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Tratto da Revolutionary Perpsectives, la rivista della Cwo, n.31/2004
Negli ultimi 5 anni oltre un quarto dei 53 stati dell'Africa è stato scenario di conflitti armati. L'escalation di morte, disintegrazione sociale e sofferenza umana che ha avuto luogo è semplicemente sconcertante.
Il genocidio in Rwanda, la guerra civile nella Repubblica Democratica del Congo (si stima che, soltanto in RDC e nelle guerre correlate nella regione dei grandi laghi, siano contate 5 milioni di vittime,3 milioni delle quali nelle guerra civile in RDC). La guerra civile in Sudan ha causato 2 milioni di morti, la guerra in Angola mezzo milione e, se includiamo i conflitti minori come quelli in Somalia, Etiopia, Eritrea, Liberia, Sierra Leone, Costa d'Avorio, ecc., il numero di vittime delle ultime due decadi risulta equivalente all'intero numero delle vittime della Seconda Guerra Mondiale. Si stima che il numero di rifugiati nel continente sia ora di 14 milioni,88 milioni hanno urgente bisogno di aiuti alimentari e 340 milioni, o metà della popolazione del continente, vivono con meno di un dollaro al giorno. (1)
Il collasso economico dell'Africa sub-sahariana può essere riassunto nelle sole 3 statistiche seguenti.
- La prima è la sua diminuita importanza nel commercio mondiale. Mentre nella metà degli anni 1970 l'Africa contava per il 7% del commercio mondiale, entro la metà degli anni 1990 la percentuale era diminuita allo 0,5%.
- La seconda è il relativo collasso del flusso di investimenti verso il continente. Mentre nei primi anni 1970 esso aveva ricevuto il 30% del totale mondiale di investimenti diretti esteri (FDI), nella metà degli anni 1990 la quota era calata al 3%.
- La terza statistica è il debito dell'Africa verso le nazioni metropolitane, che è aumentato da 84 miliardi di dollari al momento dell'esplosione della crisi del debito nel 1982, fino a 300 miliardi di dollari nel 2002. L'Africa è ora in una posizione di peonaggio per debito, dato che il suo debito non può essere ripagato e aumenta inesorabilmente. Essa è diventata una esportatrice netta di capitali verso le nazioni metropolitane.
Il declino economico dell'Africa sarà considerato in maggiore dettaglio nel seguito, comunque questi pochi fatti sono sufficienti per individuare la causa sottostante alla guerra e alla barbarie che spazza il continente. Tuttavia, gli ultimi 18 mesi hanno portato una apparente esplosione di pace. Attraverso la pressione dell'imperialismo USA e l'intervento delle forze USA, in certi paesi, si è raggiunta una sorta di accordo di pace. Per esempio le guerre sono terminate in Etiopia/Eritrea, Angola, Repubblica Democratica del Congo e Sudan, mentre l'ordine è stato riportato in Liberia, Sierra Leone e Costa d'Avorio. Questi accordi di pace significano forse che si è verificata una svolta e che l'Africa può emergere dal periodo buio delle ultime due decadi? Oppure questi eventi sono semplicemente una sospensione temporanea dello scivolamento verso il collasso economico e la barbarie? Per rispondere a queste questioni è necessario capire le cause materiali della attuale catastrofe e la posizione dell'Africa nella struttura del capitalismo mondiale. Andremo a considerare ciò brevemente in quel che segue.
L'Africa sotto il tallone dell'imperialismo
Dopo la fine della seconda guerra mondiale gli USA insistevano affinché gli imperi europei fossero demoliti così che tutte queste aree si potessero aprire ai capitali USA.
Al momento dell'indipendenza, che è stata concessa negli anni 1950 e 1960, la borghesia locale nelle nazioni colonizzate era estremamente debole o inesistente. In queste circostanze le élite, che si sono trovate alla guida delle nuove nazioni indipendenti, hanno adottato politiche di capitalismo di stato. Lo stato eseguiva nazionalizzazioni e agiva come strumento essenziale nell'accumulazione del capitale.
