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Home ›La rielezione di Morales alla presidenza boliviana - Quale anti-imperialismo, quale socialismo?
«Questa vittoria è un trionfo per gli anti-imperialisti e gli anti-colonialisti», ha detto Evo Morales, rieletto per la terza volta consecutiva presidente della Bolivia. Per rincarare la dose e infiammare gli animi di tanti “anti-imperialisti”, ha dedicato la vittoria a Fidel Castro e a Hugo Chavez, il defunto presidente venezuelano.
Indubbiamente, dietro la conferma di un consenso elettorale così ampio ci devono essere solide ragioni, di svariato ordine, ma che poco hanno a che fare con l'anti-imperialismo e l'anti-colonialismo, se a queste espressioni si vuol dare un significato di classe rigoroso, in senso anticapitalistico. Infatti, se si va a vedere da vicino, sotto i proclami, la sostanza delle politiche messe in atto dal leader del MaS (Movimiento al Socialismo, fondato nel 1997), si scopre facilmente che possono essere definite in varie maniere, ma in nessun modo come tendenti, diciamo così, al superamento del capitalismo. C'è chi parla di “neo-dasarrollismo” (neosviluppismo), chi di “post-neoliberismo”, chi, usando un linguaggio un po' più vicino alla realtà, di “capitalismo andino-amazzonico” (vedi il vicepresidente Linera), dove ciò che conta è il sostantivo (capitalismo), non l'indicazione geografica, che ha appunto un valore accessorio. Noi preferiamo chiamare le misure dei governi Morales per quello che effettivamente sono, vale a dire riformismo, nemmeno tanto radicale, praticato con la collaborazione-assenso dei principali settori della borghesia locale e di segmenti del capitale internazionale. Attenuazione delle enormi disparità sociali, crescita economica in un quadro di stabilità sociale, in cui la borghesia indigena contratti da posizioni più forti il “partenariato” con i capitali esteri: questo, nella sostanza, il programma del presidente “indio”. Programma che, dopo le diffidenze iniziali, anzi, l'opposizione aperta della borghesia, in particolare di quella del dipartimento di Santa Cruz (est del paese, il più ricco), per una serie di circostanze favorevoli finora sta marciando a passo spedito.
Indubbiamente, il clima “bolivariano”, cioè la salita al governo di formazioni politiche “di sinistra” in molti paesi dell'America latina1, si deve anche al relativo allentamento della presa sul subcontinente americano da parte dell'imperialismo statunitense, impegnato a controllare e a domare i mostri da lui stesso evocati, dal Medio Oriente all'Afghanistan. Una mano all'appannamento yankee l'ha data anche il fallimento clamoroso dei “caudillos” locali sostenuti da Washington, a volte costretti addirittura a scappare ignominiosamente per sfuggire alla collera popolare o alla galera, tanto le avevano fatte grosse, col metro dello stesso codice penale borghese. I disastri economico-sociali che si sono lasciati alle spalle tagliando la corda, hanno spinto l'ascesa di una sinistra che, abbandonata da tempo ogni velleità “lottarmatista” (per chi l'aveva, naturalmente), ha cercato pragmaticamente – in senso borghese, va da sé – di sfruttare la situazione internazionale favorevole, sia sotto l'aspetto politico che economico. Da questo punto di vista, l'aumento dei prezzi delle materie prime è un fattore fondamentale, senza il quale gli Evo Morales non avrebbero potuto attuare alcuna redistribuzione verso il basso della ricchezza né conquistarsi il consenso, persino entusiastico, di una borghesia all'inizio quanto meno sospettosa, come s'è detto. Per esempio, nel 2009, all'indomani della seconda rielezione di Morales, in due dipartimenti, (Beni e Santa Cruz) la borghesia del posto minacciava la secessione con la scusa che il presidente non volesse rappresentare tutti i boliviani, ma solo la componente “india” (per altro, maggioritaria), a cui