L'eccezione indiana

Le molte letture di una realtà complessa

Il processo di globalizzazione che ha segnato sempre più questi ultimi decenni sembra possa subire dei rivolgimenti tanto che ciò che sem­brava consolidato, un dato definitivo, potrebbe mostrare di qui a qualche tempo crepe originate dall'impennarsi del prezzo del petrolio che, tra i suoi effetti, ha anche quello di trasferirsi sul costo dell'energia da trasporto.

La struttura dei bassi costi di trasporto ha contri­buito infatti, nell'attribuzione del prezzo delle merci e dei servizi, ala sempre maggiore sem­plificazione delle comunicazioni e dei trasporti e quindi permesso di "allungare la filiera", decentrare, delocalizzare le fasi della produ­zione nei paesi di nuovo capitalismo come, ad esempio, la Cina, l'India e il sud-est asiatico, lo stesso est europeo. È diventato quindi possibile scollegare e realizzare in luoghi diversi le varie fasi del processo manifatturiero.

I vantaggi per i paesi industrializzati erano evidenti: tra l'altro si realizzavano rilevanti eco­nomie sul costo del lavoro, venivano smantellate lavorazioni ritenute eccessivamente inquinanti, si esercitava una certa pressione sulla classe lavoratrice che diventava sempre più ricattabile sotto la minaccia della perdita del lavoro.

Tutto questo, però, ha potuto funzionare fintanto che, all'interno della "struttura dei costi", l'incidenza del costo del trasporto è rimasta in termini contenuti, cosa che, peraltro, ha funzionato fino a quando il prezzo del barile di petrolio si è mantenuto sui 15/20 dollari.

Il discorso sembrerebbe modificarsi, e di molto, con un prezzo al barile che oramai veleggia verso i 140 dollari (dati Nymex), con evidenti ricadute sulle perdite.

Già adesso diversi soggetti economici stanno rivedendo le proprie strategie: la General Motors chiude stabilimenti in cui si producono fuoristrada e camioncini, compagnie aeree che devono ridimensionare i loro volumi di traffico quando non siano costrette del tutto a chiudere i battenti e, paradossale, un ex gigante dell'acciaio, la US Steelers, che intende riprendere la produzione dell'acciaio in stabilimenti situati negli States in quanto

costerebbe meno che produrlo altrove anche perché i salari occidentali sono di fatto fermi da 20 anni e nei paesi emergenti í lavora­tori supersfruttati hanno preso a portare avanti lotte rivendicative. (1)

Con una organizzazione e divisione internazio­nale del lavoro che comincia a mostrare punti deboli in termini di sostenibilità di costi e quindi di agibilità economica si assisterebbe, per pri­mo, ad ulteriori attacchi nei confronti della clas­se lavoratrice internazionale in termini di intensificazione dei ritmi lavorativi, di orari fattivi di lavoro, di infortuni, di salari sempre più bassi.

Ma l'ipotesi appena tratteggiata inciderebbe assai negativamente su realtà produttive cosid­dette periferiche con economie votate esclusiva­mente all'esportazione quali Taiwan, Corea, Vietnam ma anche su potenze emergenti come la Cina e l'India.

L'industria

L'India della dominazione inglese, della rivolta dei Sepoys, l'India attuale che riesce a inanellare tassi annui di crescita del PIL paragonabili solo a quelli cinesi e soprattutto paese in cui coesisto­no, in un'economia differenziata, attività agri­cole, industriali e di servizi.

L'India del tessuto produttivo basato su una miriade di piccole imprese non registrate ai fini fiscali e dove il 95% del lavoro è informale, dove il controllo dello Stato è inesistente sia per quan­to riguarda la qualità del prodotto e l'impatto ambientale sia per le condizioni di lavoro che, secondo l'ILO (International Labour Organization) raffigurano degli autentici gironi infernali ed in cui la stessa presenza dei sindacati assume aspetti episodici in quanto costituirebbero una sorta di lusso riservato ai soli dipendenti pubbli­ci.

