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Home ›Benefattori: sul buon cuore della borghesia americana
A leggere le cronache che vengono da oltre Atlantico, pare che il capitalismo di marca USA stia producendo benefattori su scala industriale. I beneficiati sarebbero milioni di lavoratori che finalmente comincerebbero a sperimentare gli effetti dello “sgocciolamento” (1) ossia della teoria secondo la quale a forza di gonfiare di denaro le tasche dei ricchi, queste, per legge naturale di gravità, prima o poi cominceranno a lasciare cadere le monete d'oro in eccesso su chi sta in basso, con gran soddisfazione di tutti quanti. Naturalmente, il valore di tale teoria è inferiore a quello di una storiella per bambini, benché da decenni sia il motore ideologico dei governi di qualunque colore e venga riproposta con gran clamore mediatico dal presidente della prima superpotenza mondiale. Quello che alcune tra le più grandi aziende americane stanno facendo in questo periodo sembrerebbe dare ragione agli “sgocciolatori”, ma se si scostano le decorazioni con cui la propaganda borghese traveste il proprio operato, si scopre che le cose non stanno proprio come ci vengono raccontate, che la presunta beneficenza ha un costo molto alto, tale da annullare, con gli interessi, ogni supposto beneficio.
L'intervento più clamoroso è stato, finora, quello di Marchionne, AD (amministratore delegato) di FCA, che, ringraziando Trump per la riforma fiscale, ha deciso di versare entro la metà dell'anno un bonus da duemila dollari ai sessantamila dipendenti americani, per condividere con loro – dice – i risparmi ottenuti dall'abbassamento dell'imposizione fiscale sulle imprese. Inoltre, sempre in virtù della riforma trumpiana, ha annunciato che sposterà investimenti dal Messico al Michigan, creando quasi tremila nuovi posti di lavoro. Ora, è indubbio che il “badantaggio” statale nei confronti del capitale di questi ultimi decenni, tra cui, appunto, il taglio energico delle imposte, abbia contribuito significativamente a ricostituire anche nella “metropoli” capitalista, almeno in parte, condizioni più favorevoli per mandare avanti un processo di accumulazione che, nonostante “l'assistenza” suddetta, continua a mostrare il fiato corto. Aiuti statali diretti e indiretti, salario dei neoassunti inferiore del quaranta-cinquanta per cento, hanno ormai avvicinato le condizioni dei “blue collar” americani (e non solo loro) a quelle, per esempio, degli operai dell'Europa orientale. Tra parentesi, giusto per ricordare un'altra tappa del “cammino delle lacrime” della classe operaia, in questo caso italiana, Embraco butta sulla strada cinquecento operai/e per trasferirsi in Slovacchia, dove, oltre agli aiuti europei e nazionali, a un salario notevolmente più basso di quello italiano, può godere di un'imposta al 21%, uguale a quella varata dal presidente USA.
Chiudendo la drammatica parentesi, bastano due conti per vedere come la “carità” di Marchionne sia pelosa, non solo perché lo “stipendio” annuo dell'AD di FCA equivale al bonus da elargire a 50.000 operai (circa dieci milioni di dollari), ma perché con il taglio di quattordici punti delle tasse, il risparmio ammonta a centinaia di milioni di dollari, se non forse di più. Questo, naturalmente, vale per ogni impresa (entità della cifra a parte, va da sé), benché tra non pochi analisti borghesi sussista più di un dubbio sulla destinazione effettiva di quella montagna di denaro, sospettata (2) di alimentare non tanto – se non in piccola parte – gli investimenti produttivi, quanto il circuito della speculazione finanziaria. Certo è che le entrate sottratte alle casse dello stato significano tagli spietati a quel po' di “stato sociale” sopravvissuto, in particolare alla sanità: con duemila dollari si può fare un'ecografia in un ospedale “normale”, quindi gli operai, il proletariato americano più che mai devono augurarsi di rimanere in buona salute...
Marchionne non è il solo capitalista ad essere stato contagiato dal virus, così raro per quelli della sua risma, della generosità: oltre a FCA, altri grandi imprese distribuiranno bonus da mille euro (Il Sole 24 ore, 12 gennaio 2018), compresa la famigerata catena Wal-Mart, che ha deciso di alzare il salario orario da 9 a 11 dollari, assieme alla concessione di qualche altra gratifica (congedi familiari). Ora, Wal-Mart è universalmente e tristemente nota per le pessime condizioni di lavoro cui sottopone la forza lavoro e se ha deciso di aumentare lo stipendio è perché, appunto, coi risparmi fiscali di cui gode può permettersi questo e altro; in più, è un modo, a spese dello stato sociale, per “fidelizzare” la manodopera che proprio per le condizioni ai limiti – o peggio - della vivibilità, pratica un turn-over talmente elevato da intaccare persino la produttività complessiva dell'impresa. Con una battuta, si potrebbe dire che coi soldi degli altri (del proletariato), si fa poca fatica a fare bella figura.
