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Possiamo, per parte nostra, ritenere ancora tutta ed interamente valida questa lezione? Possiamo pensare al sindacato ed alla lotta economica negli stessi termini di Marx e di Lenin? Se sì, non avremmo, evidentemente, particolari sforzi da compiere e alle attuali difficoltà della classe di muoversi e di difendersi dovremmo rispondere semplicemente indicando alla classe la via della ricostruzione del sindacato o del recupero di quelli esistenti.
Ed è ciò, bisogna ammetterlo, che frulla nella testa di tanti "sinistri" ed anche di fette consistenti di lavoratori.
La lunga citazione iniziale di Marx ci mostra come egli faccia specifico riferimento ad una realtà dove l'aumento del prezzo di un fattore della produzione - quello della forza lavoro - attiva un processo di modificazioni nella domanda e nell'offerta fino a produrre un abbassamento del saggio generale del profitto. In questo processo il capitalista nulla può contro i movimenti dei prezzi; essi oscillano attorno a dei valori-base (le quantità di lavoro contenute nelle merci misurate in relazione al tempo necessario a riprodurre i mezzi consumati dai lavoratori e a quello rimanente necessario per la produzione del plusvalore), senza che interferenze sostanziali possano modificare le fluttuazioni. Il capitalista colpito dalla "disgrazia" può solo rinunciare a una quota del plusvalore di cui si appropria, salvo attivare processi di modifica delle combinazioni produttive in modo da ottenere con la stessa quantità di lavoro vivo una quantità accresciuta di plusvalore o, che per lui è teoricamente la stessa cosa, ottenere la stessa quantità di plusvalore riducendo l'impiego di forza-lavoro (che è il processo con il quale, come Marx sottolinea, il capitale vanifica le conquiste salariali).
Ammettiamo ora che il capitalista controlli, oltre una certa quantità di forza-lavoro (capitale variabile) e di mezzi di produzione (capitale costante), anche una fetta più o meno grande di mercato: un mercato nel quale egli può, in qualche modo, interferire nelle fluttuazioni dei prezzi e del saggio di profitto.
Lo scenario che si delinea risulta, immediatamente, completamente diverso. I margini a disposizione si allargano grazie a tutta una nuova serie di opzioni che il capitalista ha alla sua portata:
- può scegliere per un aumento salariale pari all'aumento dei prezzi che egli può controllare senza subire la concorrenza di altri capitali;
- può concedere aumenti anche oltre questo limite se ciò gli consente di aumentare la produzione e, rinunciando temporaneamente ad una certa quota di plusvalore, conquistare fette più grandi di mercato sul quale esercitare un comando ancora più intenso;
- può concedere aumenti anche non rivendicati qualora con ciò si assicuri la stabilità del ciclo produttivo in relazione all'eventuale possibilità di controllare mercati diversi nei quali praticare prezzi differenziati, ed esattamente prezzi più alti sui mercati nei quali più vasto è il suo potere e prezzi più bassi sugli altri;
- può concedere aumenti anche non rivendicati, quando ad esempio, in virtù dell'introduzione di nuove tecnologie, si determina una nuova curva dei costi per la quale il massimo profitto si realizza incrementando le vendite. L'aumento dei salari agisce in questo caso da veicolo di ampiamente della domanda e tale processo sarà tanto più intenso quanto più grande e la quantità di forza-lavoro e di mercato posti sotto il suo controllo.
Ognuna di queste opzioni contiene in sé elementi di ammortizzamento dello scontro sociale ed anche punti di contatto fra gli interessi immediati dei lavoratori e quelli del capitalista. Non riconoscere che ciò possa determinare una modificazione dei termini entro i quali si svolge la compravendita della forza-lavoro, significa negare un secolo di sviluppo capitalistico. Il mondo economico moderno è dominato dalla grande impresa monopolistica ed il potere di questa si è esteso a tutti i momenti dell'attività produttiva e distributiva su scala mondiale tant'è che, come abbiamo più volte mostrato e dimostrato parlando della crisi economica attuale, anche le aree cosiddette periferiche subiscono l'interferenza delle grandi centrali imperialistiche nei processi di formazione dei prezzi e non poco plusvalore migra da queste aree verso quelle metropolitane.
