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Home ›Sulla crisi dell'Unione europea dopo i referendum in Francia e Olanda
Per comprendere con sufficiente chiarezza quel che sta accadendo all’interno dell’Ue sono necessarie alcune premesse.
La prima, e forse la più importante, è che quando parliamo del processo di unificazione europea parliamo di un qualcosa che non ha precedenti nella storia moderna. In Europa, forse, l’unico potrebbe essere considerato quello dell’Unione doganale tedesca (Zollverein) del 1833 che costituì il presupposto dell’unificazione degli stati tedeschi. Ma si trattò di un unione fra stati di piccole dimensioni sotto l’egida del potente stato prussiano e comunque di stati della stessa nazionalità, scarsamente strutturati sia economicamente sia politicamente, in un fase storica completamente diversa da quella attuale. Oggi, invece, si tratta di mettere insieme non solo stati già strutturati ma anche nazionalità diverse fra loro, diversificate forse come poche altre al mondo e in un contesto di capitalismo maturo anzi in quella che Lenin ha definito la fase suprema del capitalismo: l’imperialismo. Peraltro non bisogna neppure dimenticare che l’altro precedente di unificazione riuscita, quella degli stati nordamericani (Usa), ha avuto come tappa intermedia addirittura una guerra civile (la guerra di Secessione) durata quattro anni.
La seconda premessa che ci pare importante si debba porre è che il processo di unificazione europea, benché avviato già all’indomani della seconda guerra mondiale sotto l’egida degli Usa in funzione antisovietica, ha subito una forte accelerazione proprio con il crollo dell’Urss e sotto la pressione dello strapotere degli Usa, in particolare per la necessità di sottrarsi al monopolio del dollaro. Esso, infatti, in quanto biglietto inconvertibile utilizzato come mezzo di pagamento internazionale, oltre ad assicurare agli Usa una cospicua rendita finanziaria e il finanziamento a basso costo del loro debito, consente loro di condizionare la gestione dei parametri macroeconomici dell’intera economia mondiale in funzione dell’andamento di quella statunitense, così che essi possono attuare politiche macroeconomiche anticicliche scaricandone i costi sul resto del mondo.
Il "serpente monetario europeo" prima e l’euro poi sono stati proprio il frutto dell’esigenza di spezzare il monopolio del dollaro e/o di contrastarlo, evitandone l’uso quanto meno negli scambi di merci e servizi intereuropei. (1)
Da questa seconda premessa scaturisce poi la terza. Trattandosi di un processo che si è sviluppato più sulla spinta di pressioni esterne ed essendosi imposto come una necessità per difendersi dalle fluttuazioni del dollaro e del prezzo del petrolio, esso ha favorito l’aggregazione anche di realtà molto differenziate fra loro, sia per il loro diverso peso economico-finanziario, sia per il diverso grado di sviluppo dei rispettivi apparati produttivi.
Da ciò ne è derivata però una evidente contraddizione che la crisi mondiale ha reso più acuta. L’euro, infatti, se da un lato avvantaggia tutti gli stati aderenti dotandoli di uno strumento di difesa di straordinaria efficacia, dall’altro, limitando i margini di manovra dei singoli stati in relazione all’andamento del ciclo economico è causa dell’insorgere di profonde divergenze sugli interventi di politica economica da adottare in funzione anticiclica.
Così, per esempio, in una fase come quella attuale, caratterizzata da una forte recessione mondiale e da una costante svalutazione del dollaro, si acutizza il conflitto fra chi, come la Germania, disponendo di un apparato produttivo altamente competitivo può realizzare cospicui extraprofitti dalle proprio esportazioni e nulla o poco ha da temere dalla concorrenza dei paesi extraeuropei quali la Cina o l’India anche con un euro forte e quei paesi, come l’Italia, che basando la loro competitività quasi esclusivamente sul basso costo del lavoro e/o sul maggior sfruttamento del proprio proletariato, risultano più esposti alla concorrenza dei paesi che vantano un costo medio del lavoro per unità di prodotto molto basso.