C'è poi un altro aspetto che spiega tanta bontà di cuore da parte di imprese, come Wal-Mart, conosciute per avere due metri di peli sullo stomaco nel trattare gli operai: diversi stati e diverse città dell'Unione, con una dislocazione a macchia di leopardo, alzano o alzeranno comunque il salario orario. Infatti, da qualche anno a questa parte, negli Stati Uniti si è sviluppato dal basso, al di fuori del sindacato (se le nostre informazioni sono corrette), un movimento di lavoratori (3) che, partendo dalle grandi catene di fast-food, ha coinvolto altri segmenti della classe operaia dei servizi, quella che, in genere, subisce le peggiori forme di sotto-salario e sottoccupazione. Contrastato, naturalmente, dal padronato, cui hanno dato man forte le forze dell'ordine borghese, questo movimento è riuscito – come si diceva, non dappertutto e non in eguale misura, anzi – a strappare da questo o quello stato, da questa o quell'amministrazione cittadina, aumenti più o meno consistenti rispetto al salario minimo federale, fissato, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, a 7,25 dollari l'ora. Inutile dire che le amministrazioni statali o cittadine che hanno soddisfatto in pieno la rivendicazione del movimento (4), cioè 15 dollari orari, si contano sulle dita di una mano, con l'avanzo di qualche dito: che ci risulti, San Francisco e nel giro di un anno o due Seattle. Senza contare che le piccole imprese avranno ancora più tempo per adeguarsi ai nuovi livelli, qualunque essi siano (5). Volendo, si potrebbe osservare che la bontà d'animo delle amministrazioni si spiega, oltre che con la pressione delle lotte, elemento fondamentale, con la necessità di sgravarsi di una parte delle spese assistenziali, sempre più sotto pressione dall'aumento ininterrotto dei poveri, molto spesso lavoratori sottoccupati. E' probabile, infatti, che l'innalzamento, anche se di poco, della paga oraria, privi molti proletari del dritto ai food stamps (buoni alimentari) e al dormitorio pubblico.
A questo punto, uno tra i tanti nostri critici potrebbe alzare la cresta pensando di averci colto in castagna ossia di aver trovato una contraddizione tra quanto sosteniamo sul progressivo esaurimento degli spazi di riformismo e l'aumento del salario minimo, concludendo che, contrariamente a quanto da noi sostenuto (sempre secondo i cercatori di pulci), la lotta paga sempre.
Allora, due cose, giusto per ribadire l'ovvio, per noi. Abbiamo sempre sostenuto che la lotta sul terreno economico, indipendentemente dalle fasi del capitale, è un elemento irrinunciabile; per dirla con uno che la sapeva lunga, una classe che rinuncia a difendersi nella lotta quotidiana con la borghesia, sul piano delle condizioni di lavoro, non è capace né degna di lottare per compiti più alti, cioè il superamento rivoluzionario del sistema capitalistico. Le fasi storiche del capitale fissano però le famigerate compatibilità, oltre le quali, con la semplice lotta economica, non è possibile andare: prova ne sia, una volta di più, che nonostante lotte (di cui da queste parti si parla poco e niente) condotte da significativi settori di classe - fast food e servizi, appunto - i risultati sono quelli che sono. Molto faticosamente, qui e là è stata ristabilita la situazione minimale al di sotto della quale la classe operaia era ritenuta non potesse andare, cinquanta anni fa. Nella stragrande maggioranza degli altri casi, ci si avvicina solamente, in tempi e modi diversi, al “paradiso perduto” degli anni del boom. Il degrado della condizione operaia negli ultimi decenni è andato tanto avanti che oggi, non di rado, bisogna lottare non per strappare alla borghesia sostanziosi miglioramenti, ma, come nel caso degli operai della logistica, per “conquistare” un livello “medio” di sfruttamento. Eppure, quando questo avviene, è indubbiamente una vittoria, anche se può apparire paradossale, perché se non altro si è posto un freno allo sfruttamento, che, se fosse per il padrone, non ne avrebbe alcuno.
Da qui, l'ultima, per noi, ovvietà: la lotta economica è sempre necessaria, anche se in chiave difensiva, ma, specialmente nelle epoche di crisi come questa, ha dei limiti e se non è inquadrata in una più ampia e coerente strategia anticapitalista, portata avanti dall'organizzazione rivoluzionaria, rischia forte di produrre solo illusioni a cui seguono inevitabilmente amare disillusioni.
CB(1) Ne abbiamo già parlato altre volte, vedi, per esempio, BC 1-2018
(2) A ragion veduta, visto come vanno le cose, anche dopo i disastri prodotti dallo scoppio della bolla del 2007.
(3) Probabilmente, in maggioranza si tratta di lavoratrici.
(4) Di lavoratori, sottolineiamo, non di generica società civile, come, per esempio, Occupy Wall Street.
(5) Il New Mexico, per esempio, lo ha portato a 7,50 dollari: intervento minimo, per non dire ridicolo. Nel complesso, al 2017, pare che siano poco più di quattro milioni i lavoratori/trici che “godono” degli aumenti stabiliti dalle varie amministrazioni locali, rispetto al salario minimo federale.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #03-04
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