L'India che in questo processo di industrializza­zione sostenuta che ha preso avvio nel 1991 con l'apertura totale ai dettami della liberalizzazione ha ricalcato in certo modo le tappe di avvio del miracolo cinese, ossia la creazione di zone economiche speciali (zone franche) in cui attrar­re gli investimenti stranieri che nella specifica realtà indiana hanno potuto contare, oltre che sulle solite esenzioni fiscali e agevolazioni d'ogni genere, sulla possibilità di costituire joint-ventures o di rilevare quote azionarie o l'intera proprietà di aziende, ma soprattutto sulla disponibilità di forza-lavoro, qualificata, a basso costo.

La delocalizzazione ha interessato sia multina­zionali come pure piccole e medie aziende che hanno trasferito tutte o parte delle loro attività produttive in India e, specificatamente, in settori come quello calzaturiero, tessile, automobilisti­co e dei giocattoli in quanto produzioni basate, per lo più, su operazioni ripetitive che richiedo­no poca tecnologia e quindi ad alta intensità di manodopera.

L'attrattiva dello sviluppo industriale gioca un suo ruolo in quanto è ciò che può servire a colmare la distanza con l'industria manifatturie­ra cinese vista come principale concorrente in quella che un pò è l'infinita guerra tino-indiana. L'organizzazione delle zone economiche spe­ciali ricalca il modello dei distretti con la parti­colarità che, accanto ad un distretto tecnologica­mente assai avanzato come quello di Bangalore, troviamo il distretto della biancheria di Tiruppur o quello calzaturiero di Agra, integrati nel mercato interno e globale, nei quali, invece, la produzione si basa esclusivamente su tecnologie primitive e tanta estorsione di plus-valore. No­nostante ciò mentre in Cina nel 2005 gli investi­menti esteri diretti (IDE) ammontavano a 73 miliardi di dollari, in India tale indice. si attesta­va sui 7 miliardi.

È innegabile come la delocalizzazione (outsourcing) abbia interessato in un primo tem­po il settore della produzione industriale per poi progressivamente estendersi a quello dei servizi. Le multinazionali americane sono state le prime ad intuire quale grossa convenienza ci fosse a delocalizzare in India alcune fasi del ciclo produttivo ad elevato contenuto tecnologico uti­lizzando al meglio l'alto tasso di scolarizzazione delle nuove leve lavorative indiane. Via via questa opportunità veniva utilizzata da società come anche da pubbliche amministrazioni che trovavano convenienza a decentrare alcune loro funzioni ad aziende esterne, funzioni che attene­vano in genere alla "programmazione di sistemi e alla gestione di archivi informatici, i call centers, le attività di marketing e i contatti con i clienti dei mercati Internet, la grafica e la stampa digitali e altri ancora", ossia tutti quei servizi che si basano sulle tecnologie dell'infor­mazione. (2)

A ragione di tutto ciò, sempre secondo l'indice IDE, estrapolando gli investimenti specifici nel settore dell'informatica, in India arriva il 40% degli investimenti esteri mentre in Cina solo l'11%.

Eccellenza informatica

Ma perché è proprio l'India a primeggiare in queste tecnologie d'avanguardia? Cos'è che la rende particolare in questo campo?

