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Home ›Povertà e disuguaglianza in crescita ovunque
Non basta “cinguettare” per cancellare tutto questo
Il cinguettante presidente del consiglio non perde occasione per gorgheggiare ogni volta che escono dati sulla situazione economico-sociale, indipendentemente dal o, meglio, nonostante il significato reale dei dati medesimi, vista la sua propensione a distorcerli, fino a farne uscire un quadro diverso da quello reale, persino opposto. E' il caso di un rapporto Istat sulla povertà, apparso il 15 luglio scorso, secondo il quale la povertà assoluta, nel 2014, avrebbe smesso di crescere, il che starebbe a significare, per l'«usignolo» di cui sopra, che il Paese è davvero ripartito, alla faccia dei soliti “gufi”. Metafore ornitologiche a parte, non è questione di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, cioè di ottimismo-pessimismo caratteriali, ma di uso bieco e strumentale dei numeri a fini propagandistici. Sarò anche vero che, lo scorso anno, l'asticella della povertà non è salita, ma è fuori discussione che otto anni dopo lo scoppio della bolla dei subprime il livello raggiunto non ha paragoni negli ultimi decenni e rallegrarsi di questo equivarrebbe – come diceva il tale – al gridare “cento di questi giorni!” a un funerale. Studi nazionali e internazionali non fanno altro che disegnare uno scenario cupo, anzi, sempre più cupo e solo certe anime belle confindustriali del Sole 24 ore si ostinano a negare una realtà fatta di povertà e disuguaglianze in aumento (1). Nemmeno un mese dopo le tesi negazioniste del giornale padronale, quasi in contemporanea sono usciti due rapporti in qualche modo complementari sulla disuguaglianza e sull'occupazione nel mondo; il primo è dell'OCSE, il secondo dell'ILO, l'agenzia ONU, sulle condizioni dei lavoratori nei vari paesi. Oltre che complementari, i due rapporti sono quasi sovrapponibili, anche per le solite ricette anti-crisi di stampo riformista, che lasciano il tempo che trovano (prossimo allo zero...). A dire il vero, per quanto riguarda l'OCSE, si rimane per così dire perplessi, visto che alla base della crescita delle disuguaglianze pone – sembra – quei fattori che essa ha sempre indicato come indispensabili per rilanciare l'economia e, dunque, il benessere (dal suo punto di vista), in primo luogo la rottura di ogni “rigidità” del mercato del lavoro. Ma andiamo con ordine.
Secondo l'OCSE, le disuguaglianze, nei trentaquattro paesi membri, non hanno smesso di espandersi, tanto che dal 2007 al 2011 “il 40% più povero ha perso il 40% del reddito. I più ricchi hanno guadagnato il 51%” (2). Questa gigantesca ridistribuzione di reddito a favore delle fasce sociali più alte (la borghesia) non è però riservata solo ai paesi OCSE, ma è un fenomeno globale, com'è noto o, almeno, è noto a chi non si limita ad ascoltare solo i mass media dominanti: per fare un esempio, oggi ottanta miliardari possiedono una ricchezza, in dollari, pari a quella posseduta (si fa per dire) da tre miliardi e mezzo di essere umani collocati nel gradino più basso della scala sociale.
In Italia, “circa 600 mila famiglie (la crème dei ricchi) detengono un patrimonio pari a tre volte quello detenuto da 24 milioni di persone, la fascia più povera” (3). Naturalmente, la crisi ha colpito anche la borghesia, che registra delle perdite, ma, com'è ovvio che sia, i colpi più duri sono subiti dai settori di popolazione più poveri: il 10% di questo segmento ha visto ridursi il proprio reddito del 4% circa (sempre tra il 2007 e il 2011), mentre per il 10% più ricco il calo sarebbe stato dell'1% (4). D'altronde, da qualche parte s'era letto, tempo fa, che nella classifica dei miliardari a scala planetaria, il Cavalier Berlusca aveva dovuto cedere diversi posti, causa l'andamento contrastato e poco brillante delle sue aziende: anche se le perdite finanziarie non gli impediranno di dar da mangiare ai suoi figli, rimangono pur sempre perdite. I contraccolpi negativi subiti da una parte della borghesia (a cominciare da quella piccola-media impresa vanto, fino a poco tempo fa, del capitalismo nazionale) possono forse contribuire a spiegare lo scarso aumento, in Italia, dell'indice Gini (quello che misura le disuguaglianze), che, secondo l'OCSE, sarebbe aumentato di poco, dal 31,7 al 32,1%. C'è da dire che l'indice Gini italiano non è mai stato basso, a paragone di altri paesi europei, e anche questo potrebbe spiegarne il modesto aumento. Fatto sta che, prendendo per buone le statistiche appena citate e quelle dell'Istat di metà estate, rimane nonché colpisce come un cazzotto in un occhio un altro dato diffuso in contemporanea con quelli dell'OCSE, fornito dall'INPS, secondo cui il numero dei poveri in Italia, dal 2008 al 2014, è cresciuto di un terzo, da 11 a 15 milioni, portando le percentuale delle famiglie in povertà (assoluta e relativa) dal 18 al 25% (5). Non male, se si pensa che da anni i governi, di qualsiasi tinta, unita o arlecchino, chiedono (cioè impongono) sacrifici a noi, proletariato e fasce sociali vicine, proprio per far ripartite l'economia e così – secondo il loro sillogismo, falso come un soldo di gesso – distribuire pane e prosperità a tutti: cose che sarebbero dietro l'angolo, se solo stringessimo un altro po' la cinghia...
Più o meno nello stesso periodo, è apparso, come s'è detto, il periodico studio dell'ILO che, al di là del linguaggio volutamente contenuto (6), rincara una dose già di per sé cara, per quanto riguarda le condizioni della classe lavoratrice mondiale.
