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Home ›Note a margine della Cop26 di Glasgow
Pochi scienziati mettono ormai in discussione il legame fra l’attività umana (in primo luogo l’utilizzo dei combustibili fossili) ed i cambiamenti climatici in atto; eventi meteorologici estremi (ondate di calore estivo, piogge torrenziali, tempeste invernali, buchi nell'ozono ecc..) sono sempre più all’ordine del giorno ed appaiono difficilmente giustificabili facendo ricorso alla sola variabilità naturale.
Le basi scientifiche per interpretare i mutamenti climatici risalgono a più di 150 anni fa e si sono dimostrate valide nella costituzione di modelli teorici in grado di correlare efficacemente, negli ultimi 60 anni di osservazioni, le cause note con gli effetti ambientali. Sin dal 1850-1860 è noto che i gas serra sono in grado di riscaldare il pianeta e il legame fra le emissioni di anidride carbonica e il riscaldamento della Terra è stato ipotizzato dal 1938.
In breve, l’energia che la Terra riceve dal Sole viene a sua volta emessa mediante radiazioni infrarosse; l’energia infrarossa, abbandonando la superficie terrestre, viene in parte assorbita dall’atmosfera determinando l’innalzamento della temperatura del pianeta. La quantità di energia assorbita, e quindi l’entità dell’incremento termico, è determinata dalla composizione dell’atmosfera; è stato osservato sperimentalmente che l’anidride carbonica aumenta l’assorbimento della radiazione infrarossa.
La previsione, basata sulla teoria scientifica precedentemente accennata, di un incremento della temperatura terrestre di circa 1,1 gradi centigradi fra il 1900 e il 2020, determinata principalmente dall’utilizzo di combustibili fossili, è stata verificata.
La distribuzione del calore, in maniera uniforme, dall’atmosfera alle profondità oceaniche, richiede del tempo; è stato stimato che le emissioni di anidride carbonica che si sono accumulate fino ad oggi nell’atmosfera determineranno un incremento della temperatura di circa 0,5 gradi centigradi nei mari e negli oceani nel prossimo futuro. L’acqua, riscaldandosi, accresce il proprio volume; è stato pertanto previsto un incremento del livello dei mari e degli oceani di almeno 25 cm entro il 2100.
Il concomitante scioglimento dei ghiacciai, secondo stime piuttosto prudenti, comporterà un’ulteriore incremento del livello delle acque di almeno 25 cm, con un incremento quindi complessivo di almeno mezzo metro entro la fine del secolo.
Ampie zone costiere, oggi ampiamente popolate, saranno sommerse dalle acque rendendo impossibile ogni tipo di coltivazione.
In paesi poveri come la Tanzania, che dipendono per il 30% del PIL dall’agricoltura, dalla pesca e dalla selvicoltura, la situazione potrebbe presto divenire insostenibile; lo stesso si può dire di paesi come il Vietnam, dove l’innalzamento delle acque comporterebbe la distruzione di una delle regioni con le più fertili risaie del mondo.
Il riscaldamento delle acque determina, d’altro canto, un aumento del vapore acqueo nell’atmosfera; il vapore acqueo è a tutti gli effetti un gas serra, in grado di assorbire calore e di emetterne ancora di più quando si condensa sotto forma di nuvole o dà luogo a tempeste. Si vengono così a generare dei circoli viziosi dove le temperature elevate e le ondate di calore anomalo innalzano l’umidità, che a sua volta alimenta acquazzoni estesi contribuendo ad incrementare la temperatura nelle ore notturne e catturando altro calore vicino alla superficie terrestre. Le temperature elevate ed il vapore acqueo possono costituire un mix micidiale in alcune condizioni, visto che per l’organismo umano è più difficile disperdere calore mediante la sudorazione in un clima umido; questo ha comportato l’incremento della mortalità nella parte di popolazione che non può accedere ad impianti di condizionamento. Osservazioni sempre più numerose indicano che gli eventi climatici estremi a cui abbiamo assistito negli ultimi anni sono alimentati da un complessivo incremento delle temperature e dell’umidità.
