Al congresso di Bologna ebbero paura di dire no

...alla politica possibilistica dell'Internazionale

Oggi è possibile, diremmo quasi doveroso, un esame retrospettivo, anche se parziale, del congresso di Bologna (1919) per chiederci se su questo congresso o su parte di esso, certo la parte più battagliera, esiste l'enorme responsabilità di avere ritardato la formazione del partito, errore che si ritiene pesi tuttora sul movimento proletario.

Il solo ritardo di qualche anno (ma si trattò degli anni delle svolte improvvise e decisive) aveva fatto sì che la creazione del Partito Comunista si inserisse in un momento in cui erano venute a mancare le condizioni obiettive per prendere la direzione dell'offensiva rivoluzionaria ed urgente l'impegno tattico di difendere le conquiste del proletariato dall'assalto delle forze della reazione fascista. Questo sarà l'argomento da approfondire quando sarà affrontato l'esame della situazione post-Livorno che vedrà tale reazione in fase crescente.

Intanto prendiamo in fugace esame critico il problema dell'astensionismo che è stato al centro del dibattito al Congresso di Bologna.

Astensionismo o elezionismo antiparlamentarista?

Il dibattito su questo problema è sempre aperto. O si accetta l'astensionismo integrale ritenendo come anacronistico il criterio di regolare la politica dello Stato e dei partiti sulla base delle soluzioni maggioritarie secondo una tradizione che viene definita democratica, cioè della conta dei voti e si aderisce in tal modo al principio dell'astensionismo aprioristico proprio di certo astrattismo anarchico e di tutte le correnti portate ad esaminare idealisticamente il mondo che le circonda, oppure non c'è che rifarsi alle posizioni tradizionali dell'astensionismo tattico difeso da Lenin e inserito nelle tesi programmatiche del II Congresso della III Internazionale.

Il partito rivoluzionario passa al sabotaggio delle elezioni quando il proletariato si trova in fase offensiva e con davanti a sè la prospettiva della conquista immediata del potere. In questa fase non c'è posto per la utilizzazione tattica del dispositivo elezionistico e muoversi su questo terreno finirebbe per dar vita ad una politica di dispersione, sempre pericolosa, e potrebbe portare a soluzioni di compromesso a carattere “costituentistico” quali quelle che in Russia hanno diviso il partito bolscevico di fronte al problema del potere e in Germania hanno portato alla disastrosa esperienza dei governi di Turingia e di Sassonia.

In una fase diversa della lotta operaia, quando non esistono le condizioni obiettive della conquista rivoluzionaria del potere, Lenin e l'Internazionale ponevano la tattica parlamentare come un espediente secondarioma inevitabile nella strategia del movimento operaio. Tattica astensionista dunque, contro ogni partecipazione elettorale e per il boicottaggio del Parlamento, nella fase cruciale del conflitto di classe quando tutta l'organizzazione del partito non deve essere sviata dallo sforzo immane di un'azione offensiva per la conquista del potere. In ogni altro caso viene adottato il criterio di valutare volta per volta la possibilità o meno della utilizzazione del dispositivo elezionistico per affrontare una battaglia elettorale. L'errore commesso a Bologna dagli astensionisti fu quello di aver posto l'accento non sulla necessità della scissione e della costruzione del partito ma sul problema dell'astensione. L'errore è tutto qui: avere immobilizzato la frazione, formata di autentici quadri, dietro il presupposto del tutto teorico dell'astensionismo e non essersene serviti come base essenziale della polarizzazione delle forze verso l'obiettivo del partito di classe.

Eppure non è mancato chi intendesse fare della frazione astensionista il primo nucleo formativo del partito di classe, ponendo obiettivamente il problema della scissione. Verdaro, studioso dei problemi del movimento operaio e uno degli esponenti dell'astensionismo, nel fare il cappello alle Tesi del materiale relativo al congresso di Livorno, scriveva:

“La frazione astensionista del Partito Socialista Italiano si propone dunque di seguire il processo della sua trasformazione in partito per operare la scissione nel seno del Partito Socialista e per fondare la Sezione Italiana dell'Internazionale Comunista.”

L'affermazione era particolarmente significativa perché poneva con evidenza questi compiti alla frazione, allora di estrema attualità: i quadri della frazione astensionista come centro di polarizzazione del nuovo partito e la scissione; compiti maturati nella convinzione che il Partito Socialista non poteva essere trasformato in nessun modo in un partito rivoluzionario.

Se la frazione astensionista avesse operato in tal senso e si fosse posta come centro di convergenza e di guida di quanti in quegli anni veramente ruggenti avvertivano, anche se non sempre chiaramente, la necessità del coagulo delle forze rivoluzionarie, lo svolgimento della storia italiana avrebbe potuto avere un indirizzo e un corso ben diversi da quelli che poi si sono verificati.

La tattica astensionista, inserita in una situazione incandescente e a spinta rivoluzionaria, sarebbe risultata infinitamente più concreta e feconda di sviluppi d'ogni partecipazionismo elettorale, se un esagerato patriottismo di frazioni non avesse viziato l'esatta valutazione del ruolo del partito rivoluzionario, ciò che diede agli avversari l'appiglio polemico di appaiare la frazione astensionista italiana al movimento dei “tribunisti” olandesi di Gorter e di Pannekoek.

