Il problema della natura nel materialismo dialettico leniniano - 3

La continuità dottrinaria tra Marx, Engels, Lenin e il significato della sua contestazione da parte dei teorici della sinistra "ufficiale"

Lenin “engelsiano” ed il relativo giudizio degli opportunisti

L'accento posto sulla prevalenza, nel pensiero di Lenin in sede conoscitiva, dell'accento “engelsiano” presuppone di già per sé a una distinzione tra Marx e Engels, e, d'altra parte, un certo tono svalutativo di quest'ultimo. È comunque vero che i tentativi di identificazione del marxismo con una fase “umanistica” del giovane Marx sono sempre stati incentrati a mettere in rilievo questa fase stessa in contrasto con l'impostazione risultante dalle opere di Engels, specialmente dalla “Dialettica della Natura”, “Lodovico Feuerbach” quell' “Antidühring” già tanto ammirato da Antonio Labriola. In altre parole, la questione dei rapporti tra Engels e Lenin può essere definita senza esagerazione “vexata” nella misura in cui sussiste da una parte tutta una critica ad un presunto “materialismo volgare” o “metafisico” engelsiano, dall'altra una polemica che, come spesso credendo di rintracciare nel leninismo la matrice storica dello stalinismo, non esita a denunziare il travaglio “filosofico”. (prendendo l'aggettivo con beneficio d'inventario, come si vedrà più avanti, si risponde o si tenta a necessità di chiarificazione) di Lenin come antesignano dello zhdanovismo: o, se non proprio di quest'estrema banalizzazione del marxismo, dell'involgarimento proprio delle opere di J. V. Dzugashvili, o da lui ispirate, e insomma frutto di quella fase storica che si usa designare col termine assai improprio di “stalinismo”.

In realtà, non è nuova la tendenza a considerare Engels quasi unicamente come un organizzatore politico (facendo ricadere, vedremo, sulla sua testa responsabilità che non son di lui) e tutt'al più come una “spalla” di Marx, un fornitore di dati” (tecnici, economici, militari, ecc. ecc.). In quanto a Lenin, le tendenze filosofiche “speculative” non nascondono atteggiamenti di sufficienza, quando non d'indifferenza assoluta, dinnanzi ad un simile “agitatore”, proteso ad una “prassi” che oltre a tutto non ha nulla a che fare con quella teorizzata da certo “crocio-gramscismo” assai diffuso negli ambienti intellettuali italiani, per non parlare del “progetto a esistenzialistico o del “will” pragmatistico. Considerato in questo senso come esorbitante dal terreno “filosofico”, Lenin viene invece da altre parti (e cioè dalle tendenze “ufficiali” del marxismo, sia dell'URSS che del comunismo e socialismo “ufficiale” - non ovviamente dalla socialdemocrazia-europea) riabilitato in funzione della prassi - ma bisogna riconoscere che più della prassi rivoluzionaria si parla della fondazione del “primo Stato Socialista” come “positivo (in senso hegeliano) del marxismo”. L'opera, per esempio, di edificazione della III Internazionale, strumento della rivoluzione mondiale, è messa in ombra. Si tratta insomma di una apologetica spesso legata a forme di aperto revisionismo (es. ripudio di Stato e Rivoluzione, delle tesi sulla guerra imperialistica, ecc.) non solo, ma ad un giudizio che (in poche parole):

  1. vede in Lenin, stalinisticamente, la figura principale della costruzione del “socialismo in un solo paese”;
  2. considera la sua opera risolta ed esaurita storicamente in quest'edificazione.

Non è qui certo necessario provare che questi tesi sono proprio quelle dello stalinismo classico, che rivedono sostanzialmente tutta la concezione marxista e leninista della rivoluzione permanente e mondiale, e della dittatura del proletariato con istituti sovietici. Parimenti, considerare l'URSS incarnazione pratico-storica e fissazione geografica del marxismo, cioè “paese del socialismo”, è anche una tesi staliniana e panslavistica per eccellenza. Rileviamo questo perché, volendo collegarsi alla prassi, non pochi commentatori anche dei testi “filosofici” leniniani, legati alla prassi opportunistica dell'imperialismo introducono come premesse a priori, date cioè per scontate, queste tesi. Ovviamente da un'impostazione di tal genere deriva il collegamento Lenin-Stalin, quindi di riflesso, per es., Materialismo ed empiriocritismo -Breve corso staliniano del 1938: e non da un'interpretazione che veda lo stalinismo come controrivoluzione o “Termidoro”. Ricordiamo solo (lasciando da parte gli antibolscevichi alla Schapiro, Ciliga, Suvarin, gli eclettici alla Serge, Burnharn, Eastman, Koestler od Ortvell e minori figure, ed accennando solo al rivoluzionario Rosmer) le due interpretazioni-base “bolscevico-leniniste” antistaliniste: quella trotskysta, per cui lo stalinismo fu ed è termidoro burocratico-bonapartista che però lasciò intatte le “basi del socialismo” (proprietà statale), e la nostra, quella propria della Sinistra Comunista (“italiana”) per cui lo stalinismo fu controrivoluzione capitalistico-statale, frutto del soffocamento “in un solo paese” di una rivoluzione come quella socialista necessariamente mondiale: conclusioni, queste, che discendono “geometricamente” dall'A.B.C. del comunismo, e della stessa teoria della “rivoluzione permanente”, così acutamente esposta da Trotsky nell'omonimo scritto del 1928 e fin dal 1905.

