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Trump, il dio della guerra, ha scagliato un'altra delle sue folgoranti saette. La sua dichiarazione di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme ha prodotto il fragore di una bomba in una situazione geografica e politica che di ulteriori bombe non ne ha certamente bisogno. Anche se al momento sono soltanto virtuali ma funeree portatrici di ben altre, reali e sterminatrici, che continueranno a martoriare per anni tutto il Medio oriente. La dichiarazione in sé sarebbe potuta passare inosservata se a pronunciarla fosse stato un qualsiasi altro capo di stato, in un'altra zona del globo terraqueo, in un contesto meno delicato. Ma così non è.
Il senso della dichiarazione suona come uno squillo di tromba, un segnale di guerra che ammalia le orecchie sioniste di Netanyahu e stordisce il mondo palestinese, rivitalizzando lo scontro tra i due irriducibili nazionalismi. Lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme sta a sancire che, per il governo americano, non vale più la politica (sempre dichiarata ma mai praticata) dei due popoli e due stati, ma che di stato c'è n'è uno solo e Gerusalemme è la sua capitale. Per quanto riguarda i popoli siamo nelle stesse condizioni, ne esiste uno solo, quello israeliano, l'altro, quello palestinese, è un vecchio effetto collaterale che risale alla formulazione della risoluzione ONU 181 del 1947 e, quindi, alla prima guerra arabo israeliana.
Le reazioni non si sono fatte attendere, persino la Mogherini, a nome dell'Unione Europea ha fatto sapere che l'esempio americano non avrà molti imitatori. Il presidente francese Macron ha addirittura accusato Trump di mettere in discussione il processo di pace in Medio oriente anche se, va detto, il tanto strumentalizzato percorso verso una “soluzione” negoziale tra i due nazionalismi non ha mai potuto imboccare la strada giusta, sia per i reiterati rifiuti di Israele, sia per le pesanti interferenze degli imperialismi d'area e non solo che, della questione israelo-palestinese, hanno sempre fatto più un mezzo di scontro tra i rispettivi opposti interessi, che di soluzione del problema.
La Turchia a voce del presidente Erdogan ha pesantemente inveito contro Trump e la politica americana in Medio oriente usando termini come “massacratori” di popolazioni inermi, di “assassini” di bambini e di violatori di qualsiasi processo di pace e istigatori di conflitti che potrebbero mettere a rischio di guerra l'intero scacchiere mediterraneo. Dietro simili e pesanti dichiarazioni si nasconde il tentativo di difendere strumentalmente il popolo palestinese (sunnita) con la speranza di giocare una carta vincente contro il silenzio dell'Arabia saudita e il suo appiattimento politico e militare nei confronti di che è sempre stato dalla parte del sionismo e mai dalla parte dei palestinesi. Carta che, se ben giocata, darebbe un significativo vantaggio ad Ankara nel suo duello con l'Arabia saudita per il ruolo di leadership all'interno del mondo sunnita. Si aggiunga che la veemenza di Erdogan nei confronti di Trump, che è arrivata a definirlo assolutamente “inaffidabile” per gli equilibri internazionali, poggia sul rabbioso risentimento per la politica americana nella guerra contro lo Stato Islamico “sbilanciata” sull'appoggio delle formazioni curde sia in territorio siriano che in quello iracheno. Formazioni curde di cui Erdogan non vuol nemmeno sentir parlare, per non correre il rischio di ritrovarsi il problema nazionalistico in Siria, in Iraq oltre che in casa sua con un rinvigorito PKK.
La Russia di Putin che si ritiene la vera vincitrice nella guerra contro lo Stato Islamico tanto da aver iniziato a ritirare le truppe dalla Siria, alla parole di condanna dell'operato di Trump, ha sommato i fatti. Immediatamente il nuovo “Zar” si è recato a trovare Bashar el Assad per brindare alla vittoria ottenuta, per ribadire la presenza militare russa nelle acque del Mediterraneo e per rafforzare il concetto che in Siria il regime alawita non si tocca e che l'unico tutore autorizzato viene da Mosca e solo da Mosca. Sulla scia di questa vittoria Putin sta tentando di andare oltre i suoi tradizionali spazi imperialistici mediorientali. Dopo la visita a Damasco si è proposto al mondo sunnita organizzando incontri diplomatici, economici e politicamente strategici con il re Hussein di Giordania e con l'egiziano al Sisi sempre più stabile al potere al Cairo e sempre più diffidente nei rapporti con gli Usa. Al coro si sono aggiunti Cina e Iran che pur divisi da diversi punti di vista economici e strategici convergono sulla critica alla mossa di Trump.
Gli analisti borghesi più accreditati a proposito della “sparata” di Trump su Gerusalemme, si mantengono sulle generali. Alcuni si limitano a dire che anche questo episodio, per grave che sia, è soltanto l'ennesimo tentativo del presidente americano di cancellare tutte le tracce politiche del suo predecessore reo, in questo caso, di aver sposato l'idea dei due stati e due popoli per tentare di dare una soluzione “pacifica e definitiva” alla questione israelo-palestinese.