Partiamo da un dato: il primo computer digitale viene introdotto in India, presso l'Istituto indiano di Ricerca statistica, nel 1956. Da rilevare però come già negli anni 1960 operavano in India due multinazionali come l'IBM e la britannica IC e quindi erano già presenti i presupposti per il successivo boom del settore. Ma al notevole sviluppo dell'industria informatica indiana mo­derna contribuisce il governo quando decide di investire massicciamente nella ricerca e nello sviluppo in settori strategici come la difesa, il nucleare e lo spaziale e di finanziare progetti nel settore pubblico, in particolar modo durante tutto il periodo della cosiddetta "economia dirigistica". Per far fronte, infatti, alle restrizioni entrate in vigore all'indomani del suo primo test nucleare il governo indiano è costretto, nello sviluppo del settore strategico dell'elettronica, ad avvalersi di aziende indiane con personale indiano e viene, a tal proposito, creata la Electronics Corporation of India, sulla base di tecnologia clonata dalla IBM e, considerate

le persistenti difficoltà nel procurarsi i computer e gli alti costi dell'hardware alcune intraprendenti società ed esperti di computer sono spinti a improvvisarsi agenzie informatiche per fornire servizi alle aziende private.

Verso la fine degli anni 1970 unità di elaborazione dati e gruppi software di aziende che producevano hardware vendevano già i programmi che erano stati creati in loco e allettati dai profitti che si poteva­no ricavare dalla vendita di questi prodotti davano avvio alla industria indiana di software per l'esportazione. Oltre a ciò nel 1977 il gover­no indiano, guidato dal Partito Nazionalista Popolare, giunse alla decisione che si poteva fare a meno della presenza delle multinazionali che operavano in India e quindi venne dato il benservito a giganti come l'IBM, I'ICL (tra le altre la stessa Coca Cola). Ma nel 1991 dopo I'implosione dell'URSS verso cui l'India dell'al­lora primo ministro Nehru, nonostante fosse un assertore della politica di "relazioni cordiali" con entrambi i blocchi imperialistici, mostrava un certo interesse, non foss'altro che per bilan­ciare la vendita di armamenti USA al Pakistan, il governo indiane stringe legami più stretti con gli Stati Uniti per poter controbilanciare l'infl­uenza della Cina e del Giappone nella regio­ne. Si affida, conseguentemente, ai buoni uffici del Fondo monetario internazionale e agevola l'apertura commerciale. Ciò porta a un aumento considerevole dell'investimento diretto america­no che, nel breve volgere di due anni, dal 1991 al 1993, passa da 128 milioni di dollari a 544 milioni. È in questa particolare congiuntura e nell'ambito del programma di liberalizzazione dell'economia che il governo decide di far na­scere nelle principali città indiane i cosiddetti "software technology parks" (parchi di tecnolo­gia software) che garantivano alle imprese del settore infrastrutture di alto livello, telecomunica­zioni satellitari nonché la possibilità di importa­re prodotti hardware e software esenti da dazi all'importazione. Si tratta, a ben vedere, di centri costituiti sul modello della Silicon Valley nei quali troviamo operative sia aziende india­ne che filiali o joint-venture di gruppi transnazionali come la IBM o la General Electric, la Hewlett Packard. In uno di questi STP, la Electronics City di Bangalore, la Wipro Technologies, società indiana di servizi tecnolo­gici, ha tra i suoi clienti 300 dei maggiori gruppi transnazionali del mondo e amministrazioni pubbliche di un certo rilievo come il Parlamento scozzese, l'amministrazione della città di Toronto, quella del governo di Dubai, quella del fisco norvegese, la Bank of America.

Le stesse Ferrovie Federali Svizzere, come an­che la Swissair, allo scopo di modernizzare il proprio software si avvalgono dell'opera della Tata Consultancy Services. La banca Hsbc, la British Airways, la compagna di assicurazioni Prudental hanno spostato in India i propri call-center.

Si stima che siano già oltre 500 le aziende che hanno delocalizzato in India parte dei loro servizi per la clientela. La pratica sempre più crescente dell' outsourcing tecnologico è stata resa possibile dall'avvento di Internet e delle nuove tecnologie di TLC (telecomunicazioni) ma anche dal fatto che ci si può avvalere delle prestazioni di ingegneri, programmatori e altri operatori, cioè di una nuova generazione di laureati in materie scientifiche che, a partire dagli anni 1980, si sono formati nelle università anglosassoni ma che sono pagati assai meno dei loro colleghi europei, statunitensi o giappo­nesi. I vantaggi sono evidenti: se si considera che un ingegnere indiano ha un salario medio infe­riore, mediamente, di sei volte rispetto a quello di un ingegnere americano risulta tutto mag­giormente comprensibile, finanche la venatura razzista con la quale vengono definiti questi lavoratori retribuiti con salari da sfruttamento: "tecno-facchini".