L'ipoteca, di cui parleremo, kautskyana o liebknecht-bebeliana che pesava a torto su Engels si riproduce a parer nostro in un'ipoteca staliniana su Lenin. Marx viene considerato più “staccato”, quasi “acquisito” nei quadri culturali di quella borghesia che ai suoi tempi lo definiva red terror Dottor (Gladstone), quando non visto in una dicotomia il cui arbitrio ben raramente ci si preoccupa di motivare, tra un “giovane” (positivo, umanista, storicista assoluto, ecc.) ed un “vecchio” (negativo, determinista, impigliato nella prassi, ecc.): ed in questo caso si assume a sé il “giovane Marx” lasciando cadere il pesante fardello di responsabilità, non solo filosofiche, di una disamina che vada al di là e della trascuranza della prassi, e dello scambio della prassi marxiana con una prassi deformata in chiave “moderna” di più o meno disinvolto eclettismo, anche politico. Basti pensare alle interessate confusioni “umanistiche” di Lenin con Stalin fatte da Herbert Marcuse nel saggio su “Il marxismo sovietico”. Oltre a tutto, tenendo a identificare dialettica materialistica e zhdanovismo, si dimentica che Zhdanov proclamò la fine, in URSS, della contraddizione dialettica e la sua sostituzione con la diade critica-autocritica.

Ciò che, con ben poca coerenza con la tradizione bolscevica, si augurava Lukàcs (La Distruzione della Ragione) cioè un “recupero” di Marx come “valore culturale” da parte della Germania e dell'Europa attuale è avvenuto in gran parte come non poteva non avvenire - cioè attraverso una dislocazione di Marx stesso sul piana “ideologico”, con un richiamo pratico spesso più verbale che altro - o che comunque non si pone il problema: quale prassi storica discende dalla dottrina marxistica? Auspice di questa considerazione, e notevole per i larghi effetti ottenuti, J. P. Sartre.

Non insistiamo nell'analisi di questo pur capitalissimo fenomeno della nostra epoca, epoca in cui le 21 tesi del Komintern non possono ritrovarsi rispecchiate nei documenti di nessuna formazione politica di massa, ed in pochissimi saggi teorico-filosofici - mentre fino i canzonettisti da caffè concerto ironizzano sul Capitale diventato livre de chevet dello snob borghese: fenomeno che non è certo folkloristico bensì rivelatore di una situazione in cui la pressione controrivoluzionaria mondiale ha reso temporaneamente ed apparentemente “innocuo” ciò che già costituiva l'incubo, lo “spettro del comunismo”. Di ciò è ovvio che gli opportunisti si compiacciano: Marx è in soffitta - ma non può restarci - o meglio non è in soffitta per le uniche forze marxiste effettive, che trovano nella stessa struttura dell'imperialismo le ragioni materialistiche della propria fiducia in un futuro rivoluzionario.

Limiti di spazio e di strutturazione ovviamente rendono impossibile sia pure la trattazione a grandi linee delle varie “chiavi” in cui si “legge” o si è letto Marx: accenneremo soltanto le principali varianti dell'interpretazione del rapporto Marx-Engels e poi Engels-Lenin, prima di chiederci se poi sia corretta l'immagine, di uso ormai comune, di un Lenin più engelsiano” che altro.

Scriveva, come noto, nel 1897 Antonio Labriola che l'Antidühring “contiene a un dipresso tutta la filosofia che occorre all'intelligenza del socialismo moderno”: né certo la sua interpretazione del rapporto Marx-Engels come rapporto di complementarità e strettissima unione dottrinale era suggerito dall'allora forse predominante versione positivistica, ferriloriana in Italia, e gradualistico-riformistica “classica”, alla Turati, del marxismo. Labriola anzi, e tutti o quasi concordano in questo giudizio, imprendeva proprio allora a demolire l'artificioso castello di evoluzionismo darwin-spenceriano e di progressismo, quindi, di stampo massonico-piccolo borghese che gravava su ogni elaborazione al marxismo richiamantesi. Né si potrebbe imputare a posteriori ad un “engelsismo” labriolano l'economismo volgare che lo portò a sostenere il colonialismo, attesocché simili manifestazioni opportunistiche, inevitabili in un clima come quello della Seconda Internazionale, furono di volta in volta suffragate con tesi di provenienza positivistica o idealistica (il revisionismo bernsteiniano apriva le porte alla “rilettura” di Marx in chiave kantiana, all'insegna della lotta contro il “materialismo dialettico” - anticipando in tal modo non solo l'austro-marxismo, ma altresì moderne impostazioni, come il dellavolpismo, che si dichiarano antirevisionistiche).

