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Home ›La Russia dell'eterno Putin
La recente affermazione alle elezioni presidenziali di Vladimir Putin, con ben il 63,75% dei voti, è stata accompagnata, come ampiamente noto, da denunce di brogli e manifestazioni di protesta da parte delle variegate opposizioni.
Lo scostamento fra risultati ufficiali e reali sarebbe del 14 % secondo i promotori della protesta, e quindi Putin, soprannominato ironicamente (ma forse neanche troppo) “l’eterno”, non sarebbe riuscito ad evitare il ballottaggio, attestandosi “solamente” al 49%.
Probabilmente una crescente parte della popolazione, in particolare la piccola/media borghesia urbana, appare sempre più insofferente nei confronti di un esercizio del potere autoritario o quanto meno poco trasparente, con epurazioni arbitrarie di candidati scomodi, abusi di funzionari e governati locali vicini al presidente e pervasivo controllo dell’informazione.
Anche l’avvicendamento alle massime cariche dello stato fra Putin e Medvedev è stato avvertito, seppure da una parte ancora minoritaria dell’opinione pubblica, come un atto formale di una democrazia sempre più svuotata di contenuto. Putin infatti – non potendosi immediatamente ricandidare (in base alla legge russa) dopo due mandati presidenziali consecutivi – ha occupato dal 2007 il posto di primo ministro, lasciando nella mani di un suo fedelissimo, il giovane Dmitri Medvedev (“cresciuto” nel gigante energetico Gazprom) il posto da Presidente.
Tuttavia, anche in questo contesto, le forze dell'opposizione cosiddetta “democratica” hanno mostrato grande debolezza, frustrando tra l'altro le aspirazioni di quei candidati che svolgono il ruolo di testa di ponte degli interessi di Washinghton in Russia, secondo il trito schema delle “rivoluzioni colorate”. Il successo di Putin alle elezioni parlamentari del 4 dicembre 2011 (sempre gravato da evidenti brogli) ha legittimato la nuova candidatura al Cremlino, ufficializzando di fatto (dopo un abortito tentativo di strappo da parte Medvedev) lo scambio di ruoli.
È comunque forse più la situazione economica, rispetto ai problemi dell’incompiuta democrazia borghese russa, a mettere in agitazione quel ceto medio in parte cresciuto nella stessa Russia di Putin. La crisi del 2009, con una contrazione del PIL del 7,8%, ha infatti messo in evidenza la fragilità dello sviluppo dell’economia Russa, che si era espressa nel decennio precedente (fra il 1999 ed il 2008) con tassi medi di crescita fra il 6 ed il 7%.
La stretta dipendenza dall’esportazione delle materie prime (in particolare da quelle energetiche) è infatti alla base sia del tumultuoso sviluppo (determinato dal favorevole andamento dei prezzi) che della repentina crisi (determinata della contrazione della domanda).
La Russia è infatti ricca di materie prime (è lo stato con le maggiori riserve di gas naturale, il secondo per riserve di carbone e l’ottavo per quanto riguarda il petrolio) e circa l’80% delle esportazioni è rappresentato da petrolio, gas naturale, metalli e legname.
Diversi economisti sostengono che il governo non sia riuscito a diversificare adeguatamente l’economia e che le misure sociali perseguite siano state in grande parte costituite dalla ridistribuzione dei proventi determinati dall’esportazione delle materie prime.
In questi anni anzi la tendenza sembra essersi accentuata, visto che le esportazioni di gas e petrolio che rappresentavano un quarto del bilancio dello Stato federale russo nel 2000, oggi rappresentano circa la metà del bilancio.
D’altra parte i gruppi industriali russi appaiono ancora in grande parte inadeguati a sostenere la concorrenza internazionale ed il grosso dei beni di consumo e della tecnologia è importata dall’estero.
Tenendo in considerazione che i mercati delle materie prime sono relativamente più sensibili alle fluttuazioni di quanto non lo siano i mercati industriali, si comprende come l’economia Russa sia drammaticamente dipendente dai mercati esteri.
