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Home ›Considerazioni dopo lo sciopero generale - Quando inizieremo a lottare davvero?
È opportuno andare oltre la denuncia dei limiti della convocazione dello sciopero generale, per sviluppare alcune considerazioni su stato e prospettive della conflittualità di classe oggi.
Lo sciopero avrebbe, infatti, dovuto essere una tappa fondamentale - secondo i suoi sostenitori - per il rilancio delle lotte. La constatazione del “dopo” è differente: il silenzio proletario sembra essere calato, più assordante che mai.
Dall’interno dello sciopero non abbiamo registrato contestazioni significative alla politica sindacale. Uniche eccezioni degne di nota, a quanto sappiamo, sono quelle dell’assemblea proletaria di Bologna e quella di Bari. Iniziative condotte da gruppi di lavoratori combattivi che, sebbene abbiano trovato un certo consenso tra gli altri lavoratori - anche sindacalizzati - , difficilmente riescono a smuovere la classe dalla sua passività.
Abbiamo avuto l’ennesima prova di questa passività quando militanti anarchici impegnati nelle lotte contro i CIE sono stati arrestati e nessun attestato di solidarietà è giunto loro dagli immigrati ai quali per anni si sono rivolti, ne abbiamo prova quando militanti in prima linea nei luoghi di lavoro subiscono azioni repressive e i lavoratori, che pure sono in contatto con loro, rimangono indifferenti.
È l’individualismo: finché licenziano il mio collega tutto bene... l’importante è che non tocchino me. È il sonno della coscienza di classe. Ma sotto le ceneri la brace arde, la crisi soffia su di essa.
La tempistica con la quale è stato convocato lo sciopero è un evidente dimostrazione di come la politica sindacale sia essenzialmente volta a favorire questo sonno (anche col contributo del sindacalismo di base, che non perde mai l’occasione per sminuzzare gli scioperi). Lo sciopero è stato indetto con modalità tali da renderlo innocuo, demoralizzante. È stato inoltre indetto giusto nove giorni prima delle elezioni amministrative, caratterizzandosi, quindi, come “sciopero elettorale”. Tutta l’attenzione è stata così spostata dal “che fare dopo lo sciopero” al “come votare alle elezioni”, “...ai ballottaggi”, “...ai referendum” e poi ...tutti al mare.
Scioperi organizzati col chiaro intento di fare meno male possibile al padrone alimentano lo scoramento ed il mito dell’inutilità della lotta di classe, per favorire l’idea che solo la lotta della scheda elettorale può cambiare le cose. È così che il fascino perverso della democrazia borghese viene sostituito alla necessità di combattere la crisi con lotte vere.
È risaputo: per l’ideologia borghese, dal punto di vista della cittadinanza, non è il sistema capitalista ad essere in crisi, ma è la mala gestione del potere a generare i guai. Battere “il camorrista” Lettieri o la berlusconiana Moratti diventa la priorità. Come se le città non fossero comunque gestite dal potere borghese, al suo interno intimamente coeso nella difesa di interessi gestiti - in piena continuità - ora in maniera legale, ora in maniera criminale, comunque e sempre alla ricerca di maggiori profitti, di più sfruttamento. La teoria del meno peggio ritorna puntuale, la necessità di una strategia volta al rilancio della lotta di classe si eclissa.
Da questo punto di vista il referendum è surreale: ammesso che si vada a votare - la cosa, in questi termini, non ci appassiona più di tanto - , cosa si spera di ottenere con la crocetta se non c’è la capacità di lottare sul territorio? Se non si raggiunge il quorum, avranno vinto loro? Se vince il “sì” il capitale rinuncerà ai suoi piani? In entrambi i casi non si è capito nulla di come stanno le cose! Sono le enormi difficoltà che il capitale incontra nell’ambito della produzione di profitto a spingerlo verso pratiche parassitarie e predatorie sempre più estreme, come la privatizzazione dell’acqua o i piani per le grandi opere e le congrue mazzette (dal nucleare al ponte sullo stretto).
Dalle privatizzazioni alle devastazioni ambientali, ai licenziamenti operai, ai giovani disoccupati o lavoratori-poveri, al carovita fino alla guerra, agli esodi di massa ed alle politiche repressive, il denominatore comune è sempre e solo il capitale e la sua crisi: l’unico modo per arginarlo è la lotta di classe nei territori e nei luoghi di lavoro, la lotta contro il capitale stesso, la lotta che punta a far male ai profitti. Chi nega questo lavora per i padroni.
Non siamo noi avanguardie che possiamo “creare la lotta di classe”, sarà l’evolvere della crisi a obbligarvi i proletari, e lo farà!
Quello che, però, possiamo fare noi è il faticoso e, spesso, poco gratificante lavoro di preparazione: dare vita e forza a strumenti politici ed organizzativi affinché - quando lotta sarà - questa non si ritrovi attorno il deserto politico e il veleno ideologico sindacal-democratico-borghese, ma, piuttosto, il fertile germoglio del punto di vista proletario, della prospettiva e del programma comunista. Per questo il nostro lavoro, per quanto duro, non è vano: la crisi accelera, le cose stanno cambiando, rapidamente... anche se le sparute avanguardie rivoluzionarie sapranno darvi il loro contributo.
DiegoBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #06
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