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Immagine - Rompere il muro!
Il significato delle lotte nella crisi
Il punto centrale è questo: il sistema capitalista è in crisi e la crisi evolverà di male in peggio, per i lavoratori, indipendentemente dalla volontà di questi. I margini di mediazione, se ancora esistenti, sono ridotti all’osso.
La crisi si trascina dai primi anni 1970 ed è proprio dalle politiche poste in essere per contrastare la crisi che il Terzo Settore è nato. L’obiettivo che i potere borghese (1) si è posto con la nascita del Terzo Settore è stato quello della esternalizzazione di tutta una serie di servizi che, gestiti direttamente, portavano ad una spesa insostenibile per il bilancio economico dello Stato. Insostenibile non da un punto di vista universale, che non esiste, ma dal punto di vista della contabilità del sistema capitalista, sistema che può sopravvivere a sé stesso solo generando sempre crescenti profitti. Ecco perché, per quanto assurdo, è più “conveniente” investire su un improbabile ponte sullo Stretto (tutti profitti facili regalati al capitale mafioso) che nel socio-assistenziale (capitali assorbiti da servizi che danno luogo a profitti economici scarsi o nulli, anzi, che danno luogo a... no-profit).
L’esternalizzazione dei servizi ha permesso, nell’immediato, di ridurre di molto i costi dell’assistenza sociale e sanitaria attraverso una gestione flessibile e sempre più precaria della forza lavoro, grazie agli enti del privato sociale (cooperative, fondazioni, associazioni...), attraverso la possibilità di licenziare indiscriminatamente i lavoratori in esubero (sussiste infatti Giusta Causa laddove i fondi di cui usufruisce la cooperativa non sono più sufficienti a mantenere l’intero organico dei lavoratori), attraverso la valorizzazione e l’impiego di una vasta schiera di volontari che sostituissero i lavoratori retribuiti (abbiamo visto i volontari in Italia essere più di tre milioni) e attraverso il reperimento di fondi alternativi a quelli stanziati dallo Stato (principio di sussidiarietà orizzontale).
Per quanto il privato sociale, nella sua trentennale esistenza, abbia dato vita ad esperienze e buone pratiche assolutamente significative ed efficaci e per quanto queste esperienze forniranno dei termini di riferimento per l’organizzazione dei servizi alla persona nella futura società socialista, non dobbiamo scordarci che il Terzo Settore nasce come una risposta del capitale all’insorgere della sua crisi nei primi anni 1970, così come, oggi, il Terzo Settore si configura come vittima sacrificale per la sete di profitto resa più ardente dall’erompere della nuova fase della crisi nel 2007.
La crisi esiste e i lavoratori che ne sono colpiti si illudono se pensano di poter tornare indietro di dieci, venti o trenta anni, a quando “le cose andavano meglio”. Quei tempi sono passati, è bene prenderne coscienza il prima possibile, onde non ritrovarsi impreparati al prossimo aggravarsi della situazione.
In ogni piattaforma, comunicato, intervento, presa di posizione, si dovrebbe partire dall’assunzione di questo dato di realtà: il sistema sta fallendo e la crisi - che non è fatto teorico ma concreto - non è altro che il palesarsi del suo fallimento. Il fallimento del sistema sta trascinando nel baratro le politiche sociali, e i lavoratori con esse.
Verso le nuove forme di lotta del proletariato
Per i lavoratori del sociale e per i loro utenti, da oggi, l’unica realtà possibile è la lotta e questa deve essere condotta nel modo più chiaro possibile: il primo nemico di ogni lotta è, infatti, il disorientamento.
La lotta dei lavoratori del Terzo Settore potrà svilupparsi positivamente innanzi tutto se saprà trovare nei motivi dell’opposizione ai tagli e alle politiche della crisi, il mezzo attraverso il quale generalizzare il conflitto.
L’allargamento del fronte di lotta agli altri settori di classe sfruttata, a partire dai più prossimi, è il primo passo. Per fare questo occorre che i lavoratori prendano in mano, in prima persona, attraverso le loro assemblee decisionali, la mobilitazione. Il meccanismo della delega è infatti in agguato come dispositivo volto a sedare, controllare, dividere, i lavoratori, in una parola a sostituire al conflitto reale la sua rappresentazione.