Ulteriori dati stanno evidenziano una progressiva espansione della zona tropicale dalla fascia equatoriale verso i poli, contribuendo a rendere più calde ed aride zone precedentemente a clima temperato e spostando di pari passo le zone interessate dalle precipitazioni tempestose; i fattori principali presi in considerazione dagli scienziati, per giustificare questo fenomeno, sono rappresentati dall’incremento delle temperature e dalle polveri atmosferiche che potrebbero modificare la temperatura dell’aria e la formazione delle nuvole; le manifestazioni più evidenti dei mutamenti in atto sono osservabili nel Mediterraneo, in Australia ed in California.
L’International Panel on Climate Change (Ipcc; gruppo di esperti internazionali sui cambiamenti climatici) ha dichiarato che se la temperatura globale dovesse aumentare di 2 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale, 118 milioni di persone potrebbero ritrovarsi a vivere in condizioni di siccità estrema e di carestia.
I temi brevemente accennati (in maniera tutt’altro che completa ed approfondita) vogliono soltanto mettere in evidenza che, malgrado la complessità dell’argomento e i diversi punti ancora controversi ed oscuri, ci sono degli aspetti ormai condivisi da gran parte della comunità scientifica sia riguardo ai meccanismi di base che alle drammatiche conseguenze che sta comportando il riscaldamento del globo; il legame fra l’attività umana ed i cambiamenti climatici emerge in maniera sempre più evidente dai dati sperimentali e dalle osservazioni raccolte. In secondo luogo è importante sottolineare che i mutamenti sono già in atto; se da domani dovessimo miracolosamente interrompere le emissioni di anidride carbonica, alcuni effetti del cambiamento climatico (come l’innalzamento delle acque) continuerebbero comunque a manifestarsi nel prossimo futuro.
L’anidride carbonica tende infatti a persistere nell’atmosfera (diversamente da altri gas serra, come il metano, che hanno una vita media molto più breve) comportando un pericoloso effetto cumulativo; circa il 50% dell’anidride carbonica che viene prodotta ogni giorno (si stima 100 miliardi di tonnellate) permarrà nell’atmosfera per almeno un migliaio di anni. Il fattore tempo diviene quindi cruciale per adottare le misure in grado di limitare le tendenze già in atto; la concentrazione di anidride carbonica, aumentata del 30% negli ultimi 60 anni, raddoppierà nel 2050 (rispetto alle concentrazioni del periodo pre-industriale) se rimarranno inalterate le emissioni attuali.
Per limitare l’aumento della temperatura media del pianeta a meno di 1,5-2 gradi centigradi, gli esperti del Ipcc hanno indicato che si dovrebbero dimezzare le emissioni di anidride carbonica entro il 2030, fino a raggiungere lo “zero netto” nel 2050.
Grandi aspettative sono state quindi riposte sulla ventiseiesima Conferenza delle parti (Cop26) della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è svolta a Glasgow (Scozia) dal 31 ottobre al 13 novembre (che ha visto la partecipazione di 197 nazioni più l’Unione Europea); ha rappresentato l’appuntamento diplomatico internazionale più importante sul clima dal vertice di Parigi del 2015.
Nel corso del vertice i diversi paesi sono stati tenuti a dare una versione aggiornata dei loro piani finalizzati alla riduzione dei gas serra, con l'obiettivo principale di non superare la temperatura media globale di 1,5 gradi centigradi (i cosiddetti NDC –contributi volontari nazionali-).
La riduzione, sino alla completa eliminazione, dei combustibili fossili, il percorso ed i finanziamenti necessari per conseguire tale obiettivo, rappresentavano pertanto il punto cruciale della conferenza.
