Piccolo cabotaggio riformistico

E' più che evidente come il quadro generale dell'economia sia allarmante per la stessa borghesia, al punto che gli “economisti seri” (?) prevedono il peggioramento di una persistente recessione con costi enormi e una “pericolosa degenerazione” del tessuto sociale: la famosa “luce” in fondo al tunnel si è completamente spenta.

Se ne discute fra i medici al capezzale del sofferente capitalismo sia nazionale che globale; molti tornano persino a riscaldare la tisana dell'intervento statale (fino a poco fa respinta con disgusto) e che miracolosamente dovrebbe creare occupazione sostituendosi al mercato che invece la sta riducendo. Non resta dunque che affidarsi a qualche colpo di bacchetta magica, quella che in un secolo di storia si è abbattuta su di noi con spettacolari tracolli nazionali e internazionali e soprattutto lacrime e sangue. Destinatario unico: il proletariato.

I più audaci riformatori avanzano, sull'ultima spiaggia, persino l'idea di una lieve imposta patrimoniale sulla ricchezza, fermo restando - e lo dicono a chiare lettere! - che tale fonte (la ricchezza!) resti pur sempre “consistente e stabile”… Un'opinione, questa, che trova nella Santanchè (parlando anche a nome di Berlusconi) una sostenitrice di elevato livello: altrimenti chi comprerebbe le lucenti rosse Ferrari? Si vuole forse chiudere l'azienda che il mondo ci invidia?

Secondo la Banca d'Italia, in sola moneta e titoli vari, sottratti i debiti, la italica classe borghese possiederebbe circa 2.700 miliardi di euro, di cui almeno il 45% è nelle mani del 10% più ricco del popolo italiano (l'alta borghesia) mentre la metà del medesimo popolo (piccola e media borghesia) ne detiene il 9,8% Dopo di che, provate a parlare di un'imposta patrimoniale anche minima, magari solo dello 0,50% e passerete per un pericoloso “sovversivo”. E se tentate anche solo di spingervi un po' più in avanti, rischiate di soggiornare nelle patrie galere…

I tecnici, nei salotti bene, paventano il “pericolo” che di fronte ad una anche minima imposizione fiscale i capitali (senza i quali i moderni stregoni si ritrovano, proprio loro, senza reddito…) fuggano all'estero; altri “esperti” in materia ritengono invece che una aliquota esigua (sempre molto ridotta) dovrebbe annullare tale eventualità. E poi, dopotutto, si aggiunge: “i capitali che potrebbero fuggire sono già all'estero”…

Quanto riguarda specificatamente la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane (sempre borghesi…), essa è costituita da depositi bancari solo per il 30% (quota assai più bassa per i grandi patrimoni); il resto sarebbero titoli di vario genere, italiani o esteri, a seconda di quelli che rendono di più o sono più sicuri.

Si potrebbe forse tassare - si dice - la proprietà del patrimonio, indipendentemente da come e dove esso risulta investito. A parte, s'intende, i patrimoni intestati a prestanome esteri. Sta di fatto, in conclusione e in nome della equità e della giustizia sociale, che nel nostro Bel Paese - come in ogni società borghese degna di questo nome - il 20% della popolazione detiene il 62% dello stock di ricchezza nazionale. Dati ufficiali; in realtà le cifre sono certamente maggiori. Poi ci sono i patrimoni immobiliari e qui, per lasciare le cose come stanno, si tira in ballo la inattendibilità dei valori catastali, le precedenti eredità famigliari, ecc. Insomma, sembrerebbe più facile e sbrigativo organizzare una rivoluzione sociale che non “dare ai poveri per ricevere da Dio”…!

Alcuni (addirittura in rigorosi abiti “antagonistici”) e a proposito di rilanci industriali per creare posti di lavoro, giungono ad argomentare che meglio sarebbe scartare una ipotesi di investimenti in opere pubbliche (dove è d'obbligo un'alta intensità di capitale motivata da un sicuro business…) per passare invece ai lavori “socialmente utili”, anche se poi diventerebbero sicuramente “inutili” per ragioni clientelari e per mansioni di comodo. Inoltre - altri ancora aggiungono - attenzione a non turbare il mercato del lavoro con una “indebita concorrenza” che avrebbe effetti “distorsivi” sulla ordinaria occupazione (e disoccupazione): le assunzioni dei lavoratori, in questi casi, dovrebbero riguardare soltanto il settore dei cosiddetti beni pubblici, cioè là dove il privato rifugge per mancanza di adeguati profitti! Fra tante preoccupazioni, si apprende intanto che l'Italia sarebbe addirittura carente di occupazione pubblica in confronto, per esempio, a Regno Unito, Francia, Germania, Spagna e, fuori Europa, agli Usa…

Poi arriva qualche altro geniale pensatore avanzando il dubbio che, riducendo troppo la disoccupazione, in fondo in fondo si finisca col rendere meno flessibile il mercato del lavoro. Che ne sarebbe allora della riduzione del costo del lavoro e del ripristino di competitività internazionale? (Nota bene: tra personaggi pubblici o privati, chi racconta queste barzellette risulta sempre lautamente stipendiato.)

Nel complesso, si tratterebbe comunque di misure valide per il periodo di emergenza, dopo di che ci penserà il mercato, cioè proprio la fonte della espulsione di milioni di proletari dalle aziende e dagli uffici; un mercato che - per grazia di Dio e volontà della nazione - dovrebbe tornare “in grado (ma quando mai? - ndr) di garantire un livello soddisfacente di occupazione”. Dunque, alla fine e soprattutto con una minima spesa si raggiungerebbe l'equità del sistema e il benessere delle persone! E nel frattempo, più o meno i medesimi esperti incensano gli aumenti di produttività e della mobilità sociale come fattori determinanti una ripresa della indispensabile “crescita”, senza la quale si rischierebbe il naufragio. E sulle scialuppe di salvataggio i posti sono pochi e già prenotati.