Nell'economia indiana l'importanza del settore dei servizi è tale che ormai fornisce oltre la metà del P.I.L. e la stessa esportazione di tecnologie dell'informazione (IT) covrebbe toccare nell'an­no in corso la cifra di 50 miliardi di dollari.

A ciò si aggiunga che in questo settore vi lavo­rano circa 2 milioni di persone con salari da terzo mondo e con la previsione più che certa, in considerazione, appunto, di una offerta di lavo­ro che supera largamente la domanda e che i salari medi continueranno a restare inferiori a quelli corrisposti nei paesi sviluppati. Si è calco­lato che in India esistano quasi 8 milioni di persone in possesso dei requisiti per lavorare nel settore delle tecnologie dell'informazione e che il loro numero aumenta di circa un milione l'anno.

Si ha di fronte pertanto una situazione in cui la forza-lavoro (470 milioni di persone) è disoccu­pata o sottoccupata in quanto è proprio lo sviluppo industriale, basato sull'espansione del­la tecnologia e quindi sull'aumento della produt­tività, che crea nuovi posti di lavoro però in numero limitato.

Se infine si parte dalla constatazione più che ovvia che gli STP per loro stessa natura sono collegati più ai centri economici e tecnologici dei paesi sviluppati che hanno "delocalizzato" che non al territorio indiano con relative ricadute in termini di povertà crescente e condizioni di vita assai precarie, allora non è del tutto impro­prio definire questi "centri di eccellenza tecnolo­gica" delle vere cattedrali nel deserto.

Suggestioni liberiste

Nonostante tutto questo iperdinamismo che l'ha portata a diventare una potenza economica emergente i dati sono abbastanza chiari laddove si raffrontino con quelli cinesi: il prodotto interno lordo indiano è infatti pari ad un terzo di quello cinese e, a causa di una struttura produttiva complessivamente vecchia e debole con l'ovvia conseguenza che il mercato indiano potrebbe essere preso d'assalto dalle merci cinesi.

Potrebbe quindi non bastare la semplice specializzazione in determinati comparti come quelli dei servizi subappaltati oppure quelli in­formatici. Ed è questa l'enorme contraddizione che caratterizza il continente indiano, questo colosso che può permettersi il lusso di vedere compagnie indiane di high-tech e call-center mettere radici persino in Nord America e che tuttavia mostra criticità incomprensibili se non vengono analizzate attraverso la chiave di lettura dello sviluppo diseguale del capitalismo e della divisione internazionale del lavoro. Si potrebbe altrimenti scivolare nelle suggestioni che caratterizzano gli scritti di Federico Rampi­ni, editorialista di "Repubblica", che nel suo libro "La speranza indiana" si fa prendere quasi da una sorta di esaltazione mistica quando descrive i progressi prodigiosi dell'industria high-tech indiana, quasi che, quest'ultima, da sola, possa rappresentare un volano capace di far levitare l'intera economia indiana. Rampini certamente non si risparmia quando si tratta di dare risalto ad un'economia che, a suo dire, privilegia l'individualismo libertario, retaggio della dominazione britannica, e lavora molto di enfasi quando rappresenta la "irresistibile asce­sa dell'India" che poggia, tra le altre cose, su un vantaggio competitivo esemplificato da una manodopera anglofona il cui numero (350 mi­lioni) è superiore all'intera popolazione di Stati Uniti e Canada messi insieme.