Non vi è altro luogo decisionale che non siano le assemblee di lotta. I sindacalisti, i dirigenti e i mediatori si attribuiscono oggi, per tutelare il loro ruolo sociale, il compito di contrattare le condizioni dei lavoratori, ma i lavoratori non hanno nulla da contrattare, visto che la dignità del lavoratore (salario, condizioni di lavoro e quindi di vita, etc.) non si contratta, e se proprio qualcuno dovrà mediare questi saranno i delegati scelti dalle loro assemblee di lotta e che alle loro assemblee di lotta rimetteranno il loro mandato.
Il primo conflitto che i lavoratori vivono, infatti, è all’interno dell’ente nel quale lavorano ed è quello tra i dirigenti (spesso avvezzi a ricatti morali o materiali, a intimidazioni e violazioni contrattuali e retributive) i quali, forse, hanno interesse a mobilitarsi, ma, in ogni caso, lo fanno unicamente per mantenere in piedi le loro strutture, per conservare i loro privilegi, il loro prestigio, il loro potere, mentre i lavoratori hanno un solo interesse, quello di vivere dignitosamente.
I lavoratori, quindi, dovrebbero arrivare ad impedire anche la sola presenza dei dirigenti, così come dei rappresentanti sindacali e dei partiti parlamentari, nelle loro assemblee di lotta in quanto sono tutti ruoli interni al sistema, funzionali alla sua amministrazione. Allo stesso modo, i lavoratori, dovrebbero stare attenti ai rappresentanti dei vari coordinamenti, gruppi, collettivi ecc., laddove questi ponessero l’interesse della propria sigla di appartenenza al di sopra dell’interesse dei lavoratori: il soggetto politico che deve dare vita alla lotta, se questa vuole avere una prospettiva, non deve né può essere questo o quel gruppo ma, solo ed unicamente, i lavoratori.
Insomma, è certamente utile e necessario dare vita a comitati di agitazione - aldilà delle denominazioni che possono assumere - ma questi non devono avere la pretesa poi di rappresentare essi stessi il movimento di lotta. I comitati di agitazione sono utili per svolgere un lavoro di stimolo tra gli altri lavoratori, per rompere la cappa di isolamento e rassegnazione, ma devono essere gli organismi assembleari a condurre la lotta. E’ dalle assemblee di lotta dei lavoratori che devono venire fuori le modalità di lotta e gli obiettivi immediati da portare avanti.
Per questo è centrale che le forme di protesta non si connotino come espressioni fini a se stesse, proprie di un singolo settore o categoria, ma cerchino piuttosto l’apertura e la partecipazione dei proletari in genere, al fine di avviare un circolo virtuoso di estensione e organizzazione comune della forza proletaria. I lavoratori del sociale incarnano molteplici motivazioni per le quali la lotta debba estendersi: non solo la lotta contro i tagli e la crisi è lotta che accomuna nel medesimo interesse materiale tutti i proletari, non solo la necessità di superare il sistema capitalista è l’unica prospettiva praticabile tanto per i lavoratori del sociale quanto per gli altri proletari, ma, anche, il taglio delle politiche sociali si configura come taglio del salario indiretto, ossia taglio al salario di tutti i lavoratori.
La lotta deve essere condotta chiaramente ed esplicitamente contro i tagli che colpiscono i proletari e, a seconda delle situazioni specifiche, per il miglioramento delle loro condizioni particolari. Non ha senso, in quest’ottica, proporre punti di rivendicazione (tipicamente sindacali) che si vorrebbero unificanti come
il riconoscimento della parità di trattamento economico e normativo degli enti committenti gli appalti, l’abolizione della Legge 30/2003, l’allargamento a tutti lavoratori del sociale del CCNL aumentando i compensi orari nei bandi, l’aumento salariale proporzionato all’aumento del costo della vita negli ultimi dieci anni, la modifica del decreto Mancino e l’abolizione del cronologico con attribuzione di priorità alla spesa sociale (2).
Questo, non perché simili rivendicazioni non possano essere giuste in astratto, ma perché, nel concreto, in tal modo si pongono le questioni entrando nei meccanismi di gestione del capitale, per volgerli a vantaggio dei lavoratori: sono i meccanismi del capitale ed entrarvi significa proporsi come co-gestori della crisi, mettersi all’interno di ingranaggi dai quali i lavoratori uscirebbero inevitabilmente stritolati.