Per gran parte dell'Africa questo poteva essere raggiunto solo con la forza dell'esercito. Come scrivevamo negli anni 1970: La cronica arretratezza dell'economia dell'area africana richiede il controllo più stretto e gli sforzi diretti dello stato verso l'accumulazione. All'interno di questa ossatura c'è meno spazio per le pretese della borghesia democratica e la forza militare è la forma più adatta. (2)
La necessità di sorvegliare la vita economica dello stato ha portato la classe dirigente di certi paesi a gravitare attorno al blocco russo e cercare la sua assistenza nello sviluppo di una economia a capitalismo di stato. Ma ciò rappresentava una minaccia al capitale statunitense, una minaccia che potenzialmente minava le "sacri basi sulle quali gli USA avevano obbligato gli europei a concedere l'indipendenza". Questo ha prodotto una determinata reazione degli USA che, con la dottrina Truman del 1947, si opponevano ad ogni spostamento degli stati africani verso il blocco russo. Questa opposizione poteva manifestarsi nell'intervento diretto per rovesciare alcuni regimi, come la rimozione del regime di Lumumba in Congo, o nell'organizzazione di colpi di stato militari, come quello che ha portato Mobutu al potere in Zaire. Per mezzo di queste pressioni, la maggior parte degli stati africani è rimasta dominata dal capitale delle precedenti potenze coloniali, assieme al capitale statunitense. Le infrastrutture, le utility e certe industrie sono rimaste in mano allo stato, mentre una vasta burocrazia supervisionava e regolava l'economia. In questo periodo il capitale straniero era felice di vedere il rafforzamento degli stati nazionali, anche se questo implicava un'enorme corruzione e sprechi.
La crisi dei primi anni 1970 doveva drammaticamente rovesciare tutto questo.
La rottura degli accordi di Bretton Woods, che avevano sostenuto la ricostruzione globale successiva alla Seconda Guerra Mondiale garantendo la stabilità delle monete con il dollaro convertibile in oro, ha prodotto un netto indebolimento del blocco occidentale. Le monete hanno cominciato a fluttuare reciprocamente, una massiccia inflazione monetaria è seguita e i prezzi dei beni sono saliti. L'inflazione degli anni 1970 e il drammatico aumento dei prezzi dell'energia hanno portato l'Africa a un vasto indebitamento nei confronti delle nazioni metropolitane. Questo indebitamento, legato al riciclaggio di petrodollari, è stato incoraggiato all'epoca dai governanti del blocco occidentale, in particolare dalle loro agenzie come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, come strumento per impedire agli stati della periferia di cadere nel blocco russo.
Per il capitalismo nel suo complesso gli anni 1970 hanno rappresentato un punto di svolta. Il collasso del sistema di Bretton Woods era una chiara indicazione che il ciclo di accumulazione successivo alla Seconda Guerra Mondiale era entrato in crisi e il sistema capitalista era in impasse. Come abbiamo altre volte scritto (3), questa impasse, che era causata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto e che si esprimeva nelle crisi del sistema finanziario internazionale, ha provocato un evidente cambiamento di strategia.
Gradualmente le linee guida della nuova strategia emergevano sotto le insegne della globalizzazione. Per gli stati metropolitani questo significava ristrutturazione della produzione, svalutazione e internazionalizzazione del capitale ottenuto dagli stati attraverso le privatizzazioni, spostamento di capitali verso regioni con forza lavoro più a buon mercato e una nuova divisione internazionale del lavoro.