I movimenti del saggio del profitto in un simile contesto economico risultano, evidentemente, meno elastici, in relazione alle variazioni dei prezzi della forza-lavoro, di quelli esaminati da Marx; pertanto la lotta economica, già limitata per sua natura, subisce ulteriori possibilità di ricomposizione fino al punto da delineare, in base alle opzioni cresciute del capitale, momenti di confluenza fra i due antagonisti. L'antagonismo storico fra classe operaia e borghesia non viene con ciò soppresso, anzi si accresce, ma dilatandosi in una dimensione che va oltre i cancelli delle singole unità produttive dove invece il conflitto quotidiano trova tutti i motivi del suo essere e del suo divenire.
Nel processo storico di sviluppo delle forme economiche monopolistiche, il sindacato, che sin dalla sua nascita si è posto essenzialmente come tentativo di gestione controllata dell'offerta di forza-lavoro con lo scopo di determinarne prezzi più alti di quelli che avrebbe potuto spuntare l'operaio in una eventuale contrattazione individuale, ha subito un lento ma inesorabile processo di coinvolgimento nella gestione delle imprese. Soprattutto nei momenti di espansione del ciclo di accumulazione del capitale e, quindi, di espansione del mercato - prevalendo nella grande impresa l'interesse a mantenere costanti certi standard produttivi, altrimenti compromessi dal conflitto economico - il sindacato si è trovato di fronte un padronato che addirittura lo anticipava nella concessione di aumenti salariali resi possibili, appunto, dall'elevata quota di extra-profitti che in genere questo tipo di impresa realizza grazie alla sua capacità di intervenire sui processi di formazione dei prezzi.
In questa realtà così modificata il sindacato ha perduto, per certi versi, gran parte delle ragioni della sua esistenza e, per altri, ne ha acquistate di nuove.
La condizione per la quale il capitalismo monopolistico è in grado di assorbire meglio le fluttuazioni del prezzo della forza-lavoro determina, infatti, una maggiore flessibilità, ma contemporaneamente introduce, nel rapporto capitale-lavoro, nuove rigidità.
Il comando sul mercato, o su una parte di esso, che è la condizione necessaria per l'attenuazione della concorrenza, se da un lato da all'impresa monopolistica più ampi margini, dall'altro, per essere mantenuto e difeso, impone la massima razionalizzazione dei processi produttivi e degli investimenti ad essi connessi. Occorre, infatti, che l'impresa occupi realmente e costantemente il mercato da essa controllato e per prezzi e per quantità prodotte tali da impedire la formazione di altri cartelli o trust.
La centralizzazione del potere che si accompagna ai processi di concentrazione del capitale, consente, a tale scopo, di porre sotto controllo tutti i processi economici e finanziari che interessano il centro monopolistico; ma il controllo della forza-lavoro, per essere questa espressione dell'attività di uomini sottoposti a sfruttamento, richiede strumenti capaci di condizionare politicamente questo "fattore produttivo" e, perciò, strumenti di tipo particolare.
Improvvise fiammate della lotta di classe, scontri non previsti possono produrre effetti sconquassanti rispetto all'esigenza di stabilità dei cicli produttivi delle imprese che è il presupposto obbligato della difesa e del mantenimento della posizione monopolistica.
Di fronte a questi rischi il capitalismo monopolistico può assumere due diverse posizioni: può ricorrere alla repressione diretta della classe operaia o al suo coinvolgimento. L'una e l'altra cosa non sono, è evidente, opzioni che possono essere decise a tavolino, ma le risultanti delle condizioni storiche che si hanno in ogni specifica situazione. Il fascismo, ad esempio, pose fuori legge i sindacati ed abolì il diritto di sciopero, ma contemporaneamente in Inghilterra e negli Stati Uniti i sindacati divennero lo strumento più idoneo per il coinvolgimento della classe operaia nelle vicende alterne della grande crisi e, successivamente, nella seconda guerra imperialista.
