La Turchia alza il tiro sul Pkk, ma le sue mire imperialiste sono molto più ambiziose

Supplemento web a Prometeo 16 (2007)

Introduzione

Il voto del 17 ottobre, con cui il parlamento turco ha autorizzato l’esercito ad attaccare i campi del Pkk oltre confine, nell’Iraq del nord, minaccia di complicare ulteriormente e gravemente uno scenario regionale già estremamente complesso. La mozione, che garantisce all’esercito libertà di manovra per un anno, è stata approvata con una maggioranza prossima all’unanimità, con i soli 19 voti contrari del partito curdo Dtp e senza alcuna astensione.

Il provvedimento ha fatto seguito a diversi cruenti scontri tra esercito e Pkk, in particolare al rapimento di otto soldati turchi presi in una imboscata. Nei giorni immediatamente successivi si sono visti circa 100 000 soldati schierati al confine ed una lunga scia di altri sanguinosi scontri e incursioni da una parte e dall’altra. Tuttavia l’esercito turco non ha dato finora al provvedimento il seguito che alcuni avevano temuto in un primo momento, ossia una vera e propria invasione del nord dell’Iraq, a maggioranza curda. Ad una lettura più attenta invece il testo approvato dal parlamento appariva da subito più simile ad un ultimatum che ad un preciso ordine di intervento militare:

Piuttosto che una autorizzazione militare per l’uso della forza nell’Iraq del nord, da parte della Turchia contro il Pkk, è chiaro che la Turchia ha intrapreso una iniziativa diplomatica il cui fallimento potrebbe condurre ad una operazione militare. (1)

Ma, anche se l’obiettivo non pare essere una occupazione militare immediata del nord iracheno, si tratta di una iniziativa assai minacciosa, che ha destato non solo la più viva attenzione del governo iracheno, ma anche delle cancellerie delle principali potenze mondiali, e che trova spiegazione da un lato nella complessa situazione politica interna e dall’altro in uno scenario internazionale in rapido mutamento, in cui la Turchia teme di vedere frustrate le sue ambizioni a livello regionale e i suoi interessi strategici.

Società, economia e politica interna

La Turchia, che conta oltre 70 milioni di abitanti, è un paese di forti contrasti sociali. Pur con una popolazione al 99 percento musulmana, lo stato turco resta fondamentalmente laico. Varie leggi sono state introdotte nel corso degli anni proprio per preservare il secolarismo. È noto ad esempio il divieto per le donne turche di indossare il velo islamico negli uffici pubblici e nelle scuole. Tuttavia, a dimostrazione di quanto la religione resti un fattore sociale importante, si stima che il 55% di loro continui a portarlo quando consentito.

Come abituale nelle dinamiche capitalistiche, nonostante la presenza di produzioni tecnologicamente avanzate e un prodotto interno lordo cresciuto attorno al 6-7% negli ultimi anni, permane e si approfondisce il divario sociale. Circa il 20% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, con marcate differenze di reddito tra la parte occidentale, più ricca, e quella centro-orientale. La minoranza curda, che conta per circa il 20% della popolazione, si concentra proprio nelle regioni più povere, oltre che nelle principali città. Se negli ultimi anni l’economia ha marcato significativi tassi di crescita, grazie all’attrazione di capitali esteri legati ad attività speculative e soprattutto grazie al sostegno del Fondo Monetario Internazionale, tuttavia resta segnata da un bilancio in profondo rosso e un debito pubblico enorme, pari al 60% del pil. L’economia turca è un mutevole mix di industria, commercio e agricoltura tradizionale. L’agricoltura, scarsamente meccanizzata, impiega ancora oltre il 35% della forza lavoro, pur pesando per meno del 10% del pil. Il settore industriale più importante è sempre quello tessile e dell’abbigliamento, che conta per un terzo dell’occupazione industriale, nonostante si trovi a fronteggiare un’aspra concorrenza a livello internazionale, dopo la fine del sistema delle quote. Accanto a questi settori più tradizionali, hanno poi una certa rilevanza quelli dell’automobile e dell’elettronica. (2)

Pur non disponendo di risorse energetiche significative nel suo territorio - a parte l’importante eccezione delle fonti idroelettriche - la Turchia sta cercando invece di proporsi come hub strategico per il transito di gas e petrolio dalle regioni di estrazione centrasiatiche e mediorientali verso il Mediterraneo e l’Europa Centrale. Per la sua collocazione geografica, inoltre, la Turchia è sempre stata un nodo importante per traffici internazionali meno confessabili. Imponente e documentato, anche se difficilmente quantificabile, è ad esempio il giro d’affari legato al narco-traffico, in cui la Turchia funge da ponte tra regioni produttrici mediorientali e mercati di consumo occidentali.

A ridosso di una regione assetata come il Medio Oriente, la Turchia dispone invece di importanti risorse idriche. Il colossale progetto Gap (Guney Anadolu Projesi) del valore complessivo di circa 32 miliardi di dollari, in particolare è rivolto al sud-est della Turchia. Causa di forti tensioni con Siria e Iraq, il progetto prevede la costruzione di 22 dighe, 19 impianti idroelettrici, canali e condutture per l’irrigazione della regione a partire dai fiumi Tigri, Eufrate ed alcuni loro affluenti.