Antidialettica a sfondo idealistico

In realtà, quindi, il clima revisionistico, e segnatamente quello della prima fase (non ancor kautskyana) se da una parte comportava un arroccamento su posizioni all'Ardigò (probabile frutto, in Italia, del provincialismo ben noto) dall'altra si svolgeva all'insegna, come si è detto, di una dissociazione del materialismo storico da quello dialettico, con la condanna di quest'ultimo, quasi pan-dialettica Weltanschauung da rigettare in un fascio con quella panevoluzionistica. “Il fine è nulla, il movimento è tutto” è frase intimamente, visceralmente antidialettica. “Il proletariato, aveva detto Marx, è rivoluzionario o non è nulla”: e Trotsky, nel 1938 (La nostra morale la loro) dimostrerà ancora una volta che fini e mezzi sono interdipendenti,

Dal canto suo, Lenin nel 1908 avrà agio di rivelare, come sottofondo della critica dei vari Cernov, Bazarov, Bogdanov ad Engels la preoccupazione antidialettica comunque, e quindi il tentativo di minare le basi stesse del materialismo storico, affossando anzitutto la dialettica uomo-ambiente (preesistente). Ricordiamo ciò non per tracciare un assurdo parallelo tra le posizioni antiengelsiane e quelle del revisionismo “politico” più aperto, quindi tanto meno per stabilirne l'equivalenza (tenendo conto anche delle innumeri sostanziali revisioni e distorsioni del marxismo effettuate dallo stalinismo, che si richiamava ad Engels, almeno come copertura). Vorremmo solo far notare che le posizioni antiengelsiane giungenti ad identificare engelsismo e reificazione, al limite, come quelle del giovane Lukàcs di “Storia e coscienza di classe”, o quelle stesse di Antonio Gramsci ne “Il materialismo storico” si presentano storicamente quanto meno “tendenziose”. Nel caso di Gramsci, si potrebbe parlare di una ironia della storia: in quanto che i suoi seguaci staccando Engels da Marx lo hanno fatto in definitiva in nome della lotta al crocianesimo ed all'hegelismo (cesura estrema Marx-Hegel), il che è abbastanza paradossale per epigoni di un maestro così profondamente influenzato e dal crocianesimo e dall'idealismo in genere, specie nella fase iniziale.

Le obbiezioni lukacsiane peraltro sono commentate da Gramsci con un certo scetticismo: può avere ragione o torto, a negare la dialettica della natura... Il torto sarebbe in uno stacco uomo-natura: per Gramsci però la storia della natura rientra in quella dell'uomo. La osservazione, a prima vista critica, si sviluppa nel senso, diremmo piuttosto, di un'accentuazione dei lati “berkelevani” o empiriocriticistici dell'impianto gnoseologico del giovane Lukacs. Così la critica al materialismo dialettico come idealistico, paradossale in sé, si spiega meglio con le influenze crociane: B. Croce infatti ravvisa nella dialettica marx-engelsiana (non solo engelsiana) il dialettismo deteriore che a suo parere aduggia l'Enciclopedia hegeliana (Come intendevano la dialettica il Marx e l'Engels nel 1877, in Filosofia e Storiografia, Bari, 1949). Certo, Gramsci non ha avuto effettivamente modo di sviluppare una critica tendente a staccare del tutto Marx da Hegel, e pertanto l'influsso idealistico resta in lui più indeterminato, si da permettere di ritrovare un sapore di contraddizione nelle tesi della volpiane che, come dicevamo, non riescono comunque a liberarsi dalle influenze “crociane-gramsciane” (pur combattendo l'idealismo crociano). Paradossale era del resto la polemica crociana contro la dialettica hegeliana, e come tale caratteristica di tutto un pensiero che smussava, con l'opposizione, e finiva per negare il significato comune, usuale, della dialettica stessa.

È da rilevare che nel testo gramsciano sentiamo, sotto certa tinta crociana, suonare una nota pragmatistica: ed in chiave pragmatistica appunto (vogliamo dire vailati-calderoniana) sembra per certi aspetti svolgersi l'interpretazione gramsciana del concetto di praxis, come risultante tra l'altro dalle classiche Tesi sa Feuerbach, in linea per questo con Bertrand Russell, che vede in Marx un precursore dello strumentalismo deweyano: senonché tutta la successiva linea delle argomentazioni gramsciane, specie relativamente a quella ch'egli definisce ironicamente la “terribile questione” dell'oggettività del mondo esterno, pare seguire una via pragmatistica assai meno “di sinistra”, per accostarsi a tesi di estremo relativismo (l'oggettività è storica, non ha senso il mondo preesistente all'uomo, oggettivo significa universalmente soggettivo, ma l'intersoggettività presuppone il riconoscere l'oggettività di alcunché al di fuori del soggetto, ecc.) Tesi che si potrebbero definire empiriocriticistiche se non fossero inquadrate nel tipico schema idealistico-crociano di blocco storico, che, dal volontarismo al gradualismo è nella sua interdipendenza fra struttura e sovrastruttura, per cui ad es. il proletariato potrebbe essere egemone senza aver distrutto lo stato borghese ed essersi impadronito dei mezzi di produzione (il che ha origine, come si sa volontaristica ed anarcosindacalista e sorel-bergsoniana), contraddice in tutti i suoi lati non solo il “materialismo dialettico” respinto, ma l'elementarità del “materialismo storico”. Significative in proposito le lodi a Rodolfo Mondolfo (v. Il materialismo storico in E. Engels, 1912) per avere impostato il problema dello stacco Marx-Engels. Parleremo più avanti del senso della critica a N. Bucharin.