Mentre durante la ricostruzione post-bellica la forza motrice dell'economia internazionale era la produzione industriale e il commercio, nel nuovo periodo era l'esportazione di capitale finanziario. Sotto molti punti di vista questo era un ritorno alla situazione che esisteva prima della Prima Guerra Mondiale descritta da Lenin ne "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo". Durante il periodo tra il 1980 e il 1997 il flusso globale di Investimenti Diretti Esteri (IDE) è cresciuto ad un tasso annuale del 14% mentre la crescita delle esportazioni mondiali è cresciuta ad un tasso del 7%. (4) Nello stesso periodo la quantità di IDE è cresciuta da 700 miliardi a 7100 miliardi di dollari, le relazioni capitalistiche internazionali si sono approfondite e flussi enormi di capitali sono andati nelle aree periferiche del mondo, soprattutto il sud-est asiatico e il Sud America. Si stima che la dimensione reale del proletariato mondiale sia raddoppiata a partire dagli anni 1970. (5)
Mentre la forza lavoro, sempre più abbondante e meno costosa, veniva impoverita nel rapporto capitale-lavoro, la caduta del saggio medio del profitto, che ha raggiunto il suo culmine negli anni 1970, è stata controllata e il sistema ha guadagnato l'ossigeno di cui aveva bisogno per sopravvivere. La massa di profitto è anche aumentata enormemente. Nel 1983, per la prima volta in assoluto, il flusso di capitale in uscita dagli stati periferici ha superato il flusso di capitale in entrata. Si stima che gli stati periferici paghino agli stati centrali o metropolitani approssimativamente 160 miliardi di dollari l'anno. È stato calcolato che nel periodo dal 1980 al 1986 solo i rimborsi totali, compresi profitti e interessi, dagli stati periferici a quelli metropolitani ammontavano a 250 miliardi di dollari che, tenendo conto dell'inflazione, è quattro volte l'ammontare destinato dagli Stati Uniti all'Europa con il Piano Marshall, immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale! La globalizzazione, come strategia, ha avuto uno straordinario successo nello spostare il fardello della crisi dagli stati del centro del capitalismo a quelli della periferia.
L'Africa ha tratto scarso beneficio dai flussi di IDE, che sono andati per lo più verso l'Asia del Sud-Est e l'America del Sud. La quota dell'Africa nel totale degli IDE è oggi un decimo di quella dei primi anni 1970. Similmente, durante il periodo che va dai primi anni 1970 fino alla fine degli anni 1990, la quota dell'Africa nella produzione industriale mondiale è calata dall'1,2% allo 0,4%, la sua quota sul commercio mondiale totale dal 7% allo 0,5% e il reddito pro capite è diminuito del 30%. (6)
La crisi debitoria dei primi anni 1980 ha permesso al capitale internazionale, attraverso le agenzie della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, del Club di Parigi dei paesi creditori, di tenere in una stretta mortale la maggior parte dei paesi sub-sahariani. Durante i primi anni 1980 gli stati africani sono stati obbligati a rinegoziare i loro debiti a tassi di interesse variabile e ad accettare i cosiddetti Piani di Aggiustamento Strutturale (PAS) come condizione per la concessione di ulteriori prestiti. Questi piani, che sono stati applicati ai due terzi di tutti i paesi sub-sahariani, consistono di quattro elementi principali:
- Liberalizzazione - tesa a promuovere il libero movimento di capitali e aprire il mercato nazionale alla concorrenza; questo spesso implica una svalutazione della moneta.
- Privatizzazione - tutte le proprietà statali, i beni e i servizi pubblici vengono venduti.
- Deregolamentazione - i prezzi vengono lasciati aumentare mentre i sussidi vengono ritirati, dal cibo all'energia; i salari diventano "flessibili" e gli aiuti statali vengono cancellati.
- Espansione delle esportazioni - che invariabilmente implica la produzione di prodotti agricoli destinati al mercato, al posto dell'agricoltura di sussistenza, e l'aumento nell'esportazione di materie prime, tutto in funzione del pagamento del debito.
Queste misure, che sono state applicate anche in paesi non toccati dai piani imposti dal Fondo Monetario Internazionale, hanno prodotto un profondo indebolimento della maggior parte degli stati sub-sahariani. Lo strumento che era precedentemente servito come motore dell'accumulazione di capitale e dello sviluppo nazionale è stato fatto a pezzi e le economie a capitalismo di stato, costruite nel periodo post-bellico, sono state frantumate.
Questi paesi sono stati economicamente e politicamente distrutti delle forze del capitale internazionale. Tutte le pretese di sviluppo nazionale sono state dunque abbandonate e invece questi stati fungono da locali ingranaggi del meccanismo attraverso il quale il capitale viene trasferito dall'Africa ai paesi metropolitani.