Fin dalla costituzione della Repubblica Turca, all’esercito è riservato un ruolo rilevante nell’equilibrio dei poteri. Mustafa Kemal Atatürk (il “padre di tutti i turchi”), promotore dell’assemblea costituente nel 1920 e della rivolta contro il sultanato, era stato ufficiale dell’esercito ottomano e nelle sue riforme in senso laico dello stato si appoggiò continuamente alle forze armate. Queste sono le radici del cosiddetto kemalismo, che tuttora impregna il sistema politico turco. L'esercito non ha esitato ad intervenire nelle dinamiche politiche anche con la forza, attuando tre colpi di stato nel 1960, nel 1971 e nel 1980. Il suo ruolo riemerse nel 1997, quando con un “golpe bianco” il Consiglio di Sicurezza Nazionale (Mgk) esautorò il governo di Necmettin Erbakan e sciolse il partito islamico che lo sosteneva.

Non stupisce quindi che il governo di ispirazione islamica dell’Akp (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), pur godendo del sostegno della maggior parte della borghesia e avendo riportato una netta vittoria nelle elezioni del luglio scorso, con il 46% dei voti, debba costantemente fare i conti con gli altri poteri istituzionali e in particolare con l’esercito. Tra gli altri partiti figurano il Chp (Partito Popolare Repubblicano, al 20% nelle elezioni), laico e nazionalista, l’Mhp (Partito del Movimento Nazionalista, al 14%), ultra reazionario, e infine i cosiddetti indipendenti, facenti capo a varie organizzazioni curde o di sinistra (al 3%).

Questione curda

La cosiddetta “questione curda” viene spesso fatta risalire alla fine della Prima Guerra Mondiale e in particolare al Trattato di Losanna, stipulato nel 1923, che sanciva lo smembramento del Kurdistan ex ottomano, collocato tra Turchia, Siria, Iraq, Iran, Armenia e Georgia. Da quel momento, ai curdi in Turchia è stata negata non solo l’autonomia politica, ma spesso anche i diritti essenziali. Lo stato turco, che per molti anni ha vantato su tutto il territorio nazionale tristi record in tema di violazioni dei cosiddetti “diritti umani”, con torture, violenze di ogni genere perpetrate da poliziotti e militari, arresti arbitrari, processi farsa o addirittura completamente negati, ha mantenuto a lungo le sue regioni sud-orientali, a maggioranza curda, sotto stato d’emergenza - ossia sottoposte a violenze e repressioni ancora più dure e incontrollate.

D’altra parte il Pkk (Partito dei Lavoratori Curdi) non ha fatto altro che inasprire le divisioni interetniche tra lavoratori. Lungi dal preoccuparsi degli interessi della classe operaia, il Pkk ha al contrario fatto sempre leva sul nazionalismo curdo e sulla contrapposizione interimperialistica tra Usa e Urss, macchiandosi di atroci e infami violenze, ricorrendo perfino ad attentati suicidi tra civili inermi. Negli ultimi venti anni, il conflitto ha provocato nel complesso circa 40 mila morti, con 4 mila villaggi distrutti e quasi 3 milioni di persone sfollate.

La situazione ha subito una svolta negli ultimi anni quando, in parte per sostenere il suo tentativo di adesione all’Unione Europea, la Turchia ha adottato misure di carattere diverso per far fronte alla situazione. In particolare, nel 2003, è stato approvato un decreto che, assieme alla abolizione della pena di morte in tempo di pace, consente, sia pur con forti limitazioni, la trasmissione di programmi radio-televisivi in curdo e l’insegnamento della lingua in corsi privati. L’anno precedente il Pkk, spinto anche dal venir meno dei suoi referenti internazionali dopo l’implosione del blocco sovietico, aveva proclamato durante il suo VIII congresso un importante “cessate il fuoco” unilaterale, accompagnato dalla dichiarazione che il nuovo obiettivo era la “soluzione democratica e pacifica della questione kurda”. L’indicazione di questa svolta era venuta, dal carcere, dallo stesso leader storico del movimento, Abdullah Ocalan, arrestato nel 1999 in Kenia dopo una lunga peregrinazione che lo aveva portato anche in Italia. Scrivevamo sui nostri documenti, in quell’occasione:

Nei fatti Ocalan è un nazionalista che a partire dal 1970, data di nascita del Pkk, non ha esitato a paludarsi di sovietismo in chiave stalinista pur di ricevere appoggi finanziari e militari da parte dell’Urss. Il che, se da un lato gli ha consentito di bruciare le tappe organizzative sino a diventare il più importante partito curdo in territorio turco, dall’altro lo ha esposto alle critiche e alle rappresaglie degli altri partiti filo-occidentali o di allineamento anti-sovietico. Anche il suo comunismo di facciata, se per un verso gli ha consentito di aggregare notevoli frange della popolazione più diseredata su di un programma vagamente progressista, dall’altro non ha potuto nascondere le ambizioni rigidamente nazionalistiche... (3)

A partire dal 2004 gli attentati hanno però cominciato nuovamente ad aumentare, sia in numero che in intensità. In molti casi, si è trattato di episodi rivendicati da gruppi di fuoriusciti, come il Tak (Falchi per la Liberazione del Kurdistan), su cui aleggiano non pochi misteri. La dinamica degli attacchi risente comunque di uno scenario regionale e mondiale in rapido cambiamento, su cui gravano da un lato l’instabilità irachena e dall’altro l’eventualità di una prossima guerra contro l’Iran.