Altri giustificano la “sparata” più come conseguenza di una pesante situazione interna che vede Trump in gravi difficoltà per lo scandalo “Russia gate” e per il bassissimo indice di gradimento all'interno sia dell'opinione pubblica americana, sia nelle assisi del suo stesso partito. In altri termini sarebbe soltanto una mossa per assicurarsi almeno l'appoggio della lobby pro-Israele e della destra filo sionista nel tentativo di risalire la china nei sondaggi elettorali in prospettiva delle imminenti elezione di medio termine.
Tutte considerazioni valide, almeno in parte, ma che rimangono alla superficie del problema innescato dalla decisione di Trump di spostare la sede dell'ambasciata. Le vere ragioni vanno ricercate nella imminente chiusura della fase bellica della lotta contro lo Stato Islamico che innesca uno scontro politico e diplomatico per la spartizione delle zone strategiche nella vasta area del “Siraq” liberato. Come in tutte le fasi post belliche le potenze vincitrici si presentano alla “Cassa” per ricevere i dividendi sotto forma di ingerenze militari, commerciali, di sfruttamento delle risorse o soltanto per il “controllo” di aree geografiche strategiche con relativo business della ricostruzione. Nello specifico sembrerebbe che a gestire la “Cassa” sia l'azionista di maggioranza Putin che sul terreno ha raccolto la maggiore quantità di “azioni” che gli consentono di mantenere a Damasco il suo alleato Assad, di usufruire delle basi militari, di costruirne di nuove, di trattare direttamente con il Cairo e con Amman, come mai era successo precedentemente. Trattative collocate nell'evidente scopo di dilatare la sua presenza nel Mediterraneo in termini militari, di commercializzazione del suo gas e di controllo di un'area strategica di primaria importanza che collega l'Europa al nord Africa, al Medio oriente e che gli consentirebbe di intensificare i rapporti con la Turchia di Erdogan in funzione energetica (turkish stream) e militare. Il tutto a scapito degli Usa che nella guerra siriana (nel falso nome della lotta al terrorismo jihadista) ci sono entrati proprio per impedire alla Russia tutto questo.
Una prima risposta all'aggressivo protagonismo di Putin è stato l'inserimento di Israele tra i paesi che potrebbero usufruire di “licenze amministrative”, nell'ipotetica spartizione di alcuni territori siriani. Secondo i piani di Trump una parte del sud della Siria andrebbe sotto il controllo di Gerusalemme, in qualità di zona franca demilitarizzata. In realtà trattandosi di un territorio che è contiguo alle Alture del Golan, si configurerebbe come un regalo ad Israele che così chiuderebbe definitivamente il contenzioso con la Siria per la restituzione delle Alture (conquistate nel 67 nel corso della guerra dei sei giorni) considerate da entrambi i paesi determinanti sia da un punto di vista dell'approvvigionamento idrico che per questioni strategiche. Con l'aggiunta che quest'area, a nord delle Alture stesse, fungerebbe da profonda “intercapedine” tra i due stati, allontanando il confine siriano da quello israeliano.
La seconda è proprio la dichiarazione di spostare a Gerusalemme la capitale dello stato di Israele. Dichiarazione che cancella l'ipotesi della formazione di due stati e di due popoli con una sola capitale divisa a metà. Dichiarazione che, nel sotto testo, implica la decisione di Trump di rompere ogni indugio sull'unicità e indivisibilità dello stato d'Israele, salvo per qualche “riserva” da concedere alla popolazione palestinese. Altro regalo, peraltro inaspettato, che Netanyahu si è affrettato ad accettare immediatamente e il cui scopo è quello di rinsaldare una “amicizia” tra i due paesi che, in questa particolare fase storica, in questo contesto di scontro imperialistico, oltretutto nel cuore di una regione ad alta densità di interessi contrapposti, deve assolutamente essere portato a compimento e al più presto.
Per l'imperialismo americano in evidente difficoltà nella questione Medio orientale, con una Arabia saudita, alleata si ma con riserva. Con una Turchia sempre pencolante ma ultimamente più orientata a perseguire i suoi interessi con l'asse Russia-Cina nonostante la presenza dell'Iran. Con un Iran pronto a riprendere un ruolo di rilievo nel panorama imperialistico del Caspio in collaborazione della sempre presente Russia, le regalie di Trump a Netanyahu altro non sono che il tentativo di ingaggiare Israele sul fronte anti sciita e anti russo all'interno di un duello imperialista che ha prodotto guerre, disastri e barbarie sino ad oggi e che si sta preparando ad altri massacri e barbarie come è nella feroce logica del capitalismo in crisi produttiva e in astinenza di remunerativi profitti. Nello stesso violento scenario si consuma l'ennesima tragedia di intere popolazioni, di proletari e di contadini mandati al massacro, rigorosamente arruolati nelle fazioni delle rispettive borghesie, a loro volta inserite all'interno degli schieramenti imperialistici. Vittime combattenti per interessi che non sono i loro ma dell'avversario di classe. Vittime dell'ideologia borghese e degli interessi del capitale che la domina e che le manda al massacro.
FDBattaglia Comunista #01-02
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