Insomma, il considerare “metafisica” l'eredità dialettica hegeliana, presente o non presente in Engels, ed ancor più la concezione della realtà “obbiettivamente esistente al di fuori della coscienza”, quindi non lo “antropocentrismo” che tende a tutto assimilare nella storia umana (per di più sminuendone l'importanza della base materiale, economica ecc. con il “blocco storico”, per esasperazione polemica antideterministica) doveva condurre Gramsci ed i suoi epigoni, in un solco per gran parte ancora crociano, a considerare il materialismo “dialettico” solo attributo di quello “storico”, o addirittura (è il caso di Della Volpe-Colletti) a respingerlo come deviazione engelsiana dal pensiero “filosofico di Marx” risultante dalla giustapposizione di “elementi di evoluzionismo positivistico à la Haeckel” alla sostanza della logica hegeliana (L. Colletti, pref. a La dialettica dell'astratto e del concreto nel Capitale di Man:, di E. V. Irenkov, Feltrinelli 1961). Così lo stesso Colletti, nello studio su “Il marxismo e Hegel” che avremo modo di considerare più innanzi, riconfermerà questa tesi dell'Engels hegeliano-metafisico per la “Dialettica della Natura” - contraddicendo in ciò un singolare scritto dellavolpiano (“Dialettica senza idealismo”) che riabilita la dialettica della natura engelsiana nel nome della lotta al crocianesimo (e riabilita fin il positivismo “scientifico” nella sua versione di aderenza ai “fatti”). Significativo che però anche Colletti riconosca, nell'ultimo saggio citato, “contaminazioni empiriocriticistiche in Gramsci”. Senza insistere più su quest'argomento del dellavolpismo (degno peraltro di un'esplicazione e chiarimento dimostrativo, v. anche Prometeo n. 6 il neokautskismo. di Davide, e non solo di una così breve nota), riteniamo legittimo rilevare che in esso opera la tendenza a salvare Gramsci lottando contro Croce; a salvare la metodologia scientifico-dialettica marxistica misconoscendo ogni legame con Hegel (sia pur rovesciato e “cambiato di segno”); a salvare il materialismo leniniano condannando però Engels ed Hegel insieme; il tutto in un quadro “galileiano”. Resta da dimostrare se sia possibile scindere Gramsci dalle influenze crociane, quindi dall'idealismo (anche se non hegeliano) di un mondo concepito sotto l'unico aspetto di un suo prodotto tardivo e parziale, la storia umana, e se l'incomprensione del “rovesciamento” o “raddrizzamento” hegeliana nella dottrina-praxis marxistica non sia il primo punto-cardine della nuova dialettica materialistica. Ne concluderemo solo che tali questioni non solo non appaiono risolte, ma neppure impostate con bastevole precisione e nettezza, proprio da chi anche in sede politica ha usato ed usa Gramsci in funzione antileninista, secondo il dettato del gran maestro Togliatti.

Sappiamo che l'insistere sul “crocianesimo” di Gramsci può sembrare quanto meno eccessivo: ma lo “storicismo dell'universale soggettivo” e del “blocco storico” nonché dell'apologetica del momento “sovrastrutturale” ci pare, ben più che empiriocriticistico, idealistico-crociano (e dobbiamo tener presente la formazione culturale gramsciana). Ciò valga anche per la “natura come storia” del giovane Lukàcs, più hegeliana (anche se non interamente ortodossa, almeno per Croce che rimproverava ad Hegel una natura “autosufficiente” quasi e distinta dalla storia) che empriocriticistica (a parte le analogie con la “esperienza sociale unificata”, anch'essa tendente, ma solo in ultima istanza all'idealismo).

Relativamente alla, del resto assai nota, credenza della “natura hegeliana” come indipendente, ricorderemo di sfuggita che le interpretazioni dell'Hyppolite e del Kojève la contestano sulla base di una lettura, a loro propria e caratteristica (in chiave cioè fondamentalmente esistenzialista) della “Fenomenologia dello Spirito”.

Così la stessa acrimonia crociana contro Engels, qualificato come ripetitore di Marx, non è condivisa dal Gentile, i cui contributi critici sul tema furono - come è noto - considerati da Lenin tra i più acuti nel “campo di Agramante” borghese. Ovviamente anche Gentile ne La Filosofia di Marx contesta, per quanto con maggior discrezione, la profondità della penetrazione di Engels ne “la parte filosofica delle teorie del suo compagno e maestro”.

Del resto, chi si preoccupa, anche contro le affermazioni non... troppo “ortodosse” come materialismo di A. Schaff, o di Luporini, meno influenzato dall'esistenzialismo, di sottolineare la “duplice vocazione marxiana ed engelsiana del marxismo non può fare a meno di riconoscere che nel “Capitale” Marx araba le tesi “metafisiche” della esistenza oggettiva della natura e del suo rispecchiamento - sia pur attivo e trasformante - nella conoscenza dell'uomo che se la “appropria”. Così la dissociazione engelsiana dal “materialismo storico” dell'Ideologia Tedesca per fondare il materialismo dialettico - tesi cara ai denunziatori della “cornice cosmologica-pandiatettica”, non può che essere considerata con molti dubbi. Basti pensare che proprio in quest'opera giovanile è riconosciuta l'esistenza della natura prima dell'uomo e la sua storia (dialettica) preesistente anch'essa all'umanità, che con la sua storia di lavoro trasforma la natura stessa e la fa “natura per noi”, umanizzata (concetti presenti, allo stato embrionale, negli stessi Manoscritti del 1844, cavallo di battaglia revisionistico).