Di conseguenza, il sindacato, mentre vede gran parte delle sue funzioni tradizionali interamente assorbite dal capitale stesso, è anche sollecitato a costituirsi come momento di garanzia e di stabilità del sistema capitalistico in aggiunta o in sostituzione degli altri strumenti di repressione politica ed ideologica propri della borghesia.
Esso, non esprimendo una critica complessiva della società capitalistica, ma un momento e soltanto un momento dell'antagonismo fra capitale e lavoro, è via via divenuto inevitabilmente qualcosa di profondamente diverso, uno strumento di gestione di uno dei costi della produzione e, nella misura in cui è riuscito a distribuire le briciole degli extra-profitti, camuffandoli come grandi conquiste delle lotte da esso dirette, ha esteso il suo controllo sulla classe operaia in base ad un vasto e crescente consenso.
D'altra parte, come pensare ad un processo diverso se la realtà indicava agli operai stessi che l'interesse dell'impresa coincideva anche con il loro, laddove dai ricchi extra-profitti il salario riceveva miglioramenti?
Venendo meno o, meglio, attenuandosi l'inconciliabilità degli interessi immediati tutta un'ideologia interclassista ha potuto svilupparsi ed attecchire nel seno stesso della classe operaia e prima ancora nel sindacato.
Di più, allo sviluppo delle forme economiche monopolistiche si è accompagnato lo sviluppo dell'intervento dello Stato nell'economia come fattore di stabilizzazione di molte contraddizioni sociali. Anche qui la mediazione del sindacato è divenuta via via determinante in ragione dell'effettiva possibilità di scambiare pace sociale con benefici economici ed assistenziali.
L'antico rapporto tra capitale e lavoro, nel quale il contrasto d'interessi e la sua inconciliabilità venivano posti immediatamente a nudo anche nel corso del conflitto immediato, ha trovato nello stato, e tramite il sindacato, un altro fattore di composizione.
Il Sindacato-istituzione è l'approdo inevitabile di questo processo, non il frutto di chissà quali tradimenti. I quadri che lo hanno diretto, gli operai stessi che vi hanno aderito si sono visti crescere nelle mani uno strumento di grande potere e lo hanno ritenuto come il frutto delle lotte da essi condotte.
Chi ci obbietta che, nel corso di questo lungo processo, non raramente si sono manifestati conflitti anche intensi all'interno delle fabbriche e della società - conflitti che potrebbero indicare l'ininfluenza dei processi di concentrazione dei mezzi di produzione sulla lotta economica - ignora, evidentemente, che il processo da noi sinteticamente descritto, come ogni processo di modificazione dei rapporti fra capitale e lavoro e, più in generale, dei rapporti sociali, non è un progetto studiato a tavolino che viene realizzato nel tempo, ma il frutto di contraddizioni che si sviluppano e crescono attivando conflitti sia fra le diverse classi sociali che all'interno delle stesse classi dominanti.
L'affermarsi di una borghesia monopolistica non è una scelta della borghesia, come classe complessiva che intravede in ciò un momento di rafforzamento del suo dominio, ma è la vittoria inevitabile dell'unica forma economica che poteva dare al capitale la possibilità di sopravvivere all'antagonismo inconciliabile fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione e quindi la vittoria di forme economiche nuove su quelle vecchie.
Passaggi così determinanti nelle forme di gestione economica non avvengono in maniera indolore, ma producono profonde lacerazioni nelle quali possono maturare anche soluzioni rivoluzionarie. Il fatto che vi siano stati conflitti anche intensi, dunque, è da considerarsi del tutto fisiologico al processo stesso.
Non bisogna inoltre dimenticare che la svolta decisiva è intervenuta, almeno in Italia, durante e dopo il secondo conflitto mondiale, quando cioè il monopolio aveva già prodotto nuovi equilibri imperialistici ruotanti attorno a due poli fondamentali, quello russo e quello statunitense, entrambi capaci di esercitare una forte attrazione sulle forze politiche italiane e quindi, tramite esse, sui sindacati, cosicché non poche volte il conflitto sindacale ha mascherato quello interimperialistico per il controllo e l'acquisizione di aree sempre più vaste di influenza.