Il documento finale prodotto dal vertice (“Glosgow Climate Pact”) è stato, da questo punto di vista, ampiamente insoddisfacente e rappresenta, per usare le parole del segretario generale dell’ONU Antonio Gutteres, “un compromesso che riflette gli interessi, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi”.
In particolare ha fatto “scalpore” l’emendamento proposto dall’India, poco prima della chiusura del vertice, che chiedeva di sostituire il termine “phasing out” (eliminazione progressiva) con “phasing down” (riduzione) nel capitolo IV articolo 36 del documento finale, concernente l’utilizzo del carbone; sebbene l’India sia stata l’unica nazione ad esporsi, rivendicando il suo diritto ad un “utilizzo responsabile” del carbone, anche la Cina, il Sud Africa, l’Iran e l’Arabia Saudita si trovavano fondamentalmente su posizioni analoghe.
L’india ha promesso che realizzerà la neutralità carbonica (ossia l’equilibrio fra l’anidride carbonica emessa e quella assorbita) solamente nel 2070, mentre la Cina nel 2060 (ben lontani, quindi, dal 2050 indicato dall’Ipcc); non si tratta di paesi marginali, ma rispettivamente del terzo e del primo inquinatore mondiale (nel mezzo si collocano gli Stati Uniti).
Gli scienziati hanno stimato che se non verrà presa alcuna misura contro il cambiamento climatico, la temperatura, entro la fine del secolo, salirà di circa 3 gradi centigradi rispetto al periodo pre-industriale, mentre aumenterà di 2,4 gradi se verranno mantenute le misure già intraprese e di 1,8 gradi se si dovessero applicare rigidamente tutti gli accordi e le promesse del vertice di Parigi e di Glasgow (evento decisamente improbabile e comunque inadeguato rispetto all'obiettivo di un incremento massimo di 1,5 gradi ).
La ritrosia di India e Cina ha profonde radici economiche; il carbone rappresenta attualmente la fonte energetica a più buon mercato e risulta uno dei fattori chiave della capacità concorrenziale dei colossi asiatici sul mercato internazionale (circa il 70% dell’elettricità dell’India è prodotta da centrali a carbone; secondo una stima dell’IEA -agenzia internazionale dell’energia- la domanda di carbone nel paese dovrebbe addirittura aumentare del 30% entro il 2030).
Per raggiungere l'obiettivo prefissato di una riduzione del 45% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2030 si dovrebbero chiudere oltre il 40% delle 8500 centrali a carbone presenti nel mondo nei prossimi 10 anni (non aprendone altre, ovviamente); considerando che in Cina si trovano la metà degli impianti e che questa nazione ha indicato come anno della neutralità carbonica il 2060, si comprende come questo obiettivo sia difficilmente attuabile.
Ovviamente non dobbiamo dimenticare che gli stati occidentali, “amareggiati” e “delusi” dall’atteggiamento indiano e cinese, sono i principali responsabili dell’inquinamento mondiale; uno studio della Global Carbon project ha dimostrato che l’Europa occidentale, gli Stati Uniti, il Canada e il Giappone, con il 12% della popolazione mondiale, hanno contribuito al 50% delle emissioni di anidride carbonica.
La situazione richiederebbe l’approvazione di accordi vincolanti, cosa che non si è verificata, in grado di imporre drastiche ed immediate misure di riduzione dei gas serra; il fattore tempo rimane, come già affermato, fondamentale: un taglio annuo delle emissioni del 3,7% sarebbe stato sufficiente se si fosse avviata tale misura dal 2010, ma già nel 2020 il taglio delle emissioni dovrebbe essere del 9% per mantenere gli obiettivi di Glasgow.
Nei fatti, invece, il compromesso raggiunto a Glasgow non è legalmente vincolante, non è un trattato internazionale e non sono pertanto previste sanzioni per chi non lo rispetta; il vertice è stato caratterizzato da molte promesse aleatorie ed accordi senza una precisa progettualità.