La concentrazione sui prodotti agricoli destinati al mercato o sulle esportazioni di beni e materie prime ha portato ad una immediata caduta dei loro prezzi, producendo per gli stati africani un netto declino in termini di commercio. Il significato delle privatizzazioni, insieme alla svalutazione della moneta, è stato un generale trasferimento delle proprietà statali profittevoli ai capitalisti dei paesi metropolitani, mentre la deregolamentazione del mercato del lavoro ha prodotto una riserva di disoccupati pronti a lavorare per salari da fame. Tutti questi sviluppi sono stati di grande beneficio per il capitale nei paesi metropolitani. Le corporation trans-nazionali, i cui interessi sono espressi dalla Banca Mondiale e dal FMI, hanno tratto beneficio dalla caduta dei prezzi dei beni prodotti nei paesi della periferia. Esse hanno anche tratto profitto dalle privatizzazioni, che hanno permesso loro di espandere le loro attività in nuove regioni e in nuovi settori, in particolare nel campo delle telecomunicazioni e dei beni e servizi pubblici, mentre la deregolamentazione ha prodotto un'ampia disponibilità di forza lavoro a basso costo.
Per gli stati africani questi cambiamenti sono stati disastrosi. Certi paesi sono letteralmente implosi e precipitati nella guerra civile, nell'anarchia, sotto il dominio dei signori della guerra e della barbarie. Somalia, Rwanda, Sierra Leone, Liberia sono alcuni recenti esempi di questo. Altri che hanno avuto più successo nel soddisfare le domande del nuovo ordine hanno visto il massiccio impoverimento delle proprie popolazioni, dissesto dei servizi, e dislocazione sociale. Tutte queste cose pongono le basi per guerra e disintegrazione. Alcune brevi descrizioni illustreranno ciò che è successo.
In Rwanda i PAS del 1990 hanno portato all'aumento massiccio della povertà, in particolare tra i contadini rurali Hutu, contribuendo quindi a fomentare il genocidio del 1994.
In Sudan l'abolizione del controllo dei prezzi, durante i PAS del 1990, ha causato una loro impennata. L'inflazione è aumentata dal 67% del 1990 al 130% del 1996. La privatizzazione dei servizi ha provocato un aumento dei prezzi di elettricità, educazione e sanità e una caduta drammatica degli standard di vita dei lavoratori. Il salario minimo ora copre solo il 25% del costo della vita. I salari dei dipendenti pubblici, come gli insegnanti, non vengono pagati per 6 mesi e molti lavoratori devono cercare un secondo lavoro.
In Mozambico lo stato è stato praticamente distrutto dalla pressione della guerra civile e dal collasso economico. La privatizzazione ha avuto luogo nel settore bancario, cotoniero, agricolo, sanitario e scolastico. I porti di Maputo e Biera sono stati privatizzati e un consorzio europeo di capitalisti ora ha una concessione di 15 anni per svilupparli e tenerli in attività. Nel corso delle privatizzazioni,37 mila lavoratori sono stati licenziati. Il Mozambico è ora uno dei paesi più poveri del mondo.
In Zimbabwe, che era uno degli stati più ricchi d'Africa, i programmi del FMI hanno causato un tale incremento del debito nazionale che è ora pari al 100% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Lo Zimbabwe ha scelto di sfidare il FMI a metà degli anni 1990 e nel 1995 i finanziamenti sono stati sospesi. Quello che è seguito è una indicazione di quello che succede ai paesi che rifiutano di sottomettersi ai loro programmi. Il PIL reale è sceso del 37% dal 1998 e il reddito medio è uguale a quello del 1960. I tassi di interesse sono del 95% e l'inflazione è al 700%. La disoccupazione è oltre il 60% e c'è una cronica mancanza di cibo, elettricità, carburante e di valuta estera. Il paese è alle soglie di una guerra civile.