Le reazioni nei confronti della recrudescenza della violenza legata alla questione curda hanno messo in evidenza le divisioni e le lotte intestine alle istituzioni turche. Infatti, in contrasto con le dichiarazioni del primo ministro Erdoğan, che poco prima aveva respinto una richiesta simile dello Mhp, il procuratore capo della Suprema Corte d'Appello ha aperto il 19 novembre un provvedimento per la chiusura del partito curdo Dtp (Partito della Società Democratica). Ma le divisioni tra le varie anime della borghesia turca riguardano piuttosto i modi e i tempi, anziché le direttrici fondamentali della politica estera: laddove l’ala islamica e moderata cerca un compromesso con gli Stati Uniti prima di lanciare qualsiasi offensiva, l’ala radicale e ultra nazionalista chiede un intervento deciso e immediato, senza remore per le reazioni dei tradizionali alleati.

Inoltre alcuni osservatori (4) nutrono seri dubbi sulle reali dimensioni del movimento guerrigliero curdo, in particolare sul fatto che esso costituisca una concreta minaccia per la Turchia, e puntano il dito verso il petrolio di Kirkuk. La questione non è esattamente così semplice, anche se gli interessi e le aspirazioni della Turchia ad estendere nel lungo termine la sua influenza su Mosul e Kirkuk non sono una novità, ma anzi risultavano evidenti gia nel 2003, all’epoca dell’esplosione della seconda guerra in Iraq:

Gli Usa avevano portato a compimento un’alleanza con i due principali partiti curdi iracheni, il Pdk di Barzani e il Ppk di Talabani con la promessa di una maggiore autonomia nell’ambito di un futuro stato federale. La cosa ha fatto imbestialire il governo turco che, non solo ha rifiutato l’uso delle sue basi per una penetrazione americana al nord dell’Iraq, ma lo ha spinto a sfidare il grande alleato minacciando di entrare con le sue truppe all’interno del territorio curdo. Due gli obiettivi: il primo di evitare la nascita di una stato curdo più o meno federale, il secondo di proporre la propria candidatura al controllo e allo sfruttamento del petrolio nella zona di Mosul e Kirkuk. In più il governo di Ankara teme delle ripercussioni tra la sua popolazione curda, che rialzerebbe la testa in una sorta di imitazione nazionalistica dei fratelli iracheni. (5)

Un referendum per decidere se Kirkuk dovrà fare parte della regione irachena del Kurdistan era stato fissato per il 15 novembre, ma è stato rimandato almeno fino alla fine dell’anno proprio in seguito alle fortissime pressioni turche. L’Iran chiede che sia posticipato di due anni.

Sui destini di Kirkuk e Mosul, e dei loro giacimenti petroliferi, si gioca anche una partita politica più o meno sotterranea tra i due principali partiti curdi. Il Pdk di Barzani è determinato a fare di Kirkuk la capitale dello stato kurdo nell’Iraq federale. La Turchia naturalmente si oppone duramente a questa eventualità, che rafforzerebbe l’autonomia curda. È utile rammentare qui che ben metà del petrolio esportato dall’Iraq viene precisamente dal giacimento di Kirkuk, da dove parte una pipeline che arriva fino al porto turco di Ceyhan. (6)

Altro elemento di attrito è l’opposizione del presidente iracheno Talabani, anch’egli curdo, rispetto ai contratti petroliferi firmati a livello regionale. Il ministro del petrolio al Shahristani, ha dichiarato illegali tutti i contratti firmati prima dell'approvazione della legge federale sul petrolio e sul gas, arenata in parlamento, e ha paventato per le compagnie straniere firmatarie l’esclusione da ogni futura concessione sul territorio nazionale.

Infine, per tornare al Pkk, è di sicuro una grossa fonte di problemi il recente “accordo di cooperazione politica” tra i curdi dell’Iraq settentrionale e i curdi della Turchia orientale. Dietro di esso Ankara teme si nasconda un sodalizio finalizzato alla creazione di uno stato indipendente del Kurdistan. Barzani, contrapponendosi ancora una volta a Talabani, non ha esitato a cavalcare la montante ondata nazionalista stringendo rapporti fin troppo ambigui con il Pkk. Ci sono inoltre chiare evidenze che armi statunitensi destinate a Balzani - ufficialmente per combattere Al Qaeda ma più concretamente per sostenere l’insorgenza curda del Pjak in Iran - finiscano nelle mani del Pkk. Secondo diversi resoconti, anzi, Pkk e Pjak sarebbero semplicemente due branche della medesima organizzazione - additata come terrorista, ma armata dagli stessi Usa dietro le quinte. (7)

Questa è la situazione, per molti versi esplosiva, delle regioni settentrionali dell’Iraq, le uniche definite in qualche misura “stabili”, ma che per molti versi si configurano già oggi come una entità nazionale a sé. Per gli abitanti delle zone curde il futuro è quanto mai incerto. Per il momento gli Usa sono riusciti a contenere le forze centrifughe, spingendo i pasdaran ad intervenire direttamente e circondare i campi del Pkk, prendendo così tempo rispetto alle minacce turche. Quanto questo equilibrio precario potrà durare, è però difficile dirlo.