A ben vedere, l'essere il sindacato momento di contrattazione della forza-lavoro e non di negazione di questa ignobile compravendita, l'essere cioè elemento "dialetticamente distinto", come direbbe Croce, ma non opposto, ha inevitabilmente determinato il suo legame all'intera vicenda capitalistica, della quale ha subito fino in fondo le leggi di crescita e di sviluppo.
Di fronte a così vasti e profondi mutamenti, il nostro Partito, come già sottolineavamo all'inizio, si rese ben presto conto che la lezione leninista al riguardo era da considerarsi del tutto superata e soprattutto che il sindacato (dal momento che non esprimeva più un reale conflitto, se non in maniera del tutto casuale, fra le classi in campo), in quanto tale, non poteva più essere utilizzato come cinghia di trasmissione delle indicazioni e delle parole d'ordine del partito rivoluzionario. Ne discendeva che i gruppi di fabbrica, ai quali, nelle Tesi del 1922, veniva affidato il compito di conquistare i sindacati dall'interno, avrebbero dovuto svolgere compiti nuovi.
Il gruppo di fabbrica, diretta emanazione del Partito sui posti di lavoro, veniva a trovarsi così nella necessità di assumere la veste di organismo politico del partito nella classe, che muove le sue azioni dalle istanze immediate dei lavoratori. Tale compito, d'altra parte, nasceva dalla coscienza che comunque il conflitto economico fra capitale e lavoro avrebbe mantenuto sempre le sue ragioni d'esistere e che, benché controllato, avrebbe continuato a costituire il terreno sul quale le iniziative eventuali della classe avrebbero potuto maturare.
Non prevedere la presenza attiva ed operante del Partito proprio in quella fase della lotta dove più è possibile la mistificazione, avrebbe comportato la completa estraniazione del partito stesso dalla vita della classe e quindi avrebbe pregiudicato ogni possibilità di allargamento della base sociale, oltre a ogni possibilità di elaborazione teorica e politica, nascendo questa non da vezzi intellettualistici, ma dalla necessità di comprendere ed analizzare i problemi che la classe ha di fronte nel tentativo di pervenire di volta in volta alle soluzioni più adeguate.
Vi fu, come è noto, chi sostenne che una simile presenza altro non sarebbe stata che il puntello da sinistra dello stalinismo. Il prosieguo della storia ha mostrato invece che certi "purismi" estetici hanno portato alle sponde di un malcelato idealismo quando non a quelle del più aperto opportunismo, fino ad atteggiamenti di totale estraniazione non solo dalla lotta economica, ma anche da quella politica, mentre non un solo episodio di cedimento opportunistico si è verificato nella nostra esperienza.
Il Partito, chiusa l'esperienza della utilizzazione del sindacato come cinghia di trasmissione, ha dovuto necessariamente pensare a nuovi strumenti operativi che non fossero però semplice sostituzione formale di quelli ritenuti superati, nel senso che essi, pur interessandosi alla lotta economica, pur essendo presenti nelle istanze di base del sindacato, dove la maggioranza della classe si ritrovava e al quale dava il suo consenso, non potevano e non dovevano diventare a loro volta "sindacato" senza correre il rischio di trascinarsi lungo la stessa china opportunistica e conciliatrice e di coinvolgere nell'inevitabile processo di degenerazione il partito stesso.
Da qui il gruppo come organismo del tutto particolare aperto alle istanze del mondo del lavoro, ma altresì posto sotto il diretto controllo del partito.
Da qui, anche, il suo essere aperto, in quanto organismo di lotta, ad operai non militanti, ma ben distinto e separato dai momenti decisionali e di elaborazione politica propri degli organismi di partito.