Prendendo come riferimento gli attuali tassi di crescita del Prodotto interno lordo l'India supe­rerebbe gli Stati uniti nel 2050 (la Cina addirit­tura nel 2035) ed una delle leve che le consenti­rebbero di innestare questa marcia in più sareb­be proprio la forza-lavoro più giovane del mondo, una

sovrabbondanza di giovani com­petitivi, motivati, entusiasti e carichi di ottimismo sul loro avvenire. (3)

Una lettura dell'India come quella di Rampini, interpretata in chiave così ottimistica, risente di un vizio di fondo tipico di chi ha poca dimesti­chezza con i meccanismi che sovrintendono all'accumulazione capitalistica e, nell'epoca at­tuale, a quelli che contraddistinguono i rapporti tra le potenze imperialistiche.

L'India, o meglio l'economia indiana, non può essere ridotta al comparto delle imprese tecnologicamente all'avanguardia che produ­cono per l'esportazione. L'india è anche il comparto industriale ma l'India è soprattutto realtà rurale con i suoi 4.000 distretti artigiani-rurali dove è impiegata 1'80% della forza-lavo­ro; è al contempo realtà rurale e realtà urbanizzata dove sono presenti le piccole im­prese artigianali (la vera base dell'economia indiana) nelle quali l'informalità del lavoro ha modo di sconfinare spesso in forme di vera schiavitù.

Informalità che caratterizza un rapporto di lavo­ro non tutelato né sotto il profilo sociale né su quello contrattuale, decisamente precario e con un reddito non regolare e non assicurato e che interessa oramai il 30% della popolazione attiva dei paesi industrializzati ed il 90% dei paesi sudamericani, africani e asiatici, India compre­sa.

L'agricoltura

D'altra parte, quasi per legge di contrappasso, tanto è sviluppato il settore high-tech quanto quello agricolo soffre di assenza di infrastruttu­re, di tecnologie, di qualità, di formazione, di competitività per cui i margini di remunerazione risultano essere bassi per cause endemiche che vengono accentuate laddove

ad una politica agricola dettata per lungo tempo da considera­zioni legate all'approvvigionamento interno e all'autosufficienza alimentare subentra quella condizionata dai dettami del WTO (Organizza­zione mondiale per il commercio) che suggeri­sce una maggiore apertura dei mercati con ulteriore peggioramento di un settore che, per via dell'abbassamento delle barriere doganali, non è in grado di reggere la concorrenza dei produttori esteri. (4)

Se fino a dieci anni addietro le sementi, i pesticidi, l'acqua, l'elettricità, il carburante come anche i prestiti venivano sovvenzionati dallo Stato dal che derivava, ad esempio, che per la produzione di un chilogrammo di cotone occorrevano 7 rupie e per la vendita se ne ricavavano 26, adesso la situazione si è del tutto ribaltata: il costo di produzione è salito a 25 rupie ed il prezzo di mercato è sceso a 17.

A gennaio del 1995 venne costituita la WTO (World Trade Organization) che prevedeva espli­citamente la liberalizzazione progressiva del commercio dei prodotti agricoli attraverso la riduzione delle tariffe, dei sussidi e delle sovven­zioni all'esportazione, dell'abbattimento delle distorsioni che potevano ostacolare le esporta­zioni, dell'apertura alle importazioni. La legge del mercato avrebbe dovuto quindi far sentire i suoi effetti bvenefici soprattutto in termini di competitività dei prodotti indiani riducendo al minimo, quindi, l'intervento protezionistico del­lo Stato che, sempre secondo i soloni del WTO, costringeva il settore agricolo in una dimensione iperprotetta, sottocapitalizzata e quindi poco competitiva.

Ma il settore agricolo con le sue piccole dimen­sioni (mediamente un ettaro), coi suoi alti costi di produzione e i suoi bassi rendimenti non può certo pervenire agli stessi risultati del settore industriale o di quello dei servizi per cui negli anni 1990 si acuisce il distacco coi redditi delle città e la povertà che era diminuita negli anni 1970-80 torna di nuovo ad aumentare negli anni 1990.