Dopo Gramsci, grande è stata la cura “filologica” di chiarire che storico equivale a dialettico: ma se è vero che la natura essendo dialettica non può non essere storica, resta il fatto, sottolineato ad abundantiam da Lenin, che la storia dell'uomo si è iniziata come storia di alcunché prodotto dalla storica evoluzione naturale, e che a sua volta interviene sulla natura. Sembra a noi insomma arbitrario riferire l'aggettivo storico all'accezione di “umano”. E se la storia è dialettica, perché non dev'esserlo la storia naturale? (Solo con Darwin, notavano Engels e Marx, la storia come dialettica più quae facit saltus è stata introdotta nella natura). Certo, nella storia “umana” uomo e natura si incrociano, sono indistinguibili, ma:

  1. è da dimostrarsi che l'influsso operativo umano trasformi ugualmente le stelle ed i materiali terrestri;
  2. anche la natura, l'ambiente influenza - e sensibilmente - la civiltà, sicché lo stesso “ritorno” della praxis a determinare l'ambiente che l'ha prodotta non si può svolgere che nelle condizioni date da questa sua stessa determinazione: ad es. l'azione rivoluzionaria, che non può agire che nella crisi provocata dalle stesse contraddizioni capitalistiche che l'hanno generata, così mutando fin dal profondo il suo stesso terreno d'origine.

Dire che il materialismo storico è tale in quanto mette in risalto i fattori materiali, ma dire che poi il “materiale” è frutto della storicità, porta ad una tautologia, tipicamente gramsciana, di “storicismo storico” quanto a dire, al di là della forma paradossale e bizzarra, lo “storicismo assoluto” di cui i gramsciani moderni si avvalgono anche per coprire tesi agnostiche sul teismo e sim.

Il problema non è, come per lo zhdanovismo, di concepire il “materialismo storico” come una branca della Weltanschauung del “materialismo dialettico”, né di risolvere quest'ultimo nel primo, gramscisticamente. Innegabile resta che la storia umana, scaturita dall'evoluzione naturale, reagisce attivamente sulla natura (per evoluzione, intendiamo “dialettica” con salti e “sbagli” che ogni paleontologo documenta, “storia vera” ancora...).

Ancora una volta, non pensiamo avventurarci sul terreno di una polemica diretta, che oltretutto trascenderebbe, e di gran lunga, i limiti dovuti all'assunto: ma riteniamo importante segnalare come la dissociazione tra Marx ed Engels, condotta in nome delle più disparate istanze, dia spesso come risultato contrattazioni sorprendenti del pensiero dello stesso Marx, e di quei suoi scritti elaborati senza la collaborazione del “fedele Fred”. Basterà ricordare la clamorosa polemica sulla teoria del “riflesso” (Abspiegelung-theorie) che viene attribuita esclusivamente all'Engels antidühringhiano, in contrapposizione ad un “pragmatismo” marxiano, che precorrerebbe Dewey (tesi di Russell, già in Freedom and Organisation del 1934, riecheggiato tra l'altro in Italia da Giulio Preti e Mario Dal Pra). Per cui detta teoria diverrebbe quella del vero “controllo scientifico” (il giovane Lukàcs viene in aiuto; e più ancora, Sartre, specie quello della prima fase, poi attenuatosi nella polemica antidialettica nella più recente “Critica”), mentre Marx sarebbe su posizioni di “strumentalismo” (si conosce solo ciò che interessa conoscere). Gli studiosi italiani amano anzi avanzare Vailati come formulatore di consimili tesi. E certo a parer nostro va notato che in Vailati l'ostilità antimarxistica ed antiengelsiana era connessa di stretta misura con quella contro la “metafisica tedesca”, specie hegeliana: sì da farlo concludere, contro il suo stesso assunto realistico, su posizioni semi-empiriocriticistiche.

In questo senso, la II e l'undecima tesi marxiana contraddirebbero l'argomento del pudding... non abbastanza volta ad una, secondo il Preti di Praxis ed Empirismo, “soluzione pragmatistica della classica nozione di verità in quella di successo operativo”. Il che oltretutto ignora il problema dialettico verità assoluta-relativa, e del pari mina, ci sembra, non meno dell'empiriocriticismo, le basi di qualsiasi materialismo storico: lo strumentalismo deweyano infatti si differenzia fortemente, ma non si contrappone del tutto, rispetto alla will to believe. Del resto, ogni operazione per riuscire si deve volgere ad un materiale su cui agire, e la buona riuscita, se trasforma il materiale in un dato senso, ce ne indica comunque l'esistenza: né si può porre unicamente un'ipotesi in cui si operi su un materiale inconoscibile che diventa noto solo a trasformazione avvenuta (anche con la legge di Heisemberg, vale il calcolo della probabilità). Il criterio di “successo”, si è visto, è poi di origine empiriocriticistica.

Comunque, gli stessi difensori di questa teoria del Marx “pragmatista”, Russell in testa, devono ammettere l'aggettivazione “inconscio”, ed anche “contraddittorio”. Tutto il capitolo in proposito della Storia delle idee del XIX secolo si muove in questa linea.

Meriterebbe una più vasta considerazione il “sartrismo” come critica - e non solo gnoseologica - al marxismo (nella sua veste o travestimento stalinistico per lo più); tanto più che quest'influentissima tendenza, dal Materialismo e Rivoluzione alla Critica della Ragione Dialettica ed al dibattito del '61 con Hyppolite, Garaudy e Vigier (massima attenuazione della polemica), è andato sensibilmente modificandosi: evolvendosi, dicono i “marxisti ufficiali” (tra cui Lukàcs) tranne i francesi, legati a forme più “zhdanoviane.

Ma ciò si potrebbe dire a buon diritto di ogni questione sopra accennata.