sarebbero state sacrificate le ricchezze “crucegne” e le prospettive di crescita economica. Oggi, a cinque anni di distanza, quella stessa borghesia si spintona, secondo i “maligni”, per sedersi accanto al presidente nelle manifestazioni pubbliche. Cos'è successo: industriali e fazenderos si sono convertiti al MaS? Più semplicemente, le esportazioni di idrocarburi (gas, in primo luogo), soia, litio, carne di manzo (soprattutto verso la Svizzera e l'Europa occidentale), per citare alcune merci, hanno permesso all'economia boliviana di crescere del cinque e passa per cento all'anno, dando al Tesoro la possibilità di accumulare riserve in valuta estera pari al 51% del Pil: in percentuale, la quota più alta a livello mondiale. Questo, solo per l'economia legale, perché se si va a guardare anche il settore illegale (foglie di coca e cocaina), l'export e relativa valuta crescono ancora di più. Ciò ha consentito di progettare e in parte attuare una serie di “grandi opere” - dighe, linee ferroviarie, infrastrutture varie – che hanno fatto tornare il buon umore al capitale boliviano, doppiamente felice per il clima di pace sociale e di modernizzazione che si è instaurato nel Paese. In poche parole, strati sempre più larghi di popolazione si identificherebbero meno con “l'indigenismo” (identità socio-culturale ostile alla borghesia “bianca”) che con la “modernità” ossia con l'appartenenza alla nazione boliviana senza altri aggettivi e con le prospettive di consumo (o consumismo) che questo implicherebbe.
Non ci sono, però, solo le vetrine del consumismo a tenere alto il consenso popolare a Morales. Infatti, mentre i governi dei politici “vecchio stile” destinavano ben poco allo “stato sociale”, mangiando a quattro palmenti a spesa delle casse statali (cosa ben nota dalle nostre parti), tanto che la Bolivia era uno degli stati più poveri dell'America latina, le amministrazioni “socialiste” hanno ridotto la povertà assoluta dal 38% del 2005 al 21% del 2013 (D. Lifodi, www.peacelink. it) e, pare, cancellato l'analfabetismo. Ma proprio per poter mantenere questo “stato sociale”, il presidente ha bisogno della benevolenza sia del capitale boliviano – dunque che l'attuale fase economica continui – sia di quello internazionale, al quale ha steso un tappeto rosso. Fuor di metafora, le dichiarazioni di anti-imperialismo e di anti-colonialismo vanno bene per la propaganda, ma questa non impedisce le aperture e gli incentivi che il governo elargisce ai capitali esteri largamente presenti nello stato sudamericano, non da ultimo nel settore energetico. Infatti, la nazionalizzazione (secondo alcuni, per lo più di facciata) lascia alle compagnie petrolifere straniere sufficienti margini di guadagno da rendere attraente la terra boliviana. Non è un caso se la CNN, il FMI e il New York Times hanno lodato pubblicamente la politica economica di Morales. Già questo dovrebbe far drizzare le orecchie a tanti “anti-imperialisti”, che, fraintendendo radicalmente il concetto di imperialismo, lo identificano pressoché esclusivamente con gli Stati Uniti e la loro politica estera, come se la Cina e l'Iran – amici di Morales, nonché investitori nel suo paese - non fossero altrettanti anelli di quella catena dell'imperialismo mondiale che opprime il proletariato internazionale.
Non basta, benché, in sé, sia un risultato tutt'altro che disprezzabile, aver ridotto la povertà, per potersi chiamare socialisti: non solo un peggioramento nei termini di scambio delle esportazioni boliviane può tagliare le gambe al riformismo, ma, ancor più, come ogni riformista, Morales si propone di addolcire la schiavitù capitalistica, non di spezzarla.
CB1Le elezioni di domenica 26 ottobre diranno se il Brasile confermerà o interromperà la serie dei governi “di sinistra” in America latina.
Battaglia Comunista #11-12
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