Per limitarci ad alcuni aspetti, nei confronti del 2007 la disoccupazione è aumentata di trenta milioni di persone e, in generale, la creazione di nuovi posti di lavoro avviene a ritmi molto lenti: l'1,4 per cento l'anno, su scala globale, ma “nei paesi industrializzati e nell'Unione Europea, la crescita dell'occupazione è dello 0,1 per cento, rispetto allo 0,9 tra il 2000 e il 2009”. Disoccupazione e bassi ritmi di crescita dell'occupazione hanno fatto sì che la “massa salariale aggregata” sia diminuita, nel 2013, di 1218 miliardi di dollari. Oltre alla perdita dovuta al “divario occupazionale”, il “rallentamento della crescita dei salari” (eufemismo per dire che spesso significa diminuzione degli stessi) nei paesi detti avanzati ha “provocato una riduzione di 485 miliardi di dollari della massa salariale a livello regionale” (7).
Crescita lenta - e per lo più concentrata nei settori a bassi salari – dell'occupazione o arretramento della stessa, “crescita” stentata dei salari, diffusione del cosiddetto lavoro atipico (part-time imposto, precarietà in ogni forma) sono all'origine, anche secondo l'ILO, dell'aumento macroscopico delle disuguaglianze e fin qui possiamo essere d'accordo. Il disaccordo comincia, va da sé, nell'individuazione delle radici di questa situazione e sulle possibili soluzioni. Per esempio, l'ILO dice che in Europa, dall'inizio della crisi finanziaria “abbiamo assistito ad una generale riduzione della protezione del lavoro”, di contro a un rafforzamento generalizzato delle “leggi sulla protezione dell'occupazione”. Ora, posto che per quanto riguarda quest'ultimo aspetto bisogna avere una spiccata propensione all'ottimismo, visto che quelle leggi rimangono in genere sulla carta, il peggioramento in Europa (e nel mondo) risale a molto tempo prima, quando - ormai una quarantina d'anni fa - si è inceppato il processo di accumulazione cominciato dopo la seconda guerra mondiale. Dunque, è più corretto parlare di progressiva accelerazione del peggioramento, non di inizio. Di fronte a saggi di profitto declinanti e, quando in ripresa, comunque inadeguati rispetto a una determinata composizione organica del capitale, la via dell'attacco frontale alle condizioni di lavoro (quindi di esistenza) della classe salariata rimane la più diretta e conveniente rispetto a quella dell'aumento della produttività (di plusvalore) ottenuta attraverso investimenti massicci in capitale costante (nuove tecnologie, nuovi processi produttivi ecc.), perché i saggi di profitto sarebbero comunque insoddisfacenti rispetto all'entità degli investimenti medesimi. Non che quest'ultimi siano assenti in assoluto, ovviamente, ma il capitale, in questa fase, privilegia la svalorizzazione della forza lavoro attraverso l'abbassamento del salario diretto (si fatica ad arrivare alla quarta, persino alla terza settimana, in molti casi) e la predazione di quello indiretto (pensioni, sanità, servizi sociali in generale). Che poi questa strada possa essere risolutiva della crisi è tutta un'altra faccenda e che, anzi, tenda ad aggravare i problemi (la diminuita capacità di consumo di milioni di lavoratori restringe inevitabilmente il mercato), beh, questo fa parte delle contraddizioni ineliminabili del capitalismo, nemmeno con le formule magiche del riformismo tradizionale o radicale né con le cialtronerie del “cinguettante” Renzi di cui si parlava in apertura dell'articolo. A proposito, le retribuzioni dei nuovi assunti – in particolare, ma non solo, di quelli a “tutele crescenti” - e delle trasformazioni da tempo determinato a”indeterminato”, continuano a calare rispetto a un anno fa (8): a riprova, a costo di diventare monotoni, che la “ripresa”, se mai ci sarà (e in che misura), dovrà basarsi sul presupposto irrinunciabile della compressione delle condizioni complessive di vita del lavoro salariato/dipendente ossia sul “modello di sviluppo” inaugurato qualche decennio fa.
Tuttavia, il fatto che lo stato attuale del capitalismo chiuda praticamente gli spazi a miglioramenti generalizzati e sostanziali di quelle condizioni – o riduca questi spazi al minimo, nel “migliore” dei casi... - non significa che la classe debba rinunciare alla lotta su questo terreno, al contrario, se non altro al fine di rallentare, limitare, per quanto è possibile, l'attacco del capitale e i suoi effetti. Sarebbe un primo passo, non sufficiente ma necessario, per cominciare il percorso di maturazione politica che sbocca nella consapevolezza di dover intraprendere una battaglia generale - non solo sul terreno della fabbrica, del posto di lavoro (qualunque esso sia) – contro il sistema capitalistico, contro la società borghese. Un percorso che deve intrecciarsi con quello del partito rivoluzionario, avanguardia politica del proletariato, dalle cui esperienze è nutrito e che nutre a sua volta, dando a quella battaglia coscienza dei fini, coerenza nei mezzi, determinazione e “fiato” per affrontare il percorso, lungo e accidentato.
CB(1) Il Sole 24 ore, 26 aprile 2015, sui dati della Fondazione Hume.
(2) Il Manifesto, 22-05-'15.
(3) Il Manifesto, cit.
(4) Il Manifesto, cit.
(5) Vedi diversi quotidiani del 19-05-'15.
(6) Il modo di esprimersi dell'ILO è fatto di giri di parole, “burocratese”, eufemismi, cioè abbellimenti vari ecc.
(7) Rapporto dell'ILO del 19-05-2015, in www.ilo.org, pagina in italiano.
(8) Vedi Il Manifesto dell'11 giugno e dell'11 agosto scorsi.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #08-09
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