È nota, per esempio, la posizione di “pontefice ortodosso” assunta da Lukàcs nella fase “staliniana della sua attività (dopo la condanna “zinovievista” del '24 -anno dell'inizio della guerra al leninismo, qualificato come “trotskysmo”, in seno al Komintern - del suo neo-hegeliano “Storia e coscienza di classe”, e delle opere di Fogarasi, Revai, e Karl Korsch, futuro importante esponente della “sinistra tedesca” a carattere anarco-sindacalistico). Lukàcs, specie in opere come “La Distruzione della Ragione” riproduce “filosoficamente” alcune tesi care allo stalinismo (panslavismo antitedesco, fronte popolare, trotskysmo assimilato al fascismo, ecc.); ed insieme esalta la connessione Marx-Hegel, giungendo a vedere prefigurata in Hegel tutta la praxis marxista del lavoro concreto e sociale: così riconosce l'unione Marx-Engels, anche in funzione di tesi estranee al pensiero originale di ambedue (v. considerazioni sulla “arretratezza germanica” che ignorano la “rivoluzione permanente”). Così i “seguaci di Lukàcs” tipo Cornu e Lefebvre. Ora, a parer nostro, questo non autorizza ideologismi (come quelli cui indulge Mario Rossi, ricollegandosi in ciò, con ogni probabilità inconsapevolmente, alle posizioni assunte nel 1923 da Karl Korsch, nel libro Marxismus und Phiilosophie, condannato l'anno dopo da Zinoviev con Storia e coscienza di classe di Lukàcs, e futura bibbia del “socialismo dei consigli”, cioè dell'anarco-sindacalismo di nuova edizione) per cui il materialismo engelsiano-leniniano sarebbe intriso di hegelismo e come tale avrebbe favorito lo stalinismo “prussiano”(!): per Korsch, anzi, proprio “Materialismo ed Empiriocriticismo” contiene le premesse teoriche dello stalinismo, o almeno la sua... giustificazione gnoseologica. Argomento molto simile a quello dell'esecrato “giacobinismo” bolscevico, caro a Kautsky.

Ricordiamo di transito un'opera anti-stalinistica, scritta dalla ex-segretaria di L. D. Trotsky, poi entrata nella concezione del “capitalismo di stato” come struttura dei cosiddetti “stati operai”, cioè Raya Dunayevskaya, che, con Marxism and Freedom ci dà l'estrema accentuazione dell'hegelismo marxiano (e leniniano), nonché il riconoscimento della convergente Marx-Engels-Lenin, in chiave non solo “umanistica”, ma addirittura libertaria, così differenziandosi dal pur affine Marcuse, che finisce in un anticomunismo in cui antileninismo ed antistalinismo sono identificati.

Molto importante sarebbe riprendere il discorso anche relativamente a Merleau-Ponty (oltrettutto, considerato, benché a torto, da Lukàcs, il “trotskysta”del gruppo esistenzialistico francese). Questo specialmente, però, in collegamento col saggio sartriano del 1961 “Merleau-Pony vivo”, nonché al collegamento hegelismo-statalismo, e quindi stalinismo, fatto da Merleau appunto.

Notiamo finalmente, tra le recenti opere edite in Italia, gli studi dell'Agazzi (ed Actis Perinetti) su Labriola che anch'essi, per via propria, finiscono per convergere con intonazioni dellavolpiane (Rossi, Colletti, Merker, dei quali interessanti le polemiche con Luporini-Badaloni ed il “gramsciano puro” L. Gruppi). Sostanzialmente orientato, invece, contro il “galileismo” - sia d'intonazione dellavolpiana che banfiana - il notevole studio di Alfredo Sabetti Sulla fondazione del materialismo storico, che riprende tesi leniniane del “rovesciamento” di Hegel, o meglio della sua dialettica, in quella marxista, e della continuità con Engels. Ovviamente su posizioni opposte, fra i giovani, Mario Tronfi, la cui posizione “scientifica” corrisponde piuttosto fedelmente ad una riviviscenza politica economistica di cui è esponente (“Classe Operaia 9, per cui v. “Battaglia Comunista”, del febbraio 1965, art. di F. V. “Studi ed impegni sul partito rivoluzionario di classe”).

Dagli stessi nomi citati (si licet parvos comportare magnis, e cioè saggi ed autori ancora in una prima fase formativa a “capisaldi” di vere e proprie “svolte”, e non solo svolte di pensiero ma anche contorsioni e capriole opportunistiche), si comprende con agevolezza che, in fondo, è in discussione lo stesso senso verso cui dobbiamo vedere polarizzata la “praxis dialettica” - un problema non solo e non tanto filosofico. Non siamo del resto noi ad introdurre una categoria come quella gramsciana di “nazional-popolare”, o a “spiegare” lo stalinismo con Hegel. Tanto più si comprenderà che il problema si accentui trattandosi di Lenin, soggetto “incandescente”. Sì, perché è con Lenin che viene puntualizzato il problema della pratica che incarna le idee nelle masse, guidate da una dottrina personificatasi nel Partito - avanguardia della classe, che la guida alla dittatura “fino all'ultima goccia”. Con ciò, non possiamo, sul piano dell'esattezza storica, vedere Lenin, come già stalinisticamcnte lo vedeva Gramsci, come il San Paolo che getta le fondamenta della cittadella ecclesiastico-positiva della religione predicata da un “unarmed Prophet” Karl Marx. L'opera di Marx e di Engels, come quella di Lenin, è inscindibile dalla pratica organizzazione, direzione, dotazione di strumenti dottrinali e scientifici, del “partito mondiale della classe operaia”. In questo senso, non peccano di eccessiva coerenza coloro che in nome della prassi vogliono contrapporre un giovane ad un vecchio Marx. (I frequentissimi riferimenti a Gramsci sono suggeriti dalla diffusione di sue posizioni, anche come pseudoalternativa allo stalinismo, della cui cosiddetta “bolscevizzazione” era stato esecutore in Italia, e dal patrimonio crociano - sia pur sul piano polemico - apportato nel campo “marxista”).