Dovrebbero inoltre essere considerate le trasformazioni in corso nel mercato energetico, indotte anche dai continui sviluppi tecnologici; se da un lato le compagnie petrolifere russe sono costrette a cercare nuove fonti nelle remote regioni del nord e della Siberia orientale, dove i costi iniziali sono molto più alti, dall’altro la corsa dei prezzi sta facendo emergere nuovi concorrenti, soprattutto nel continente americano (i cosiddetti unconventional oil; argomento, comunque, decisamente ampio e meritevole di ben altro spazio anche per essere solo accennato).
Il clima degli investimenti si è inoltre progressivamente deteriorato sia negli anni di presidenza che in quelli di premiership di Vladimir Putin (una relazione preliminare della Banca Centrale Russa, per dare una stima del fenomeno, ha indicato che ben 84,2 miliardi di dollari hanno lasciato il paese nel 2011).
La diffusa corruzione ed inefficienza statale, il vasto ruolo ancora occupato dello stato nella direzione dei gruppi industriali e finanziari, sono fra gli aspetti che maggiormente scoraggiano gli investimenti esteri diretti.
Mentre in generale, nelle economie in via di sviluppo, gli investimenti rappresentano il 25-30 % del PIL, in Russia solo il 21-22% del PIL.
Considerando quindi l’importanza che gli investimenti esteri ed il “know how” rivestono nell’innovazione tecnologica ed i ritardi accumulati, difficilmente le industrie russe potranno recuperare un ruolo importante nell’economia globale nel breve/medio periodo.
Un ulteriore problema è rappresentato dall’obsolescenza delle infrastrutture di base, ossia dalle strade, dai ponti, dalle vie fluviali, dalle scuole, dagli ospedali e dai gasdotti, per lo più costruiti nel periodo sovietico.
La costruzione e l’adeguata manutenzione delle infrastrutture pubbliche è infatti drasticamente diminuita nel periodo successivo.
Il declino demografico è un eloquente conseguenza delle drammatiche crisi vissute dal paese ed influenza ancora significativamente le dinamiche di sviluppo.
Secondo un rapporto dell’UNICEF e del Servizio Statale di Statistica, la popolazione infantile in Russia è crollata dai 38 milioni di bambini nel 1995 ai 26,5 milioni di bambini nel 2008. La popolazione generale si è ridotta di 6 milioni dal crollo dell’URSS nel 1991, per via delle difficoltà economiche, dell’alcolismo e del progressivo deterioramento delle condizioni sociali.
Si stima che il tasso di natalità non potrà significativamente aumentare nei prossimi due decenni, come conseguenza della riduzione del numero di donne in età fertile.
In questo senso l’invecchiamento della popolazione, con conseguente incremento della spesa pensionistica, incomincia a preoccupare più di un analista (si stima che entro il 2030 ci saranno 9 milioni di pensionati in più e 11 milioni di lavoratori in meno).
La classe proletaria Russa, sebbene non viva attualmente nelle drammatiche condizioni degli anni 1990, è stata solo marginalmente toccata dallo sviluppo economico e basta considerare quanto il PIL pro-capite del cittadino russo, pari a 13.650 dollari, sia ancora inferiore a quello del cittadino greco, pari a 17.710 dollari (che ha vissuto oltre cinque anni di pesante recessione economica) per rendersi conto di quanto le difficoltà siano attualmente presenti e diffuse nel paese.
Nel 2010 e 2011, grazie anche alla crisi libica ed all’instabilità dei paesi del mediterraneo, che hanno spinto in alto il prezzo del petrolio, la Russia ha ripreso a crescere, sebbene della metà rispetto agli anni precedenti.
La crescita appare comunque decisamente inferiore agli altri paesi del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina: le cosiddette locomotive dello sviluppo capitalistico mondiale) ed insufficiente per incidere significativamente sulle sacche di povertà presenti nel paese.
Le riforme annunciate da Putin, nella speranza di richiamare investimenti e capitali stranieri, possono essere viste come un tentativo di modernizzare il capitalismo russo che finirebbe altrimenti per svolgere un ruolo sempre più marginale nello scacchiere inter-imperialistico.
GSBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #04
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