti, al contrario essi risultano essere la logica e dialettica continuazione di un processo che viene da lontano e muove interamente dal costante cambiamento del rapporto tra capitale e lavoro, in relazione allo sviluppo delle forme di gestione monopolistica.
Già nell'immediato dopoguerra il nostro Partito coglieva pienamente questo aspetto, rilevando che:
sarebbe imperdonabile cecità credere e far credere che possa essere possibile al capitalismo realizzare gli obiettivi della trasformazione monopolistica della sua economia senza la collaborazione dei Sindacati, con una politica salariale che possa conciliare le esigenze degli operai con quelle della grande industria di vincere la concorrenza con gli altri complessi monopolistici su scala internazionale, ovvero se i sindacati non realizzano una politica di pace sociale e di contenimento delle "pretese" operaie; che esso possa condurre infine vittoriosamente la guerra di supremazia imperialistica se non ci fossero i sindacali a garantire la solidarietà concreta, non importa se coatta, delle masse lavorateci.
I comunisti internazionalisti e la questione sindacale
Tale affermazione, come appare evidente, comportava un'analisi che scontava il superamento della tesi indicata da Marx nel suo Salano prezzo e profitto, per la quale tutte le rivendicazioni e gli aumenti salariali, almeno in un primo momento, producevano una diminuzione del saggio del profitto nel ramo dell'industria considerato.
In polemica con Weston, che sosteneva che ogni aumento dei salari sarebbe stato automaticamente assorbito dal conseguente aumento dei prezzi, Marx, con estrema lucidità, mostrò l'inesattezza di tale relazione, ma come possiamo constatare dalla rilettura dell'opera sopra citata, egli si mosse assumendo i movimenti dei salari e dei prezzi nell'ambito di un mercato secondo le regole del regime di libera concorrenza.
Scrive infatti:
Il cittadino Weston ha dimenticato, a sua volta, che la zuppiera nella quale mangiano gli operai è riempita dall'intero prodotto del lavoro nazionale e che ciò che impedisce loro di prenderne di più non è la piccolezza della zuppiera né la scarsità del suo contenuto, ma soltanto la piccolezza dei loro cucchiai. Con quale artifizio il capitalista è in condizione di dare per cinque scellini il valore di quattro? Con l'aumento del prezzo delle merci che egli vende. Ma l'aumento dei prezzi e, in generale, la variazione dei prezzi delle merci, i prezzi delle merci insomma, dipendono essi dalla sola volontà del capitalista? Oppure è necessario il concorso di determinate circostanze perché questa volontà si realizzi? Se non è così, gli alti e i bassi, le incessanti fluttuazioni dei prezzi di mercato diventano un enigma insolubile.
Successivamente, esaminando tutti i movimenti conseguenti alla modificazione della domanda, come effetto dell'aumento dei salari, Marx mostra che, in realtà, l'aumento dei prezzi previsto da Weston non è per nulla scontato, essendo il processo molto più complesso ed articolato:
Un aumento generale dei salari provocherà dunque un aumento nella domanda degli oggetti di prima necessità e, conseguentemente, un aumento dei loro prezzi di mercato. I capitalisti che producono questi oggetti di prima necessità, con l'aumento dei prezzi di mercato delle merci sarebbero compensati dall'aumento dei salari. Ma che ne è degli altri capitalisti, che non producono oggetti di prima necessità?
Marx, op. cit.
Evidentemente, essi, a causa dell'aumento generale dei salari, vedrebbero ridotta la loro capacità - come diremmo oggi - di consumo e nello stesso tempo non potrebbero rivalersi con l'aumento dei prezzi in quanto è presumibile che la domanda dei beni non di prima necessità non subirebbe grosse variazioni in seguito all'aumento dei salari, perciò...
in questi rami dell'industria il saggio del profitto cadrebbe [...] Quale sarebbe la conseguenza di questa differenza nei saggi di profitto dei capitali impiegati nei differenti rami di industria? [...] Capitale e lavoro si sposterebbero dai rami meno remunerativi a quelli più remunerativi; e questo processo di spostamento durerebbe sino a tanto che l'offerta in un ramo l'industria fosse salita proporzionalmente alla maggiore domanda e fosse caduta negli altri rami in ragione della domanda minore. Una volta compiuto questo cambiamento, nei diversi rami dell'industria si ritornerebbe al saggio generale del profitto [...] La caduta del saggio del profitto, conseguente all'aumento dei salari, diventerebbe così generale, invece di rimanere limitato solo ad alcuni rami d'industria.
Marx, op. cit.
È evidente, d'altra parte, che se anche non risultasse vera l'ipotesi della diminuzione della domanda dei beni non di prima necessità il risultato finale non muterebbe in quanto, comunque, avendo assunto la domanda complessiva come data, si produrrebbe uno spostamento del potere d'acquisto dai capitalisti verso gli operai. A Marx, ovviamente, non sfugge che l'assumere la domanda come data sia un artificio teorico necessario per poter porre la questione su un piano più propriamente scientifico e per sottrarla all'empirismo del cittadino Weston.