Contesto internazionale

La Turchia sullo scenario internazionale si è schierata al fianco degli Stati Uniti e del cosiddetto blocco occidentale fin dai primi anni della guerra fredda. In base alla dottrina Truman, gli Stati Uniti sostennero da subito la Turchia con armi e soldi, in funzione di contenimento dell’Urss e della sua flotta, e favorirono nel 1952 il suo ingresso nella Nato, in cui rappresenta ancora oggi l’unica nazione a maggioranza musulmana.

In questo contesto, le relazioni tra Turchia e Israele hanno seguito un percorso privilegiato e sono state oggetto di numerosi accordi, prima di tutto di carattere militare, ma anche economici e politici. (8) Questo sodalizio ha fornito agli Stati Uniti un solido avamposto su cui basare la propria politica e i propri interventi in Medio Oriente, fin dai primi anni del secondo dopoguerra.

Agli anni 1950 risalgono pure i primi rapporti tra Europa e Turchia, ostacolati però dagli attriti con la Grecia. Grazie anche alle continue pressioni degli Stati Uniti, i rapporti si sono fatti via via più distesi, fino all’istituzione di un’unione doganale nel 1995 e alla candidatura ufficiale per la Ue nel 1999. Nell’ambito di una ormai stretta cooperazione economica tra Grecia e Turchia, alcune questioni spinose restano però ancora sul tappeto:

  • la disputa sulla territorialità dell’Egeo, culminata nella cosiddetta crisi di Imia del 1996;
  • la determinazione dell’estensione sottomarina della piattaforma continentale, con annessi diritti di esplorazione e sfruttamento di risorse minerarie ed energetiche;
  • la perdurante divisione di Cipro, spaccata in due dopo l’invasione turca del 1974.

Diventano sempre più stretti anche i rapporti con l’Italia, terzo partner commerciale della Turchia dopo Germania e Russia. L’interscambio riguarda principalmente macchinari, tessuti, il settore auto e quello militare. I risultati della collaborazione sono evidenti anche nel settore degli idrocarburi, sottolineati dalla partecipazione dell’Eni in tutti i principali progetti turchi a livello internazionale.

Proprio nell’ambito degli idrocarburi, la Turchia ha svolto negli ultimi anni un ruolo importante sullo scacchiere internazionale, dimostrandosi un tassello fondamentale per la realizzazione dei progetti statunitensi ed europei tesi a trasportare verso occidente le risorse energetiche del Medio Oriente e dell’area del Caspio.

Il risultato più tangibile è stato il completamento dell’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyhan (Btc), inaugurato nell’estate del 2006, che collega i pozzi dell’Azerbaijan al porto mediterraneo di Ceyhan, attraverso un percorso di 1768 chilometri e con una capacità a regime di oltre 1 milione di barili/giorno. Costato circa 4 miliardi di dollari, l’oleodotto è gestito da un consorzio di 11 compagnie guidate da Bp, in cui partecipa anche l’Eni con una quota del 5%. Una società guidata da Bp e Statoil ha investito altri 1,3 miliardi di dollari nella costruzione di un gasdotto parallelo, noto come “South Caucasus Pipeline” (Scp) o “Baku-Tbilisi-Erzurum” (Bte). Il gas comincerà a fluire inizialmente dal giacimento di Shah Deniz, in quantità di 6,5 miliardi di mc/anno, ma con la possibilità di salire fino a 20 con il collegamento di altri giacimenti. (9)

Il 19 novembre è stata poi inaugurata la prima sezione del gasdotto Turchia-Grecia-Italia (Itgi). L’interconnessione tra Turchia e Grecia avrà una capacità di 11,5 miliardi di mc/anno di gas; l’interconnessione Grecia-Italia dovrebbe essere invece operativa entro il 2012, con una capacità di circa 8 miliardi di mc/anno. Il gasdotto Itgi - uno dei cinque assi considerati prioritari dalla Commissione Europea per gli approvvigionamenti di energia - sarà collegato alle condutture provenienti dal Caspio.

Sempre dalla Turchia, dal nodo di Erzenum, dovrebbe partire infine il gasdotto Nabucco. Progetto cardine della politica energetica europea, con un costo stimato in 5,8 miliardi di dollari, dal 2011 il Nabucco dovrebbe trasportare in Austria gas dal Caspio, dall’Asia Centrale ed eventualmente dal Medio Oriente, attraversando per 3.300 chilometri Turchia e Balcani. La capacità della pipeline dovrebbe inizialmente oscillare tra i 10 e i 13 miliardi di mc/anno, crescendo progressivamente fino a 31 miliardi nel 2020.

Tutti questi progetti rientrano in un ambizioso piano strategico volto a trasformare il Caucaso e la Turchia in un corridoio energetico capace di connettere l’Asia Centrale e il Medio Oriente all’Europa Occidentale, scavalcando la Russia: l’East-West Energy Corridor.