In Uganda, il solo paese dove il FMI sbandiera un successo, nonostante qualche segnale di crescita, severe privazioni sono imposte alla classe lavoratrice urbana e rurale. L'occupazione formale è diminuita fino al solo 14% della popolazione economicamente attiva. Metà dei dipendenti pubblici,170 mila lavoratori, sono stati licenziati. Le infrastrutture sanitarie pubbliche ora mancano di attrezzature e medicinali. Il capitale locale di piccole dimensioni è collassato.
Nella Repubblica Democratica del Congo, il regime di Mobutu ha reagito alla crisi economica tagliando le spese statali e licenziando lavoratori. Nel 1995, l'anno prima dell'inizio della guerra,300 mila dipendenti pubblici sono stati licenziati. Questo ha contribuito all'inizio della guerra.
Queste statistiche mostrano che la causa fondamentale del collasso, della disintegrazione sociale e della guerra che devasta l'Africa è la crisi del sistema capitalista stesso. In particolare è la posizione strutturale che l'Africa occupa nella struttura internazionale del capitalismo e la gestione dell'Africa da parte di banche e capitale finanziario che sta rendendo la situazione peggiore che in altre regioni del mondo.
Contenere il collasso
Le classi capitaliste che governano gli USA e l'Europa non hanno avuto, naturalmente, nessun interesse da trarre dal collasso degli stati africani. Tale collasso ha impedito il pagamento del debito e ha minato le forniture di materie prime. Inoltre il collasso degli stati può fornire una opportunità ai nemici degli USA, quelli che gli USA chiamano terroristi, di organizzarsi in quei territori e lanciare da lì attacchi contro di essi. Da una parte il capitale ha bisogno di continuare lo sfruttamento selvaggio dell'Africa sub-sahariana, ma d'altra parte esso non desidera che questo sfruttamento distrugga le strutture che lo consentono. Gli USA e l'Europa hanno perciò provato a contenere questa situazione attraverso misure come l'azzeramento del debito per gli stati in bancarotta, l'intervento militare, varie minacce di guerra e pressioni esercitate in favore della pacificazione. Ma queste sono politiche che contengono gli effetti della crisi, piuttosto che tentativi di risolverla.
Generalmente si ritiene che l'iniziativa dei Paesi Poveri Altamente Indebitati (PPAI) porterà alla cancellazione dei debiti. Dei 42 stati che sono classificati come PPAI,33 sono nell'area sub-sahariana. Ma questo programma sta fallendo, visto che le condizioni imposte ai paesi che accettano la cancellazione del debito sono tanto terribili quanto il debito stesso. Queste condizioni sono una variazione di quelle dei PAS e assicureranno che questi paesi resteranno in povertà.
Finora solo 6 paesi nel mondo hanno accettato di veder cancellati i loro debiti in questi termini. Il fatto che ci siano stati così pochi progressi sulla cancellazione del debito non dovrebbe sorprenderci, dal momento che la classe capitalista ha sempre voluto e sempre vuole che i debiti siano ripagati, e con gli interessi.
Un ulteriore strumento per contenere la disintegrazione degli stati africani è l'intervento diretto e l'occupazione militare. Stiamo assistendo in questi giorni al nuovo invio di truppe dai paesi ex-coloniali nelle vecchie colonie, come hanno fatto la Gran Bretagna e la Francia in Sierra Leone e in Costa d'Avorio. Similmente gli USA hanno inviato le loro truppe in Liberia, lo stato fondato de ex-schiavi degli USA. Allo stesso tempo, gli USA stanno sponsorizzando la tregua nelle principali guerre del continente.
Tuttavia, la cancellazione del debito e l'intervento militare non indicano un cambiamento nel cuore della classe capitalista metropolitana. Basta solo confrontare la reazione degli USA e dell'Europa alle crisi nei Balcani o in Iraq con le loro reazioni al genocidio in Rwanda, o all'orribile macello nella Repubblica Democratica del Congo, per capire quanto l'Africa sia marginale nel quadro dei loro interessi. Non è nemmeno possibile dire che questi eventi indichino un arresto nello scivolamento dell'Africa verso il collasso economico e la barbarie.
Rinascimento africano?