A quest’ultimi una svalutazione competitiva porterebbe sicuramente più vantaggi che ai primi. In un processo in divenire, ci pare del tutto logico che queste disparità diano luogo a tensioni interne di non poco conto come quelle che si sono manifestate nell’ultimo vertice Ue e di cui abbiamo diffusamente parlato in BC 7-8/2005. Peraltro non bisogna neppure dimenticare che il passaggio da un sistema di cambi fluttuanti, con il dollaro come punto di riferimento anche per gli scambi interni, a un sistema di cambi fissi, non poteva avvenire in modo indolore e non determinare contrasti d’interessi anche all’interno delle singole borghesia nazionali. L’esempio più eclatante di questo genere di contrasti ci è dato proprio dalla Gran Bretagna.
La rendita petrolifera proveniente dall’esportazione del petrolio del Mar del Nord e quella finanziaria ad essa connessa spingono la sterlina e settori importanti, oggi sicuramente maggioritari, della borghesia d’Oltremanica a rimanere fuori dall’area dell’euro e tra le braccia degli Usa, condividendo con essi l’interesse a esercitare un controllo diretto sul processo di formazione dei prezzi del petrolio.
Per altri versi, però, sia la previsione che già fra dieci anni, a causa dell’esaurirsi dei pozzi petroliferi del Mar del Nord, la Gran Bretagna per soddisfare i suoi bisogni energetici dovrà importare petrolio, sia perché il suo interscambio di merci e servizi ha come riferimento soprattutto l’area dell’euro, fanno sì che un consistente settore della borghesia britannica guardi con forte interesse verso l’euro e si preoccupi di evitare conflitti insanabili con la Ue, prevedendo la necessità da qui a non molto di dover entrare a sua volta nell’area dell’euro.
Da tutto ciò in sintesi si evince che: a) il processo di unificazione europea non può essere un processo lineare; b) che l’approdo all’euro non ha costituito il punto di arrivo del processo di unificazione, ma una delle condizioni fondamentali perché esso possa compiersi nel senso della costituzione, forse non tanto di un unico stato, ma almeno di un centro di comando unificato capace di dettare strategie economico - finanziarie e politico-militari comuni all’intera area, cioè forse non di un’unica realtà nazionale ma di un centro imperialistico compiuto capace di contrastare alla pari quello statunitense ed altri eventuali che dovessero ricomporsi sullo scenario internazionale.
A tutto ciò bisogna aggiungere che questo processo si svolge avendo per sfondo la più lunga crisi del ciclo di accumulazione che il capitalismo abbia mai conosciuto e a al suo interno una delle più gravi recessioni che si siano finora prodotte, tanto che mai, dalla chiusura della seconda guerra mondiale, il rischio di una deflagrazione dell’economia mondiale, che potrebbe travolgere tutto e tutti in una catastrofe economica e sociale di proporzioni ora inimma-ginabili, è apparso anche a osservatori borghesi così consistente.
I Referendum francese e olandese e la crisi della Unione europea
Date queste premesse, appare evidente che l’esito dei due referendum è più la conseguenza di una crisi che ha radici nelle contraddizioni stesse che hanno messo in moto il processo di unificazione che non, come fanno molti analisti, l’origine della crisi della Ue.
D’altra parte oggetto dei Referendum era l’approvazione di una nuova carta costituzionale e non l’adesione alla Ue e/o all’euro. Con ciò non si vuole certo sminuire il ruolo che potrebbe svolgere la carta costituzionale europea nel prosieguo del processo di unificazione, ma neppure sopravalutarlo. In realtà, a noi sembra che il No - ampiamente previsto - di questi referendum, e di quello fran-cese in particolare, peraltro indetti per ragioni di lotta politica ed elettorale interna, non rappresenti tanto il consolidarsi di una forte e radicata spinta anti-europeista, quanto, piuttosto, una combinazione di fattori quali la paura per un futuro già incerto ma che rischia di diventarlo ancora di più con l’allargamento verso Est e di un disagio economico crescente di ampi settori del proletariato e della piccola borghesia che alcune forze politiche nazionali - come la Lega Nord in Italia - strumentalizzano in funzione elettorale attribuendone la responsabilità all’introduzione della moneta unica.
Altresì va sottolineato che il No è stato anche il prodotto dell’impegno di forze, come per esempio quelle che si richiamano ad Attac, che pur non essendo di certo antieuropeiste, contestano le politiche neoliberiste che hanno caratterizzato finora la "nuova" Europa. Si tratta, cioè, di forze che se solo lo scontro fra Usa e Ue dovesse accennare a precipitare accorrerebbero in massa ad arruolarsi nell’"esercito europeo".