Se da una parte - ma, con l'andar del tempo, sempre di meno - si tende a considerare Lenin “troppo” implicato nelle questioni pratico-organizzative e nella polemica degli ismi socialistici per essere un filosofo “vero” o magari “puro”, come dicevamo all'inizio, dall'altra la stessa prassi leniniana, riabilitata, viene o contrapposta alla teoria (un Lenin marxisticamente contraddittorio), o acriticamente identificata con lo stalinismo. Ma la semplice lettura di “Contre le Courant” (scritto in collaborazione con Zinoviev, fucilato dallo stalinismo), di “Stato e Rivoluzione” (l'opera leniniana, forse, che tratta problemi, anche teorici, più attuali), de “il rinnegato Kautsky” (che fa da pendant al “Terrorismo e comunismo” di Trotsky, scritto contro l'omonima opera kautskyana) non può non far ritrovare un'impostazione internazionalistica che collega immediatamente il ristagno della rivoluzione e in un paese solo con l'involuzione (già denunciata nel '21: ed annunciata da Marx ( fin nell'ideologia tedesca) e combatte strenuamente per quello stato-Comune in deperimento che è il rovescio della staliniana statolatria, espansa ovviamente anche su piano culturale con gli inevitabili risultati di materialismo volgare, naturalmente permeato (Lenin ne spiegò già la ragione) d'ideologismo deteriore. Basterebbero, per chiarire la necessità di sviluppare l'indagine in questa direzione, due esempi storici: i rapporti di Lenin e quelli di Stalin con Rosa Luxemburg e Trotsky. Si vedrà allora che tanto nel fondatore dell'Armata Rossa quanto nella guida del comunismo spartachista Stalin critica quanto Lenin loda, e quanto in fondo fissato, Lenin vivo, nella prassi e nella teoria della Terza Internazionale (almeno fino al 1921 anno del cedimento fisico di Lenin e dell'isolamento della Russia, in cui Lenin stesso sostanzialmente sparì dalla direzione sovietica). In sede più “filosofica” e, il grossolano tricotomismo stalinistico-zhdanoviano, indiscriminatamente mescolato a motivi idealistici volgari e positivisteggianti, nonché ad un “partitismo” che (al contrario delle concezioni ripetutamente esposte da Lenin) invadendo indistintamente tutti campi dello scibile non vi portava l'autocoscienza storica della classe nella sua direzione consapevole, bensì semplicemente l'imperativo mutevole, occasionale - spesso, e tragicamente, pretestuale - del Comitato Centrale di un partito bolscevico senza bolscevichi, di cui il 70% circa era stato eliminato, e dominato fin da vecchi capitolardi menscevichi alla Viscinsky. Quanti nella confutazione delle tesi filosofiche leniniane adducono il “Breve Corso” mostrano, oltrettutto, di non comprendere fino in fondo che cosa rappresentava questa compilazione, ferma ai Bilchner e Moleschott distrutti da Engels, a quali scopi fosse destinata, quale aberrazione fosse l'idea medesima di un “catechismo marxista” (nell'URSS nel 1919 si aveva avuta, come noto, un'opera del valore dell'A.B.C. del comunismo di Bucharin e Preobragensky, indubbiamente notevole, poi proibita) e infine dimenticano il contesto in cui il capitolo staliniano del “Materialismo storico e dialettico” è inserito: contesto di falsificazioni, calunnie, distorsioni del marxismo in tutti sensi (nazionalismo, collaborazionismo, partecipazionismo a guerre imperialistiche, salariato, socialismo in un paese solo, sistema monetario... e si potrebbe continuare la mélée).

Abbiamo detto tutto questo per il lettore interessato prevalentemente al quesito gnoseologico e non ovviamente per il compagno ormai uso alla nostra impostazione di fondo sul problema dello “stalinismo”. Ma a tutti risulta chiaro che il collegare Lenin a Stalin serve a buttare fumo negli occhi e, come si dice familiarmente: cioè, a soffocare la voce della rivoluzione con quella della controrivoluzione: e ciò è dimostrato dal fatto che tale manovra viene compiuta da tutti i personaggi legati alla controrivoluzione imperialistica mondiale, sia di Ovest che di Est: dai giornalisti dei fogli della “destra economica” in vena di filosofeggiare, agli irriducibili anarchici piccolo-borghesi, che rimasticano le stupidaggini del Galleani sul saggio dell'8, ai ricercatori del Lenin filosofo, legati a concezioni stalinistiche o gradualistiche o riformistiche del marxismo, cioè ad altrettante deformazioni revisionistiche: e segnatamente simile tesi è valida per chi veda nello stalinismo non il frutto della controrivoluzione mondiale, tradottosi nella controrivoluzione russa, ma una “crisi” nel processo di edificazione socialistica, crisi se non del tutto superata prossima all'estinzione, o comunque superabile con una critica (es. all'hegelismo) che non è quella “delle armi” (invocata sia da Trotskv, ad onta dei degeneri epigoni più o meno “pablisti”, per la “rivoluzione politica”, che dalla Sinistra Comunista per la “rivoluzione sociale”).