Si assiste pertanto, in quest'ultimo periodo, ad una diminuizione della crescita agricola in quan­to, causa anche la caduta dei prezzi mondiali, l'agricoltura, in termini comparativi, è un'attivi­tà poco redditizia a causa dei prezzi sfavorevoli e del basso valore aggiunto, cosa che ha provo­cato l'abbandono delle campagne e, fatto pa­radossale, l'India da paese produttore è passata a paese che importa derrate alimentari dalla Malesia, dal Brasile e dagli Stati Uniti.

Ma gli effetti della liberalizzazione si fanno sentire, negativamente oltre che sul sistema delle sovvenzioni e delle garanzie dei prezzi anche sull'assistenza alimentare in quanto si è provve­duto a smantellare il PDS (Public Distribution System), la rete nazionale dei negozi statali che provvedeva alla sussistenza di milioni di indiani a costi bassi. La povertà ha quindi modo di infierire e molta gente smette semplicemente di acquistare per mancanza di denaro con l'ovvia conseguenza che il consumo alimentare diminuisce mentre si accumulano stock di cereali.

Contesto internazionale

L'ingresso a vele spiegate nel club ristretto delle potenze emergenti ha dato, in effetti, modo all'India di dare più compiuta espressione ad una aspirazione datata nel tempo che deriva dalla consapevolezza della propria posizione geo-strategica: non si può prescindere dal con­tinente indiano per tutto ciò che è compreso tra la penisola arabica e l'estremo oriente. Questo gli consente, nel "grande gioco" asiatico, di svolgere un ruolo di una certa rilevanza e di essere riconosciuta sempre più come una gran­de potenza asiatica e mondiale.

L'India ha sempre coltivato una sua unicità in base a cui sarebbe diversa da tutti gli altri paesi; una sorta di ostentazione, di sottile compiaci­mento che la porta a definirsi "l'eccezione india­na" e questa formula, questa eccezione, le ha consentito di godere di un certo prestigio come "potenza morale", dal 1947 in avanti, tra i paesi non allineati. Nel corso del tempo ha però avuto modo di assurgere a "potenza militare" per diventare infine "potenza nucleare".

È in quest'ottica che va analizzata la politica del governo indiano; una politica che, privilegian­do un certo pragmatismo ad assetto variabile, firma accordi, conclude alleanze a seconda della convenienza e dell'opportunità.

Questa logica sovrintende alla scelta di firmare, nel 2005, un accordo nucleare con gli Stati uniti che consente all'India di veder rimosso l'embargo varato nei suoi confronti dopo i test nucleari del 1998 ma soprattutto di continuare a non aderire al Trattato di non proliferazione nucleare soste­nendo la tesi che "firmerebbe qualora tutti rinun­ciassero all'arma atomica" (5). La pretestuosità di una tale argomentazione è tutta nella scansione temporale dei test nucleari: il primo test indiano è del 1974, quello del Pakistan del 1998.

E allora: non è che interesse comune di due potenze imperialiste, India e USA nella fattispecie, utilizzare il deterrente nucleare in funzione anti-cinese o anti-iraniana?

Ma il rafforzarsi delle relazioni diplomatiche e strategiche tra i due paesi passa anche attraver­so una dinamica in campo economico che vede gli Stati uniti al primo posto tra i partner com­merciali dell'India col quasi 12% sul totale degli scambi come pure tra gli investitori stranieri con il 17% degli investimenti esteri diretti. (6) L'intensi­ficarsi di tutti questi rapporti non impedisce tuttavia all'amministrazione americana di op­porsi al progetto della cosiddetta "pipeline della pace" tra Iran e India per la fornitura di gas liquefatto e petrolio per una durata di venticin­que anni. Se si considera che già adesso gran parte delle forniture energetiche, via mare, sono iraniane nonché il corposo interscambio tra i due paesi - l'uno fornisce armamenti e tecnolo­gia per l'esercito degli ayatollah, l'altro soddisfa la sete di energia - è facile dedurre quante possibilità di riuscita possa avere questo divieto. Il "Times of India" ha scritto di recente che

la Cina e l'India combinano il 40% della popolazione economicamente attiva mondiale nonché il 15% del PIL globale e che in un futuro non tanto lontano il volume del commercio tra i due paesi supererà quello tra India e Stati Uniti.