Il proletariato e gli strati sociali ad esso assi-milabili colpiti da un disagio economico che cresce di giorno in giorno, e privi come sono di un preciso riferimento politico sul tererreno dell’antica-pitalismo, hanno espresso nelle urne tutta la loro delusione e frustrazione.
Allo stato delle cose non ci sembra una forzatura affermare che se l’interesse prevalente della e nella borghesia europea resterà per un’Europa unita (vedi a tal proposito l’appello dei capi di stato di Italia, Portogallo, Austria Finlandia, Germania, Polonia e Lettonia apparso su tutti i maggiori quotidiani europei del 15-07 scorso) - come attualmente è - il processo di unificazione andrà avanti con o senza referendum.
Peraltro già oggi, soltanto un folle può immaginare che nel pieno di una crisi mondiale, isolandosi dal contesto continentale di appartenenza e abbandonando la sua moneta di riferimento, si possa affrontare meglio la tempesta senza cadere ineluttabilmente fra le spire del dollaro con il rischio, soprattutto per i più deboli, di fare la fine dell’Argentina.
È tanto vero ciò che in Italia, dove pure l’introduzione dell’euro si è tradotta in una forte crescita dell’inflazione reale, a richiederlo è sol-tanto la Lega Nord, una forza politica localistica e comunque con uno scarso peso politico a livello nazionale.
Il quadro è invece sicuramente più complesso dal punto di vista dei rapporti interimperialistici. È del tutto evidente che l’euro per gli Usa è come fumo negli occhi.
Per come è andato strutturandosi il loro potere imperialistico, agli Usa tutto è consentito tranne che restare inerti di fronte a un processo che possa concludersi con l’affermazione di una nuova moneta che possa sostituire e/o solo entrare in concorrenza con il dollaro, sia quale valuta di riserva internazionale sia quale mezzo di denominazione dei prezzi del petrolio e delle materie prime sui mercati internazionali.
L’economia Usa ormai non può più prescindere dalla rendita petrolifera e da quella finanziaria che il predominio del dollaro assicura ad essa. Non lo consente il loro gigantesco debito e non lo consente la loro altrettanto gigantesca spesa militare cioè i due pilastri su cui poggia il loro potere imperialistico.
Possono accettare un euro che si limiti a svolgere il ruolo di moneta d’area, ma un euro che si ponga come mezzo di pagamento internazionale in alternativa al dollaro è per loro quanto di più pericoloso possa esistere. D’altra parte, specularmene agli Usa, è evidente che l’area con il più potente apparato industriale del pianeta, che detiene la quota maggiore dell’import/export mondiale, e così fortemente dipendente dalle importazioni petrolifere, non può fare a meno di una valuta accettata internazionalmente almeno quanto il dollaro.
Il contrasto fra queste due monete e fra le aree che le esprimono ha per questa ragione valenza epocale e dal suo esito possono dipendere le sorti del mondo intero. In questo contesto, l’approvazione della nuova costituzione è al contempo necessaria, ma non determinante, nel senso che ciò che conta realmente nella lotta fra le due sponde dell’Atlantico è soprattutto la tenuta dell’euro.
Se l’euro resiste, nel senso che i vantaggi che derivano dall’adesione a esso continuano a superare gli svantaggi, il processo di unificazione europea è destinato ad andare avanti. Ma poiché - come abbiamo visto - l’euro non è figlio di un capriccio della politica ma la risposta a un problema che affonda le sue radici nelle contraddizioni generali del processo di accumulazione del capitale su scala mondiale, una sua disfatta non aprirebbe automaticamente le porte a un nuova indisturbata fase di dominio statunitense, ma avrebbe conseguenze di straordinaria portata.
L’Europa senza l’euro, cioè, non tornerebbe ad essere semplicemente quella di prima, ma verrebbe travolta da una crisi economico-finanziaria con conseguenze sull’intera economia mondiale che probabilmente potrebbero anche ac-celerare la nascita di nuove alleanze e la corsa verso la guerra. Più o meno generalizzata.
Da questo punto di vista, per certi versi, la vittoria del No e il successivo fallimento del vertice Ue, avendo fatto emergere senza ambiguità i contrasti interni all’Ue, potrebbe risultare una sorta di vittoria di Pirro degli Usa, nel senso che da questi contrasti, una volta emersi alla luce del sole e qualora fossero superati, il processo di unificazione potrebbe trarne nuova linfa e vigore.