La difficoltà principale è appunto che il rapporto Engels-Marx e la questione della “filosofia” leniniana nella discussione stessa che ferve su tali argomenti da decenni e decenni, si traduce inevitabilmente - ed è giusto sia cosi - in richiamo politico. L' “obbiettività” qui non sta certo nell'amputare questo elemento “politico”, ma nell'affrontarle alla luce di una critica storica effettiva, e non di slogans spesso derivati dalla “boria di partito”.

“Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce”, in molteplici brani, pubblicati o no - e quelli non pubblicati nell'edizione “ufficiale” ricordati tra l'altro da Lucio Colletti - è incentrato sulla “stroncatura” del noto saggio buchariniano del 1921 “La teoria del materialismo storico - Manuale popolare di sociologia marxista”: ed è significativo che attraverso Bucharin (oltrettutto, già segnato dalla G.P.U. come capo della “Opposizione di Destra”) Gramsci cerchi di colpire Engels e Lenin stesso come colpevoli di “realismo gnoseo-riflessologico”. Non è inopportuno ricordare qui che Lenin proprio nel suo “Testamento” definì Bucharin antidialettico, o meglio dimostratosi incapace di assimilare e comprendere la dialettica.

Non è compito nostro pronunciare giudizi moralistici su questo procedimento gramsciano: comunque Bucharin, come ex “sinistro” ed allora attuale “destro”, le cui opere erano bandite nel 1929, era facile bersaglio: essendo per di più la sua esposizione notevolmente scolastica e semplicistica, ne riusciva facilitata la confutazione al suo “materialismo”. Ma Lenin negò per tutto il tempo in cui conobbe Bucharin (al di là della salda amicizia personale) che tale materialismo potesse essere definito comunque “dialettico”.

Proprio in due passi ancora inediti, Gramsci rimprovera Bucharin di aver seguito Engels nel costruire una Weltanschauung con frammenti scientifici intorno ad un “nucleo originario” di “filosofia della prassi”. Naturalmente, l'opera presa di mira è l'Antiduhring (notiamo, e non per puro spirito polemico, che la parte finale delle considerazioni sul capitalismo monopolistico-statale di detta opera non è stata ancora adeguatamente analizzata, se non da pubblicazioni partitiche di minoranze: ed è uno dei punti ove si incrociano le “linee di forza” della dialettica engelsiana - e che già a loro tempo i secondinternazionalisti tedeschi cercarono di cancellare con la “evoluzione” positivistica o il moralismo kantistico).

Venendo a trattare di Lenin (trasparentemente indicato col patronimico Ilic, talvolta italianizzato in Vilici) Gramsci ne contesta sostanzialmente le posizioni gnoseologiche “dottrinali” subordinandole alla esaltazione di un “paolinismo” leniniano che si concreta nell'“egemonia” e nella fondazione di un nuovo “Stato” che “equivale alla fondazione di una nuova Weltanschauung, (intesa in senso di “blocco storico”, ci par di capire). Ove vediamo già una valorizzazione del momento statalistico”, che sfalsa la figura storica di Lenin, sì, straordinario e singolarissimo “Uomo di Stato” ma, prima di tutto, capo di partito, e di un partito con centralismo democratico che rivendica la Repubblica dei Soviet e l'estinzione dello Stato stesso; non ignoriamo certo il concetto gramsciano del partito come “moderno Principe”: ma tale concetto, venato anche di sorellismo e del giovanile antipartitismo consiliare spontaneistico, tende già a differenziarsi dal criterio leninista del partito come strumento per la rivoluzione ed introduce categorie gradualistiche e “nazionali”. Il Lenin “politico” non è tanto quello originale, quanto quello presentato dalla prima fase staliniana, quella della “bolscevizzazione” che cancellava appunto il modello bolscevico tradizionale nei partiti aderenti al Komintern: un Lenin, sono parole di Gramsci, “nazional-popolare” contrapposto ad un Trotsky, per esempio, cosmopolita; con Stalin realistico interprete e facitore di storia e Bordiga “folkloristico”: residui dunque di polemica di partito, e in cui si può sostenere Gramsci fosse dalla parte del torto.

Perciò, evitando le allusioni al saggio del 1908, scrive:

“Un uomo politico scrive di filosofia: può darsi che la sua vera filosofia sia invece da ricercarsi negli scritti di politica... Il principio teorico-pratico dell'egemonia ha anch'esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto massimo di Ilic alla filosofia come filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica.”

Lenin addirittura avrebbe rivalutato e riassorbito come un canone empirico nella filosofia della prassi la concezione della storia etico-politica di fronte all'economismo (invertendo insomma la posizione di Croce che voleva il marxismo canone empirico nella sua concezione della storia etico-politica). Confondere il momento soggettivo dottrina-partito con quello crociano etico-politico, e quindi il momento della sovrastruttura, rannodata dai fili della determinazione ultima alla struttura, con un momento dello “Spirito” è spiegabile in Gramsci col tentativo, pur esso abbozzato, di usufruire dell'idealismo usandolo come spiegazione delle sovrastrutture - a questa stregua i dellavolpiani dovrebbero criticare Gramsci ben più a fondo: tanto più ch'egli cerca di opporsi a Croce, ed anzi di costituire la “alternativa”, tesa all'egemonia, con la “filosofia della prassi”.

Eleonora Fiorani e Fernando Visentin

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.