L'aumento generale dei salari, infatti, non può essere visto attraverso la semplicistica relazione di esso con il livello generale dei prezzi senza prima aver definito che cosa determina certi prezzi cioè quale sia l'unità di misura che consente la loro formazione, ivi compreso quello della forza-lavoro.
Sappiamo, e non è qui il caso di soffermarvisi, come Marx abbia correttamente posto e risolto questo problema per cui egli giunse alla conclusione, coerentemente scientifica, che, se è vero che l'aumento generale dei salari determina la riduzione del saggio del profitto è anche vero che il rapporto fra Capitale e Lavoro è tale per cui il sistema nel suo insieme può sempre recuperare gli aumenti generali del salario e vanificarli con buona pace di tutta una cultura sindacale che aveva visto nella lotta economica la via indolore per giungere al socialismo.
La lotta economica era dunque per Marx palestra di lotta rivoluzionaria in quanto da essa emerge l'inconciliabilità del conflitto fra capitalisti e classe operaia; inconciliabilità derivante dal fatto che i due termini della relazione (capitale e lavoro) sono antitetici: non può aumentare l'uno senza che diminuisca l'altro; ma, nello stesso tempo, l'eventuale riduzione del saggio del profitto non è, una volta prodottasi, acquisita definitivamente.
Al contrario, lo sviluppo tecnologico, l'aumento della produttività del lavoro, il crescente allargamento della base produttiva fanno sì che l'operaio è continuamente costretto a lottare per difendere il suo reale potere d'acquisto in relazione al fatto che con il salario viene pagato non il lavoro effettivamente ceduto, ma l'impiego della forza-lavoro per un certo periodo di tempo, per cui quando il capitalista riesce a contrarre il tempo necessario per produrre una quantità di merci pari al salario realizza un'appropriazione di plusvalore maggiore e ciò indipendentemente dalle espressioni monetarie dei salari stessi.
Il sistema capitalistico, insomma, non crolla in conseguenza della lotta economica che dovesse restare tale, ma la lotta economica costituisce, per le ragioni appena esposte, il punto di partenza di ogni possibile azione contro il capitale.
Se la classe operaia -- scrive Marx -- cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano contro il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande. Nello stesso tempo la classe operaia, indipendentemente dalla servitù generale legata al sistema del lavoro salariato, non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che essa può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia [...] Invece della parola d'ordine conservatrice "un equo salario per un'equa giornata di lavoro", gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: "soppressione del sistema del lavoro salariato".
L'interprete più coerente della lezione di Marx fu senz'altro Lenin, che, muovendo da Salario prezzo e profitto, arrivò alla conclusione che i comunisti hanno come compito specifico quello di rappresentare l'elemento di raccordo fra la lotta quotidiana e quella più generale contro il capitale.
Lo strumento indispensabile affinché questo compito potesse essere portato a termine non poteva che essere il sindacato, l'organismo, cioè, dove la lotta economica meglio si esprimeva e nel quale confluivano anche gli operai non direttamente influenzati dal Partito.
Il sindacato non avrebbe potuto per sua natura essere il mezzo della realizzazione rivoluzionaria, ma avrebbe potuto essere il veicolo di trasmissione, la cinghia con la quale il partito rivoluzionario si sarebbe collegato all'agitarsi quotidiano della classe, frammentata nei diversi settori produttivi, per indirizzare ciò che era confuso, limitato e precario verso soluzioni definitive chiare ed inequivocabilmente di classe.
Fino a qui, è evidente, il sindacato è visto come un organismo senz'altro limitato ma utile, poiché è in esso e tramite esso che la classe conduce il suo attacco quotidiano al capitale che si concretizza, quando la lotta è vittoriosa, con lo spostamento a favore del lavoro salariato, di quote di lavoro necessario che vengono così sottratte al profitto.
Il conflitto, benché limitato e parziale nei suoi risultati, vale come momento di educazione politica della classe, la quale, nel vivo della sua esperienza quotidiana, verifica l'inconciliabilità dei suoi interessi con quelli del capitale. Impara a riconoscere il nemico, ad identificare le ragioni della sua esistenza e, all'occorrenza, ad indirizzare contro di esso tutti i motivi del suo odio e a trovare in se stessa la determinazione, la volontà e la forza di farla finita una volta per tutte.
Come possiamo constatare, dunque, tanto Marx quanto Lenin traggono le loro lezioni dall'esame obiettivo dei mutamenti che intervengono nei rapporti tra capitale e lavoro per effetto della lotta economica; ovvero dal verificare se effettivamente essa rappresenti, pur nel suo specifico, un conflitto capace - come dire? - di far aprire gli occhi a coloro che vengono resi ciechi da un'esistenza infame di servitù.
Il sindacato nel terzo ciclo di accumulazione del capitale
Partito Comunista Internazionalista, Ottobre 1986In appendice un estratto dalle Tesi sulla tattica del Quinto Congresso del Partito Comunista Internazionalista, Milano, novembre 1982
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