Per l’Unione Europea la parola d’ordine è “diversificare”, come si legge chiaramente nel “Libro verde” del 2006 sull’energia, ossia liberarsi dalla eccessiva dipendenza dalle forniture energetiche russe. “La UE allargata importa dalla Russia il 25% del proprio fabbisogno di gas naturale ed il 20% di quello di petrolio”, e d’altro canto “Mosca dipende per il 90% delle sue esportazioni di energia dall’Europa”. (10) Tuttavia in questo rapporto che è di intrinseca interdipendenza, la Russia è riuscita finora a muoversi da una posizione di forza, grazie alla gestione centralizzata delle politiche energetiche, mentre gli stati europei si sono mossi in ordine sparso.

In certa misura, in questo ambito gli interessi imperialistici dell’Europa coincidono con quelli degli Stati Uniti, che perseguono infatti da lungo tempo una politica volta a sottrarre alla Russia il controllo praticamente esclusivo che ora detiene sui flussi energetici centro-asiatici. Per gli Usa, però, in ballo non ci sono soltanto la sicurezza energetica e i profitti delle compagnie petrolifere, ma alla lunga anche i meccanismi vitali di un’economia da anni ormai dipendente dal cosiddetto signoraggio del dollaro. Il dollaro potrebbe infatti perdere il suo ruolo di valuta di contrattazione internazionale delle materie prime se queste sfuggissero al controllo statunitense. I risultati sarebbero disastrosi per la sostenibilità dei cosiddetti “deficit gemelli”, del bilancio pubblico e della bilancia commerciale, e per l’intero sistema economico. (11)

La Russia però non è rimasta a guardare. Innanzitutto attualmente l’oleodotto Btc non riesce a raccogliere e trasportare petrolio in quantità sufficiente a garantirne la redditività - difatti la sua realizzazione è stata dettata principalmente dalle ragioni della geopolitica statunitense. I campi azeri non hanno riserve adeguate e il loro picco di produzione potrebbe verificarsi già nel 2008. Resta fondamentale quindi l’apporto di gas turkmeno e petrolio kazako, in particolare quello off-shore di Kashagan, il più grande giacimento scoperto negli ultimi anni, con riserve stimate in 9-13 miliardi di barili.

Ma, in un gioco a due sponde con l’Iran e forte della presenza in loco della sua imponente flotta, la Russia è riuscita finora ad imporre il veto sulle pipeline attraverso il Caspio. Kazakistan e Turkmenistan si dichiarano ancora interessati ad un collegamento con l’Azerbaijan, ma al momento non esiste alternativa al costoso uso di navi cisterna. In tale contesto ricadono gli accordi preliminari del giugno scorso con Kazakistan e Turkmenistan per far arrivare il gas turkmeno in territorio russo. (12)

Infine, con un colpo che potrebbe affossare definitivamente il progetto Nabucco, lo scorso 22 novembre Eni e Gazprom si sono accordate per la costruzione del gasdotto South Stream che, attraversando il Mar Nero per 900 chilometri, porterà il gas dalla Russia alla Bulgaria, per poi arrivare in Austria e in Grecia. Il costo del gasdotto sarà prossimo ai 10 miliardi di euro, mentre la sua capacità a regime raggiungerà i 30 miliardi di mc/anno. (13)

Ambizioni imperialiste

In questa partita senza esclusione di colpi tra le principali potenze mondiali, la Turchia si trova a giocare da alcuni anni un ruolo di primo piano. La posizione geografica della Turchia è strategica, perché il 70% delle risorse di gas e petrolio al mondo conosciute si trova ai suoi confini e “il corridoio turco” rappresenta l’alternativa privilegiata per quei paesi, Stati Uniti in testa, che mirano a contenere l’influenza di Russia e Iran sulle rotte del gas e del petrolio provenienti dal Caspio e dall’Asia Centrale.

I progetti turchi ruotano attorno al porto di Ceyhan, che secondo i piani diventerà la “Rotterdam del Mediterraneo”, da dove passerà il 6-7% dell’intera produzione mondiale di petrolio. Nella cerimonia di inaugurazione dell’oleodotto Transanatolico, che collega Ceyhan al Mar Nero, il ministro Güler ha definito Ceyhan un vero e proprio “supermercato dell’energia”. Il porto turco è il punto d’arrivo non solo del Btc, ma anche dell’oleodotto Kirkuk-Ceyhan, lungo 970 chilometri con una capacità di circa 1,6 milioni di barili/giorno (operante in maniera discontinua a causa dei frequenti sabotaggi). Ceyhan in futuro potrebbe poi essere collegata a diverse condutture per la fornitura di elettricità, acqua, gas e petrolio ad Israele. Inoltre nel 2006 i paesi coinvolti hanno discusso di una possibile estensione della “Trans-Arab Pipeline”, per esportare gas dall’Egitto verso Cipro e la Turchia.

Di fatto in questo momento Ankara non intende limitare in alcun modo gas e petrolio da fare transitare sul suo territorio, in base alla loro provenienza o destinazione. Il suo interesse principale è anzi quello di convogliarne il più possibile, così da accrescere il suo peso internazionale e garantirsi al contempo una maggiore sicurezza negli approvvigionamenti, di fronte a consumi interni in continua crescita e finora coperti in gran parte dalla Russia. Nel perseguire i suoi ambiziosi piani, la Turchia ha cercato quindi di smarcarsi sempre di più dalla ingombrante influenza dell’alleato americano, pronto a sacrificare le aspirazioni turche per centrare i suoi propri obiettivi. Per questo motivo la Turchia si sta proponendo molto pragmaticamente sul piano regionale quale interlocutore disponibile a discutere con chiunque possa portare dei vantaggi all’economia nazionale.