Per formulare una qualsiasi anticipazione bisogna dunque valutare lo spessore di questi contrasti.
Oltre al nodo costituito dal diverso impatto che le quotazioni dell’euro hanno sulle economia dei diversi paesi aderenti. Gli ostacoli maggiori al processo di unificazione sono dati dal contrasto fra la Gran Bretagna e i paesi dell’area dell’euro e fra questi e quelli di più recente adesione, in particolare quelli dell’Est europeo. La stampa borghese ha messo in rilievo anche la possibilità di una frattura dell’asse Parigi/Berlino data, seppure di stretta la semi vittoria in Germania della Merkel più favorevole a un rapporto meno conflittuale con gli Usa.
Certo, tutto è possibile, ma tutta la storia più recente della Germania e del ruolo che essa ha avuto nel processo di unificazione europea dimostra che essa non può fare a meno dell’Europa almeno quanto l’Europa non può fare a meno della Germania (vedi a tale proposito l’intervista rilasciata al quotidiano italiano " La Repubblica" del 25 giugno 2005 dalla stessa signora Merkel).
Probabilmente, il processo di unificazione europea potrà perdere per strada qualche pedina, ma non la Germania e anche se il processo dovesse fallire è molto più probabile che Berli-no guarderebbe a Mosca con maggiore interesse e attenzione di quanto già non faccia oggi che non un suo rientro nei ranghi dei fedeli alleati di Washington.
I contrasti fra Parigi e Berlino sicuramente esistono, ma non ci sembrano più profondi di quelli che si evidenziarono quando furono fissati i rapporti di parità fra le vecchie valute nazionali e il nascente euro, per cui non c’è ragione per supporre che gli attuali contrasti non possano essere ricomposti sulla base di una mediazione che tenga conto del diverso impatto che le variazioni delle quotazioni dell’euro hanno sulle rispettive economie.
Per quanto riguarda l’Italia, al suo interno esistono sicuramente forze filo-statunitensi, ma non vi sono dubbi che l’orientamento prevalente all’interno della borghesia e di entrambi gli schieramenti politici è decisamente filo-europeo; se poi alle prossime elezioni, come allo stato delle cose appare quasi certo, dovesse vincere la colazione di centrosinistra guidata da quell’europeista convinto che è Prodi, gli spazi di cui si è avvalso il governo Berlusconi per una politica più sbilanciata a favore degli Usa si azzererebbero del tutto.
In verità, al la di là della propaganda di alcune forze politiche di maggioranza che mirano a scaricare sull’introduzione dell’euro la responsabilità della grave crisi che sta vivendo il paese anche a causa dell’insipienza delle politiche economiche governative, l’Italia è uno fra i paesi che più ha beneficiato dall’introduzione dell’euro e, infatti, deve solo a esso se, dati gli attuali livelli dei prezzi del petrolio e il suo gigantesco debito pubblico, non è andato incontro a una crisi valutaria almeno come quella del 1992, quando il governo in carica fu costretto a varare una manovra di ben 90 mila miliardi di vecchie lire.
In realtà il contrasto vero e di più difficile composizione è quello che si è delineato fra la Gran Bretagna e i paesi che hanno dato vita all’euro e in particolare fra la Gran Bretagna e la Francia.
Qui il rischio della rottura è davvero molto forte, perché se da un lato è vero che con l’esaurirsi del petrolio del Mare del Nord il quadro delle compatibilità macroeconomiche della Gran Bretagna è destinato a mutare radicalmente, nel breve e medio periodo la Gran Bretagna non può che proseguire nell’attuale politica mirata a determinare un tendenza costante al rialzo dei prezzi del petrolio e che perciò di fatto la induce ad allinearsi con gli Usa.
D’altra parte, senza le rendite petrolifera e finanziaria che ne derivano, e su cui ha impostato tutta sua la politica finanziaria e industriale degli ultimi trent’anni, la Gran Bretagna precipiterebbe in una crisi di immani proprozioni.
Seppure altrettanto stridenti sul piano delle relazioni diplomatiche, non pare abbiano però lo stesso spessore i contrasti che sono emersi nel corso degli ultimi anni con le new entry cioè i paesi dell’Europa dell’Est.