Questa considerazione è abbastanza rivelatrice di quelli che sono i rapporti sino-indiani attuali, caratterizzati da un incremento dei rapporti commerciali che sono passati dai 100 milioni di dollari dei primi anni 1990 ai 22 miliardi del 2006 nonché da sinergie per quel che attiene settori importanti come l'agricoltura, l'informa­tica, le finanze, lo stesso campo energetico con l'accordo siglato dalla China National Petroleum Corporation e la ONGC indiana per investire nello sfruttamento di giacimenti petroliferi siria­ni (7). Ma il discorso diventa un po' più complicato quando si considera il deficit dell'India con la Cina e il paventato pericolo di uno sbarco in massa dei prodotti cinesi sul mercato di un'India che, laddove la sua economia finisse per cristal­lizzarsi sulla "specializzazione", avrebbe più di un problema a veder consolidato il proprio sviluppo, tanto più a fronte di una Cina che vende più di quello che compra e con un PIL che è tre volte quello indiano.

A questo quadro bisogna poi aggiungere le preoccupazioni indiane per la stretta relazione tra la Cina e il Pakistan che ha modo di materializzarsi nell'aiuto cinese alla modernizzazione del porto strategico pakistano di Gwadar sul Mare Arabico che assieme a quello di Sittwe nel Mianmar e Chittagong nel Bangladesh costituiscono punti strategici per il controllo delle forniture energetiche provenienti dal Golfo Persico.

Le medesime preoccupazioni portano l'India ad un massiccio potenziamento del proprio appa­rato bellico che si avvale della collaborazione statunitense e israeliana ma non solo. La tenden­za verso una diversificazione delle acquisizioni di armi fa sì che l'India intrattenga rapporti più che proficui con la Russia che oltre a garantire l'uranio necessario al settore nucleare e approv­vigionamenti energetici per i prossimi cinquanta anni può mettere a disposizione sistemi di difesa adatti alle specificità indiane ma, soprattutto "trasferire tecnologie sensibili e creare joint­ventures militar-industriali.

Note conclusive

Ad uno sviluppo economico sostenuto e contrad­dittorio si accompagna l'immagine di una società in cui prevale l'esclusione di massa ed in cui tende a crescere sempre più il divario che separa i 70 milioni (5-6% della popolazione) che vivono secondo standard occidentali e la maggior parte dell'oltre un miliardo di popolazione indiana.

Non è fenomeno riferibile alla sola India in quanto il processo di accumulazione capitalistica doven­do riferirsi a tassi di profitto sempre meno remunerativi non può che intensificare lo sfrutta­mento, non può che creare masse sempre più crescenti di diseredati, non può, nel cercare di risolvere le proprie difficoltà, che ricorrere alla guerra permanente.

Gianfranco Greco

(1) F. Piccioni, Il Manifesto 04-06-2008.

(2) Rajesh Kumar - Anand Kumar Sethi: Fare affari in India - Ed. Etas.

(3) F. Rampini: La speranza indiana - Ed. Mondadori.

(4) Roland - Pierre Paringaux, Le Monde diplomatique - Settembre 2002.

(5) Lettera 22 :"Il club dell'atomica e le sue regole" 14-10-2006.

(6) Vicken Cheterian, Le Monde diplomatique - Settembre 2006.

(7) Mortine Bulard, Le Monde diplomatique - Gennaio 2007.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.