Prima e dopo Bologna non si poteva essere che astensionisti e in tal senso doveva essere orientata una politica autenticamente rivoluzionaria. Ma chi era chiamato a far sua questa politica? Quale lo strumento più idoneo ad eseguirla se tutto era in funzione della esistenza e conservazione del Partito Socialista, un partito questo, dominato dal gruppo parlamentare e dilaniato all'interno dall'insanabile conflitto tra le forze della riforma e quelle della rivoluzione?

Nella ipotesi che la condotta della frazione astensionista fosse stata conseguente alle premesse enunciate da Verdaro, che erano poi le premesse di tutta la frazione (scissione e la frazione costituita come primo centro di enucleazione delle forze del nuovo partito) è legittimo presumere che non sarebbe mancata a tale iniziativa la conseguente, inevitabile convergenza di considerevoli forze di sinistra, anche se non astensioniste, che andavano dagli “ordinovisti” di Gramsci agli strati politicamente più consapevoli della generica sinistra “massimalista”.

Che una tale visione critica faccia centro e metta in evidenza la gravità dell'errore, è avvertita anche da Bordiga, cui l'errore viene attribuito, quando in un suo scritto accenna debolmente ad una scusante che, per essere stata posta sul piano del compromesso, non attenua ma approfondisce le responsabilità dell'errore, quella d'aver proposto ai massimalisti l'abbandono della pregiudiziale astensionista, che avrebbe comportato la totale castrazione della frazione, in cambio del piatto di lenticchie del “taglio” dalla destra opportunista (Soviet, 30-3-1919).

La prospettiva era dunque quella di realizzare un partito senza riformisti e non quella di un partito nuovo eretto sulla base della frazione astensionista.

Il congresso di Bologna non darà il crisma né all'una né all'altra prospettiva.

Quali le ragioni che hanno portato i dirigenti della frazione astensionista a venir meno ai compiti che ad essa erano stati assegnati?

Chi degli astensionisti ha mai riconosciuto che la prospettiva posta come obiettivo immediato fosse errata, prospettiva che impegnava teoricamente tutta la frazione? Non risulta. Nessuno degli esponenti ha mai affrontato questo problema; dalle stesse pubblicazioni bordighiste, così accuratamente acritiche, non c'è molto da apprendere in tal senso.

Tuttavia la situazione obiettiva poneva l'urgenza di una guida rivoluzionaria, ed era particolarmente favorevole ad una tale iniziativa; allo stato potenziale esistevano inoltre forze rilevanti del Partito Socialista spiritualmente disposte ad assecondare l'impresa.

Ma nessuno osò e, alla luce delle esperienze posteriori, è possibile individuare le ragioni del perché non si è osato.

L'errore di fondo è poi sempre lo stesso, quello cioè di vedere i problemi soprattutto dal punto di vista quantitativo, per cui furono portati a sottovalutare il ruolo della frazione dal punto di vista della sua realtà e possibilità in quanto organizzazione; a minimizzare la sua influenza tra le masse e nel contempo a ingigantire le conseguenze della ubriacatura elettoralistica e parlamentare; il timore, in una parola, di non riuscire anche se nelle masse era profondamente operante la suggestione della Rivoluzione d'Ottobre, delle personalità di Lenin e Trotsky e soprattutto era vivo e generalizzato il convincimento che nessuna seria conquista rivoluzionaria poteva passare attraverso la via della legalità e l'utilizzazione del parlamento democratico. Tutto ciò può essere attribuito a difetto d'uomini, a certe loro carenze di intuizione e di ardimento rivoluzionario, ma non spiega tutto.

La ragione vera, invece, va ricercata nell'indirizzo politico degli organi direttivi della III Internazionale che di fronte all'opera di selezione, di scissioni e di adesioni avevano adottato il criterio tattico del massimo risultato quantitativo e della minore discriminazione politica, favorendo, quando non imponendo, il taglio più a destra possibile.

Sappiamo che di fronte a tale indirizzo politico bisognava o supinamente accettare o coraggiosamente rompere o lasciare ad altri la responsabilità per passare ad una aperta opposizione; nel caso specifico della frazione astensionista bisognava rompere col partito socialista, intelligentemente svuotato delle sue forze politicamente sane, e mettere tempestivamente l'Internazionale di fronte al fatto compiuto in modo da costringerla a scegliere tra la frazione, eretta a funzione di partito, come unica garanzia della lotta rivoluzionaria nel nostro paese, e il Partito Socialista perduto definitivamente a questo compito storico.

E quando non si opera su questo piano con la dovuta risolutezza e tempestività, non si perviene alla costruzione del partito nel momento storico in cui esso è necessario, oppure, quando verrà realizzato, come a Livorno, sarà troppo tardi e dovrà mettersi alla guida d'un proletariato non all'assalto del potere, ma in piena ritirata.