Per giustificare un ruolo critico e alternativo nei confronti dell'attuale indirizzo che il capitale, obbligatoriamente, è costretto a scegliere (e - sia chiaro - non ve ne sono altri per potersi mantenere a galla!) cercando di destreggiarsi fra i sogni ufficialmente perseguiti della liberalizzazione dei mercati e della riforma dello stesso mercato del lavoro (ovvero sempre “sacrifici e sangue” a profusione), in contrapposizione c'è anche chi si ritaglia un posto da “contestatore” e getta sul tavolo studi che dimostrano la scarsa incidenza di certe “protezioni”. Quindi un bel contratto unico per tutti i lavoratori, che sia detto a priori abbasserebbe le già scarse tutele in nome della equità fra tutti i lavoratori. E si alza sempre la bandiera della “produttività” lungo la strada risolutiva delle “produzioni tecnologicamente avanzate ed ecologicamente sostenibili”, tutt'alpiù agevolando l'adattamento delle competenze professionali ai cambiamenti tecnologici e di struttura produttiva. Resta da dimostrare, fra tanta avanzata tecnologia e produttività, come mantenere alti i livelli di occupazione in costante calo…

Per chi si aggira fra quelle “idee” che i più progressisti ritengono molto vicine alle “sensate posizioni keynesiane”, ecco il miraggio di un finanziamento di “investimenti pubblici sensibili: infrastrutture materiali per energie rinnovabili, rafforzamento del trasporto su rotaia” (magari il TAV).

Questo è il modello alternativo di sviluppo, non fondato più soltanto sul consumo e la mercificazione (così si dice), ma votato alla “riconversione ecologica e alla difesa dei beni comuni”, sempre però con un forte “senso del limite”, come tutti ci tengono a precisare…

E mentre si blatera attorno ad astratti obiettivi di giustizia sociale e di sostenibilità, il vero e concreto obiettivo - senza il quale il capitalismo si accartoccia su se stesso come sta in parte accadendo - rimane quello della crescita dei valori monetari prodotti. La crescita produttiva, e consumistica, è infatti condizione di sopravvivenza del sistema capitalistico e, se non si è in grado di concepirne e progettarne un altro, sempre ad essa si torna. L'imposizione della crescita, dello sviluppo, è quindi un sacrosanto obiettivo per tutti (sindacati compresi!): occhi puntati su indici di borsa, crescita del Pil, rating, spread, eccetera.

Il capitalismo ha compiuto uno dei suoi principali obiettivi: la completa mercificazione della vita e dell'ambiente naturale, una mercificazione di cui il Pil e la sua crescita obbligata sono la cartina di tornasole che dovrebbe dimostrare la validità dell'intero sistema. E viste le difficoltà che sono maturate nei processi della produzione e circolazione delle merci, si sono aperti i saloni del casinò finanziario globale dove furoreggia il gioco perverso del denaro che compra denaro e che guadagna denaro. I derivati impazzano e ogni giorno si inventano nuovi “strumenti” finanziari: così la Deutsche Bank ha inventato un nuovo bond con il quale si “scommette”, questo è il termine esatto, sulla durata della vita di cinquecento cittadini americani di età compresa tra 72 e 85 anni. Prima muoiono più guadagnano gli investitori. Pare che sia giudicato un bond non etico, ma era etico scommettere sui mutui dei lavoratori?

I dati OECD indicano che la bassa produttività del lavoro (misurata dalla differenza tra il tasso di crescita del PIL e quello dell'occupazione) in Italia e in Spagna sarebbe una conseguenza dell'abuso di contratti variamente atipici, a bassi salari e alta flessibilità, oltre che della stagnazione degli investimenti che ne consegue.

Per i giovani che vengono assunti, anche regolarmente, il “posto di lavoro” dura poco tempo, dopo di che non solo vengono licenziati ma difficilmente troveranno un'altra occupazione. Questo non solo in Italia, ma in tutti i paesi a capitalismo sviluppato. Ciò che in Italia, più che in altri paesi, si verifica è la scomparsa di moltissimi proletari dal mercato del lavoro cosiddetto regolare. Finiscono in parte nell'economia sommersa e in parte arraggiandosi in qualche modo, “illegale”…. (Da notare che i lavoratori in Cassa integrazione restano sul libro-paga del datore di lavoro, e quindi nelle statistiche sulla disoccupazione vengono conteggiati come occupati).

Vi è oggi quasi un milione di uomini “gettati fuori” dal mercato del lavoro dopo un primo periodo di occupazione perfettamente regolare: la durata media di questa, certamente involontaria, inattività è di circa 6-7 anni. Il che implica che ben oltre centomila lo siano da più di 15 anni, quasi una vita. A questi si aggiunge oltre un milione di giovani (uomini) in età 15-29 che si dichiarano inattivi, ma che, di fatto, sono ancora in attesa di una prima occupazione dopo 2-5 anni dalla fine degli studi. L'Istat rileva inoltre che la caduta occupazionale nel biennio 2009-10 è stata di oltre mezzo milione di posti-lavoro, e per il 90% riguarda giovani in età 18-29.

Signori, qui non siano neppure più al caffè: ora si tratta di pagare il conto…

DC
Venerdì, July 19, 2013