Naturalmente tale genere di processi è per forza di cose lento e contraddittorio e, anche se alcune tendenze risultano già abbastanza evidenti, non bisogna confonderle con l’attualità. Anzi, la Turchia resta per ora un importante alleato degli Stati Uniti. Il Pentagono continua a fare passare attraverso Incirlik, base militare aerea della Nato nella Turchia meridionale, il 60-70% degli approvvigionamenti per l’Iraq. Inoltre almeno un quarto della benzina consumata dall’esercito statunitense arriva su camion dalla Turchia. È indicativa però del risentimento contro gli Stati Uniti e del deterioramento dei rapporti la richiesta - per ora isolata - del partito Mhp di chiudere non solo la base di Incirlick, ma anche i confini con l’Iraq. (14)

Già nel 1991, l’implosione del blocco sovietico e la fine della Guerra Fredda avevano aperto la strada a scenari alternativi all’asse con gli Usa, aperture addirittura impensabili fino a qualche anno prima. Le relazioni con la Russia, in primo luogo, si sono da allora normalizzate e l’interscambio è anzi cresciuto tanto che la Russia rappresenta ormai il secondo partner commerciale della Turchia, dopo la Germania. In questo senso, è stato fondamentale il gasdotto Blue Stream che, steso sul fondo del Mar Nero tra Russia e Turchia da Gazprom, Eni e Botas con un investimento di 3,2 miliardi di dollari, garantisce una capacità pari a 16 miliardi di mc/anno. Sull’opera pesano però l’elevato prezzo del gas pattuito e l’accusa di corruzione al ministro dell’energia Ergezen, firmatario dell’accordo. I previsti sviluppi del progetto, fino a raggiungere Israele e i Balcani, sono ancora in dubbio. (15)

Il primo strappo importante con gli USA è avvenuto nel marzo 2003, all’epoca della Seconda Guerra del Golfo, quando il parlamento turco si rifiutò di concedere all’esercito Usa l’uso del territorio nazionale per l’invasione dell’Iraq, impedendo di aprire un robusto secondo fronte settentrionale nel Kurdistan iracheno. Solo il 7 ottobre 2003 il parlamento approvò infine l’invio di truppe in Iraq, a fronte di importanti contropartite:

  • innanzitutto un consistente aiuto economico dagli Stati Uniti, pari a 8,5 miliardi di dollari forniti direttamente e molti altri sbloccati presso il Fmi, necessari a far fronte ad una crisi economica interna che altrimenti sarebbe stata disastrosa;
  • non di secondaria importanza, la possibilità di influire più direttamente sulla questione del Kurdistan iracheno, a riguardo della sua autonomia e della sua eventuale estensione territoriale alle zone turcomanne - nonché petrolifere - di Kirkuk e Mosul.

Ma nel frattempo, molte altre questioni si sono aggiunte ad allargare la frattura tra Turchia e Stati Uniti. Lo scorso luglio il governo turco si è spinto fino a stringere importanti accordi con l’Iran, lo “stato canaglia” per eccellenza. Secondo gli accordi, sarà creata una compagnia congiunta per la costruzione e l’ampliamento delle pipeline che collegano i due paesi, con l’obiettivo di portare oltre 35 miliardi di metri cubi di gas naturale iraniano in Europa, attraverso la Turchia. Inoltre è stata affidata a compagnie turche la costruzione di tre centrali termiche in Iran e, senza alcuna gara d’appalto, alla società petrolifera turca Tpao è stata assegnata la concessione per lo sfruttamento di vasti giacimenti di gas scoperti nel 1999 presso Asaluye. Nell’operazione, finanziariamente fuori portata per l’Iran, la Tpao si è detta disposta ad investire 3,5 miliardi di dollari e si è messa alla ricerca di partner dotati di adeguate tecnologie e capitali. Infine è stato menzionato, ma a questo stadio solo come auspicio, il passaggio attraverso l’Iran e verso la Turchia di gas turkmeno. Quest’ultima indicazione - discussa tra l’altro anche a dicembre, durante la visita di Gul in Turkmenistan - non è comunque da sottovalutare, in quanto potrebbe rivoluzionare gli equilibri e le relazioni regionali - sempre che i programmi iraniani non sia bloccati bruscamente dagli Usa. (16)

Presso il governo degli Stati Uniti naturalmente questo genere di relazioni non riscuote molte simpatie. La prima reazione è stata espressa dal portavoce del dipartimento di stato, McCormack, che ha sottolineato subito come “non sia il momento favorevole per investimenti in Iran nel settore energetico”. Mentre circolavano insistenti indiscrezioni di possibili sanzioni, dopo l’estate gli Usa hanno rincarato le pressioni, dichiarandosi “pronti a fornire ad Ankara tutto l’aiuto possibile per trovare fonti di approvvigionamento alternative.”