Altro aspetto che il vertice avrebbe dovuto affrontare era il problema del finanziamento delle misure di mitigazione (riduzioni delle emissioni) e di adattamento (messa in sicurezza delle popolazioni e delle infrastrutture minacciate dal cambiamento climatico) nei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” (o per meglio dire, della periferia del capitalismo); si tratta della promessa di erogare 100 miliardi di dollari all’anno, per sei anni consecutivi, ai Paesi in via di sviluppo (promessa già fatta 10 anni fa e mai mantenuta). I paesi industrializzati dovrebbero adempiere a tale impegno (da molti giudicato comunque insufficiente) entro il 2025 (su come istituire concretamente il fondo non ci sono precisazioni nel documento).
Sebbene il vertice possa essere considerato un fallimento, non si può certo pensare che non vi sia consapevolezza, da parte della borghesia e dei suoi governi (così come da una parte sempre crescente dell’opinione pubblica), della gravità della situazione e delle drammatiche conseguenze (seppur ricche di incognite) che il cambiamento climatico potrebbe comportare. Può sembrare paradossale che questa consapevolezza non dia luogo ad azioni adeguate e concordate, ma è proprio l’attuale ordinamento economico a rappresentare uno dei principali ostacoli in questa direzione.
La perenne ricerca di valorizzazione del capitale, nel nostro modo di produzione, è una necessità, non una scelta politica fra le molte. La stessa riproduzione sociale è legata indissolubilmente al processo di valorizzazione del capitale. La logica di mercato condiziona quindi ogni scelta politica, compresa la cruciale questione ambientale e climatica: quanto potrebbe essere oneroso il percorso di transizione energetica? Quale ridimensionamento comporterebbe alla capacità produttiva e concorrenziale della nazione una simile scelta? Quali conseguenze geopolitiche?
Nei fatti, seppure formalmente con il medesimo obiettivo, i vari paesi si contrappongono con differenti interessi. La consapevolezza che gli idrocarburi fossili dovranno essere abbandonati è indubbiamente diffusa ed il cambiamento tecnologico considerato inevitabile, ma si vuole che questo avvenga nella maniera più indolore e graduale possibile (in particolare nei paesi che di fatto sono diventati le nuove filiere produttive mondiali alimentate da energie a basso costo ed, ovviamente, nelle nazioni che vivono del commercio degli idrocarburi); il cambiamento dovrebbe avvenire senza intralciare in maniera significativa i meccanismi di valorizzazione del capitale, anzi, ancor meglio, dovrebbe trasformarsi in una nuova occasione di profitto.
I tempi necessari al capitale per dar luogo alla transizione energetica (che la crisi di valorizzazione dell’attuale ciclo di accumulazione potrebbe ulteriormente dilatare) appaiono tuttavia poco compatibili con i tempi del mutamento climatico; com’è facilmente ipotizzabile, un aggravamento di fenomeni meteorologici estremi, una progressiva desertificazione e l’innalzamento delle acque oceaniche, caratterizzeranno il prossimo futuro. Senza considerare, poi, il rischio di raggiungere punti di non ritorno climatici, ossia di mutamenti drastici ed irreversibili che potrebbero comportare permanenti sconvolgimenti dell’ambiente; un esempio drammatico può essere rappresentano dello scioglimento dei principali ghiacciai che comporterebbe un incremento delle acque di almeno sette metri – argomento ampio e controverso, sul quale ci proponiamo di tornare.
L’attuale sistema economico si sta dimostrando, proprio perché incentrato sulle necessità di valorizzazione del capitale, sempre più inadeguato a rispondere al grave problema climatico che ha generato; la battaglia ambientale non può essere disgiunta da una battaglia più ampia contro il capitale e contro tutte le sue manifestazioni, per nuovo ordine libero dalle logiche del mercato e del profitto, finalizzato al soddisfacimento dei bisogni sociali, per il comunismo.
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Battaglia Comunista #11-12
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