No, il terreno sul quale le rivendicazioni immediate devono essere poste è quello dell’individuazione degli opposti ed incompatibili interessi in campo, della difesa degli interessi specifici di lavoratori e utenti, come per esempio la difesa del posto di lavoro, la continuità del servizio/progetto, un livello salariale e normativo dignitoso... Porre rivendicazioni immediate e concrete, senza preoccuparsi di proporre il modo nel quale l’istituzione potrebbe esaudirle è, quindi, il mezzo attraverso cui i lavoratori possono organizzarsi, estendere il fronte di classe, sviluppare lotte vere, evitando al contempo scivolamenti in territori a loro estranei, nei quali resterebbero inevitabilmente invischiati. Sarà poi la controparte istituzionale/borghese ad essere costretta, nel tentativo di anestetizzare il movimento, a fare delle offerte laddove la lotta si fosse radicalizzata, diventando un vero problema per l’ordine pubblico o per il pacifico sviluppo del normale ciclo di produzione del profitto.
Sul piano particolare gli interessi immediati, sul piano generale l’abolizione del sistema capitalista che ha generato tutto questo, per arrivare ad affermare la soluzione proletaria alla crisi del Sistema e del Welfare: la nascita di una società nella quale il profitto non abbia più senso di esistere e l’unico metro di valutazione siano i bisogni umani e le risorse necessari a soddisfarli.
Conclusione
I comunisti internazionalisti sono impegnati nell’organizzare gruppi di lavoratori internazionalisti, nel Terzo Settore come altrove, al fine di creare, anche se in mezzo ad enormi difficoltà, una rete di nuclei capaci di intervenire nelle lotte.
Gli obiettivi dei lavoratori internazionalisti sono:
- affermare la contrapposizione e l’inconciliabilità degli interessi di classe tra borghesia (dirigenti, burocrati, amministratori, capitalisti, padroni, politicanti...) da un lato e proletariato (lavoratori “stabili” e precari, occupati e non, di entrambi i sessi e di ogni nazionalità) dall’altro;
- affermare la sovranità delle assemblee dei lavoratori per ciò che concerne obiettivi immediati e modalità di lotta, nonché la necessità di estendere e collegare quanto più è possibile queste esperienze;
- stimolare la nascita ed la generalizzazione di lotte vere, che mirino ad arrecare danno ai padroni e ad estendere la forza organizzata della classe, che non si disperdano seguendo piattaforme mirate a ricondurre le conflittualità nell’alveo istituzionale, dove viene inevitabilmente soffocata;
- la puntuale denuncia del ruolo collaborazionista dei sindacati e dei loro tatticismi - dannosi o, comunque, non utili ai fini di una vera difesa delle nostre condizioni di vita e di lavoro - come la denuncia della politica di tutti quegli organismi riformisti e radical-riformisti che neghino il carattere reale della crisi, la necessità di superare il sistema capitalista;
- il costante collegamento tra le rivendicazioni immediate ed il programma del superamento della società di classe.
Se i comunisti avranno la capacità di rafforzare tale tipo di coscienza tra i lavoratori, fino al punto in cui la classe stessa la riconoscerà come propria coscienza di classe, allora, i figli dei lavoratori di oggi potranno realmente avere la possibilità di vivere una condizione socialmente migliore di quella misera che stanno oggi vivendo i loro genitori.
(1) Intendiamo per potere borghese l’organizzazione della borghesia in classe dominante. Fino a che i proletari non la scalzeranno, distruggendone lo Stato e sostituendolo con gli organismi assembleari di organizzazione proletaria (Consigli), il potere borghese è l’unico esistente. Non è data la possibilità della formazione e crescita di poteri alternativi dall’interno della società o di suoi settori, se non nel momento in cui il proletariato dimostri una tale forza da essere ormai maturo per la conquista rivoluzionaria del potere politico. È da combattere ogni visione che veda nel progressivo crescere di un fantastico potere alternativo, o contropotere, all’interno della società, un fattore di trasformazione sociale, un elemento attraverso il quale la “società nuova” possa progressivamente affermarsi nel seno di “quella vecchia”. Al contrario si afferma che la società è dilaniata da inconciliabili e contrapposti interessi di classe e che compito del proletariato è maturare un significativo livello di organizzazione e coscienza, da volgere all’obiettivo dell’abbattimento del potere borghese. Non quello della crescita di ipotetici poteri alternativi all’ombra di quelli dominanti.
(2) Punti presi da una proposta di piattaforma degli operatori sociali campani.
Crisi delle politiche sociali e lotta di classe
Un contributo dei comunisti internazionalisti alle lotte dei lavoratori del sociale
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