Il legame tra Iran e Turchia non è però una novità assoluta, né risulta limitato al settore energetico. I due paesi si trovano ormai da tempo ad essere “naturali alleati” su diversi fronti, primo fra tutti quello dell’insorgenza curda. Lo scandalo delle armi americane nelle mani del Pkk è solo l’ultimo di una serie di fatti che dimostrano il solido legame tra guerriglieri curdi, amministrazioni locali e finanziatori statunitensi. Non stupisce quindi l’avvicinamento tra Turchia ed Iran e non stupisce la dichiarazione del presidente Gul che, durante una visita del suo omologo Peres a novembre, ha difeso apertamente il diritto iraniano alla ricerca nel campo del nucleare civile, come aveva fatto già Putin a nome di tutti i paesi rivieraschi del Caspio, riuniti a Teheran a metà ottobre. La Turchia, d’altro canto, ha più volte preannunciato l’avvio di un programma nucleare proprio.

Altri contrasti con gli Stati Uniti riguardano la politica turca di apertura verso Hamas e verso la Siria (17). La risoluzione approvata dal Congresso Usa che definisce “genocidio” le stragi di armeni in Turchia tra il 1915 e il 1920 non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco. I rapporti si sono fatti al contempo più tesi anche con Israele, come testimonia l’aspra denuncia della violazione dello spazio aereo turco da parte di Israele nel corso di una misteriosa missione svoltasi nei cieli siriani il 6 settembre (18). Il riavvicinamento tra diversi paesi del Medio Oriente e l’insofferenza crescente verso l’ingerenza statunitense - nonostante la malcelata diffidenza dei paesi limitrofi per il programma nucleare iraniano - sono in sostanza l’inevitabile risultato del progetto statunitense di “Nuovo Medio Oriente”, che è evidentemente destinato a destabilizzare l’intera area e frustrare gli interessi degli attori regionali.

Prospettiva proletaria

Di fronte all’acuirsi degli scontri imperialistici nella regione, la classe lavoratrice - prima vittima degli scontri militari e terroristici, qualunque sia la sua etnia - non ha ancora trovato la strada per rilanciare la propria iniziativa autonoma e internazionale, unica condizione che possa bloccare le spinte belliciste.

La classe operaia vive in Turchia condizioni assai dure. Ben il 45% dei lavoratori è impiegato al minimo salariale, pari a 298 euro. Secondo le norme, le ore di lavoro settimanali dovrebbero essere 45, ma sono frequenti i casi di orari di lavoro di 14-16 ore al giorno per 6-7 giorni alla settimana. Sono diffuse le decurtazioni salariali e i licenziamenti di attivisti sindacali, così come è diffuso l’abuso del lavoro minorile. Secondo i dati del ministero del lavoro, i bambini di 12-14 anni inseriti nel mondo del lavoro nel 2004 erano 469 mila. La legge impone severe limitazioni al diritto di sciopero, in particolare nel settore pubblico.

Un problema molto sentito è la disoccupazione, che continua a crescere nonostante i dati del pil; in ottobre ha raggiunto il 9,7%, con 42 mila posti in meno rispetto a luglio. Il fenomeno colpisce in particolar modo i giovani e le donne. Il 18,2% dei giovani è disoccupato (il 22,3% nelle zone urbane). Le donne escluse dal lavoro sono 18 milioni. Mentre nel 1990 lavorava il 34,1% delle donne, nel 2004 solo il 25,4%. L’abbandono del lavoro per maternità si verifica in media a 31 anni, contro una media europea di 39 anni. Nelle statistiche ufficiali non viene poi conteggiata la condizione di “lavorante in famiglia senza salario”, che è sostanzialmente una forma di disoccupazione occulta.

Ma la situazione è molto difficile anche per chi un lavoro ha la “fortuna” di trovarlo. Si stima che circa il 51% della forza lavoro turca sia impiegata in nero e ben il 65% dei salariati sia precario. In molte industrie del tessile, principale settore di export della Turchia, l’80% degli operai è messo al lavoro in nero e senza alcuna copertura. (19)

Approssimativamente un lavoratore su tre nelle aree urbane e tre su quattro nelle aree rurali non sono registrati presso gli istituti per la sicurezza sociale... Dato che il sistema di protezione sociale turco (pensioni, sussidi per malattia e disoccupazione) è basato in gran parte sugli istituti per la sicurezza sociale, ciò significa che i lavoratori non ricevono queste protezioni.

Studio sul mercato del lavoro in Turchia, Banca Mondiale, 14/04/2006

Ma i programmi del governo lasciano presagire profondi cambiamenti nel mercato del lavoro... per renderlo ancora più “flessibile”, a vantaggio dei padroni! La proposta sostenuta dal governo e dalle associazioni padronali sarebbe un necessario adeguamento alle norme previste dall’Unione Europea, evidenziando bene quali siano gli interessi di classe che sottendono la costruzione europea.

Alcune reazioni a questo stato di cose cominciano a manifestarsi. Sono significativi gli episodi di lotta dei 26 mila lavoratori delle Turk Telekom in tutto il paese e delle operaie della Novamed in Antalya, in sciopero ad oltranza per migliori condizioni di lavoro. (20)

Tuttavia l’attacco padronale è continuo e si giova della nuova ondata di fermento reazionario che sta montando in Turchia. Un sondaggio condotto in ottobre da Pollmark stima che l’81% della popolazione sia favorevole a operazioni militari oltre confine, contro il 46% di luglio. Viene riportato di manifestazioni imponenti, ostentatamente nazionalistiche, che hanno coinvolto decine e spesso centinaia di migliaia di persone praticamente in ogni città. Una delle pochissime manifestazioni contro la guerra, ad Ankara, è stata caratterizzata da numerosi slogan diretti unicamente contro gli Stati Uniti, per chiederne il ritiro dal Medio Oriente, senza esprimere una critica complessiva alla guerra imperialista. Già nel 2005, secondo un sondaggio della Bbc, “l'82% dei turchi considerava gli Stati Uniti la principale minaccia alla pace mondiale, battendo tutti i record europei”.