La soluzione, come si può constatare (al riguardo è opportuna la rilettura della vecchia Piattaforma sindacale laddove definisce e puntualizza i compiti dei gruppi di fabbrica), è completamente scevra da ogni fuga idealistica e nasce dalla verifica nel corpo vivo dei processi economici reali, cioè dalla constatazione che la crescente concentrazione dei mezzi di produzione mette a disposizione della borghesia opzioni capaci di riassorbire e istituzionalizzare organismi di lotta puramente rivendicativa. Se ne potevano suggerire di diverse, forse, ma vi è che nessuno l'ha fatto, nessuno ha mai provato a pensare a qualcosa di diverso dall'applicazione pedissequa dell'esperienza di Lenin, se non la fuga nell'attesa messianica. Ma se ciò è metodologicamente esatto, come non vedere allora la differenza tra un sindacato che stipula accordi direttamente con il Governo e la Confindustria senza curarsi neppure d'interpellare i lavoratori e quello che convocava assemblee anche per stabilire quante volte al giorno dovevano essere lavati i cessi? Le differenze, evidentemente, ci sono e sono tutt'altro che di poco conto, ma ciò che è cambiato è tutto già compreso nel passaggio dall'economia di libera concorrenza, esaminata da Marx, a quella monopolistica.
Di mezzo vi è però la crisi economica determinata dalla caduta tendenziale del saggio di profitto che ha modificato, ancora una volta, il quadro delle relazioni sindacali. La crisi ha, cioè, drasticamente ridotto la possibilità, sia da parte delle imprese che da parte dello Stato, di distribuire le briciole degli extra profitti sotto forma di salari. La leva di cui il capitalismo si è servito per ingabbiare la classe operaia nell'ambito delle sue compatibilità, ha perduto, pertanto, uno dei suoi fulcri fondamentali e con esso anche la possibilità, tramite il sindacato, di ottenere attorno alle proprie scelte il consenso più o meno spontaneo dei lavoratori. O, meglio, la crisi ha ridotto al lumicino gli antichi margini ed ha imposto una gestione rigorosa della produzione di plusvalore tutta finalizzata al sostegno dei processi di ristrutturazione industriale dettati dalla microelettronica. La microelettronica, a sua volta, ha modificato completamente il quadro dell'organizzazione del lavoro e della produzione così da richiedere al sindacato-istituzione nuovi comportamenti ed il sindacato, confermando, appunto, il suo essere divenuto istituzione, li ha perentoriamente adottati.
Nella fase di ascesa del ciclo di accumulazione capitalistico avviatasi con la Seconda guerra mondiale, superata la fase della ricostruzione, il capitalismo monopolistico ha avuto come problema maggiore quello della stabilità della domanda aggregata e, rispetto all'impiego della forza-lavoro, quello del contenimento della conflittualità in modo che non si producessero lacerazioni nei cicli produttivi a loro volta in espansione. Ne è derivata, quindi, la costante spinta alla crescita salariale che, potendo essere soddisfatta, è stata utilizzata come strumento di costruzione di consenso attorno al sistema ed alla sua ideologia.
Il sindacato, che ne è stato l'artefice, potendo offrire di volta in volta ai lavoratori miglioramenti anche considerevoli delle loro condizioni di vita, ha ottenuto il consenso sulla base della più ampia partecipazione operaia. Gli stessi consigli, nati in un primo momento al di fuori del sindacato, sono stati fatti propri in un brevissimo lasso di tempo dal sindacato stesso ed utilizzati come momenti essenziali della formazione del consenso.
Anche nel pieno delle lotte del '68, benché venissero posti in discussione i partiti tradizionali della sinistra (PCI e PSI), il sindacato è riuscito a mantenere intatto il quadro delle compatibilità capitalistiche grazie, appunto, agli ampi margini di extra-profitto che potevano essere ristornati verso i salari e lo ha fatto sulla base del consenso.
Il sindacato nel terzo ciclo di accumulazione del capitale
Partito Comunista Internazionalista, Ottobre 1986In appendice un estratto dalle Tesi sulla tattica del Quinto Congresso del Partito Comunista Internazionalista, Milano, novembre 1982
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