Come già è emerso nel corso dell’ultimo vertice Ue, infatti, è bastato che la Francia si opponesse alla Gran Bretagna sulla questione della suddivisione dei fondi strutturali perché si evidenziasse la contraddizione profonda che questi paesi stanno vivendo. Da un lato essi sono attratti dalla potenza militare Usa in funzione antirussa, ma dall’altro non possono minimamente immaginare un futuro economico meno difficoltoso del presente senza far parte della Ue e dell’area dell’euro.
Così, da un lato. è bastato che Bush facesse un cenno perché gli accordassero il loro appoggio e sostegno nella guerra contro l’Iraq, ma, dall’altro, che Chirac facesse la voce grossa contro Blair, che voleva ridurre la quota dei fondi da destinare all’agricoltura, perché si schierassero con lui come un sol uomo.
Anche in questo caso non ci sembra azzardato prevedere che nella maggior parte dei casi alla fine sarà la maggiore influenza economico-finanziaria che già oggi la Ue - e la Germania in modo particolare - esercita su questi paesi a fare da ago della bilancia.
L’esito dei referendum ha, invece, sicuramente dato maggior vigore alle forze che si oppongono all’ingresso della Turchia nella Ue e allo stato delle cose è difficile immaginare che il percorso di integrazione della Turchia possa non subire una pesante battuta d’arresto che potrebbe preludere perfino a un rinvio sine die dell’ingresso del paese della mezza luna nella Ue.
Ma oggi è difficile dire se a doversene dolere di più dovrà essere la Ue o gli Usa, benché si tratti di un paese che occupa una posizione geostrategica di straordinaria importanza.
Dal quadro che fin qui, seppure schematicamente, abbiamo tratteggiato, la crisi della Ue appare tutt’altro che irreversibile, ma soprattutto da esso si evince che essa non è tanto il frutto dell’emergere di nuovi e imprevisti ostacoli, ma la logica conseguenza di un passaggio decisivo e in quanto tale necessariamente anche selettivo. Come è facilmente prevedibile, il processo di unificazione, nella misura in cui punta a integrare oltre che mercati e valute anche politiche, governi ed eserciti, non potrà non produrre attriti e anche lacerazioni, ma per le ragioni che l’hanno determinato un ritorno al passato è impensabile e forse proprio in ciò sta quella sua forza propulsiva che gli ha consentito nel corso del tempo di venire sempre fuori dalle secche in cui di volta in volta è finito.
La storia - come sappiamo - la fanno gli uomini e i suoi approdi, per nostra fortuna, non sono predeterminati né dal fato né da un architetto, ma sono il prodotto dell’agire degli uomini che obbediscono anche a spinte irrazionali e dunque non prevedibili a priori.
Il progetto Europa, al pari di qualunque altro progetto dell’uomo, benché abbia una sua intima necessità storica, potrà anche fallire, ma in tal caso altri progetti ne prenderanno il posto. Forse meno ambiziosi, ma non per questo meno efficaci.
Le ragioni del contrasto che ora vede contrapposti dollaro ed euro continuerebbero infatti ad operare e ad alimentare conflitti e perciò anche il bisogno di costruire alleanze e mettere insieme forze diverse.
Se poi collochiamo il tutto sullo sfondo di una crisi che per durata e complessità nel suo modo di svilupparsi e manifestarsi non ha precedenti nella storia del capitalismo moderno, comprendiamo benissimo che finora abbiamo assistito solo al prologo di una messa in scena che potre-bbe diventare presto una vera tragedia per l’umanità, soprattutto se il proletariato non sarà stato capace di separare i suoi autonomi interessi di classe da quelli della borghesia, sia essa statunitense, europea, russa, cinese o giapponese, perché che prevalga l’una o l’altra o l’altra ancora, per questa nostra classe perdurando il capitalismo non potranno che esserci più miseria, più sofferenze e più guerre.
Giorgio Paolucci(1) A tale riguardo rinviamo i compagni che volessero approfondire gli aspetti tecnici di questa questione e le conseguenze che tale imposizione ha avuto sui processi di formazione e appropriazione della rendita finanziaria su scala internazionale all’articolo "L’euro della discordia" apparso sul n.15 - V serie di Prometeo
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