L’opposizione alla guerra imperialista potrà esprimersi compiutamente solo saldando la pratica del disfattismo rivoluzionario alla lotta di classe quotidiana nei posti di lavoro, attaccando l’imperialismo a partire dalle sua fondamenta economiche. La lotta contro la guerra richiederà non solo un enorme sforzo da parte dei proletari turchi - che hanno già dimostrato in diversi episodi di saper condurre lotte coraggiose e determinate per difendere i propri interessi - ma anche uno sforzo congiunto da parte dei loro fratelli di tutto il mondo, per contrastare i piani imperialistici del blocco statunitense assieme a quelli dei diversi costituendi blocchi mediorientali, asiatici ed europei.

Per questo sarà necessaria una nuova internazionale, un partito internazionale del proletariato capace di legare e guidare le singole lotte verso la conquista del potere nelle mani dei lavoratori, verso il rovesciamento di questo sistema produttivo decrepito, fondato sullo sfruttamento, che ormai per sopravvivere è costretto a trascinare il mondo in abissi di distruzione sempre più drammatici, con le guerre ma anche con la incessante devastazione ambientale. Non solo l’alternativa proletaria a questo sistema resta l’unica possibile, ma la sua necessità diventa sempre più attuale.

Mic

(1) Y. Kanli, “Il messaggio in codice del governo”, Turkish Daily News 18/10/2007. turkishdailynews.com.tr

(2) Dati pubblicati sul “Mappamondo” di Peacereporter e sul “World factbook” della Cia. peacereporter.net cia.gov

(3) “Ocalan e il PKK vittime delle manovre americane anti Saddam e della rendita petrolifera”, documento del PCInt del 1999. leftcom.org

(4) F. Alberti, “Non è Il Pkk, Ma Il Petrolio Di Kirkuk Nel Mirino Della Turchia”, Un ponte per 18/10/2007. unponteper.it

(5) “Medioriente e dintorni nella morsa della guerra: sangue distruzione morte e poi?”, Battaglia Comunista 4/2003. leftcom.org

(6) F. Damen, “Le componenti di classe nella crisi irachena”, Prometeo 9 (2004). leftcom.org

G. Cazzulini, “Turchia e Kurdistan iracheno, dietro le tensioni”, Pagine di difesa 12/06/2007. paginedidifesa.it

(7) M. Blondet, “In Iran, i curdi già uccidono per gli USA”, 16/07/2007. effedieffe.com

(8) “Turchia-Israele: la nuova alleanza”, Limes n.3, 1999.

(9) S. Aprea, “La partita europea si gioca al Topkapi”, Nuova Energia. nuova-energia.com

(10) A.Rosato, “La Sicurezza Energetica nelle relazioni tra Unione Europea (Italia) e Federazione Russa”, Ricerca 2006 - B4/Z CeMiSS. difesa.it

(11) Altri articoli e studi sull’argomento disponibili sul sito del Bipr. leftcom.org

(12) “Lo scontro imperialistico sul gas turkmeno”, Battaglia Comunista 6/2007. leftcom.org

M.D. Nazemroaya, “Il Grande Gioco entra nel Mediterraneo: gas, petrolio, guerra e geopolitica”, Global Research 14/10/2007. mirumir.altervista.org

(13) L. Malsano, “Imprimatur di Prodi e Putin all'accordo tra Eni e Gazprom”, Il sole 24 ore 22/11/2007. ilsole24ore.com

(14) J. Gottschlich, “Cosa vuole la Turchia dall´Iraq - e dagli Stati Uniti”, Osservatorio Iraq, da Spiegel Online 18/10/2007. osservatorioiraq.it

(15) F. Salomoni, “Blue Stream, il gas sotto il mare” Osservatorio sui Balcani 30/11/2005. osservatoriobalcani.org

M. Blondet, “Alleanza russo-turca? Inevitabile”, Effedieffe 07/11/2007. effedieffe.com

(16) “Turchia e Iran: Un´amicizia troppo energica” Osservatorio Iraq, da The Economist 23/08/2007. osservatorioiraq.it

F. Salomoni, “La partita energetica”, Osservatorio sui Balcani, 26/10/2007. osservatoriobalcani.org

(17) L. Battiato, “Turchia: instabilità politica e crisi finanziaria in un periodo di transizione”, da Equilibri.net. saperinvestire.it

(18) M. Blondet, “Erdogan ad Olmert: smetti di aiutare il Pkk”, Effedieffe 24/10/2007. effedieffe.com

(19) Dati da Labornet Turkey. sendika.org

(20) L’Eks raccoglie e pubblica notizie sulle lotte operaie in Turchia nel bollettino “Nightnotes”. eks.internationalist-forum.org

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.