Gran parte della classe dirigente Africana capisce la situazione senza speranza in cui l'Africa si trova e sogna di un rinascimento africano fuori dalla stretta della Banca Mondiale e del FMI. Nel 2001 l'Organizzazione dell'Unità Africana, che ha poi cambiato nome in Unione Africana (AU), ha autorizzato Algeria, Egitto, Nigeria, Senegal e Sud Africa a formare la Nuova Partnership per lo Sviluppo dell'Africa (Nepad). Questo è diventato il programma di sviluppo della AU. La partnership intende raggiungere una crescita africana del 7% e calcola che annualmente ci vorranno 64 miliardi di dollari. Questi devono essere investiti in progetti di vasta scala nell'energia, nelle infrastrutture e nelle telecomunicazioni che, si spera, getteranno le basi per il ringiovanimento delle economie africane.
La natura esageratamente irrealistica di questo piano è evidente quando scopriamo che il grosso del capitale necessario deve arrivare dai paesi del G7 nella forma di IDE. La situazione attuale degli IDE verso l'Africa è di 3,8 miliardi di dollari. Ci si aspetta che i centri della finanza e i capitali bancari, che al momento attuale tengono l'Africa in una stretta mortale, si comportino in maniera filantropica per sostenere lo sviluppo africano! Come mai la NEPAD ritiene che essi dovrebbero cambiare i propri sentimenti? Perché, sostiene la Nepad, gli stati africani offriranno buone opportunità di investimento, basse tasse sui profitti, pace, stabilità, democrazia, buon governo e tanto altro. Il capitale sarà investito in Africa solo quando ai capitalisti verrà assicurato un tasso di profitto paragonabile a quello del sud-est asiatico o del Sud America. La Nepad è abbastanza incapace di offrire ciò, proprio come la AU è incapace di garantire pace e stabilità in tutta l'Africa. Dal momento che la Nepad è stata fondata, le condizioni di investimento si sono deteriorate, piuttosto che migliorate.
Eventi recenti come i tentativi di pace nella Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Liberia, Sierra Leone, ecc. mostrano che la sola forza capace di qualcosa è quella dell'imperialismo USA. Questo innanzitutto avviene perché dietro alle guerre ci sono proprio USA ed Europa. Sezioni del capitale di USA ed Europa hanno beneficiato di quasi tutte le guerre in Africa attraverso l'acquisto dai guerriglieri di materie prime a basso costo, cioè diamanti, cobalto, coltan, ecc., e attraverso la contemporanea vendita a loro di armi. L'interesse degli USA in Africa è principalmente rivolto alle sue materie prime, sebbene essi abbiano anche un interesse strategico a escludere i loro rivali europei, in particolare la Francia, dall'accesso a queste risorse. L'interesse più pressante che gli USA hanno in Africa al momento è di mettere le mani sul petrolio africano.
Sfruttare il petrolio dell'Africa
C'è un settore in cui il continente africano sta ricevendo investimenti ed è il settore del petrolio. Nel 2003 due compagnie petrolifere statunitensi, la Exxon-Mobil e la Chevron-Texaco, assieme agli operatori Amerada Hess and Marathon e Ocean Energy, hanno investito 10 miliardi di dollari nel petrolio africano (8). È la politica statunitense di cercare fonti alternative a quelle del Medio Oriente, in particolare dell'Arabia Saudita, che sta dietro alla strategia degli USA di mettere le mani sul petrolio africano. Questa, a sua volta, è la ragione che sta dietro ai tentativi degli USA di porre fine ad alcune guerre in Africa. Il Sudan, dove le concessioni petrolifere sono in un'area contesa, è un esempio ovvio di ciò. Walter Kansteiner, il sottosegretario di stato USA per gli affari africani, ha riconosciuto senza mezzi termini quali siano gli interessi del suo paese quando ha affermato:
Il petrolio africano è diventato interesse strategico nazionale. (9)
Il viaggio in Africa del Presidente Bush, nel luglio 2003, serviva a gettare le basi per un nuovo impegno delle compagnie petrolifere americane in Africa, ed è stato seguito a Settembre da un incontro a Washington con i capi di stato di 10 paesi del Golfo della Guinea, dove si trovano i depositi di petrolio più promettenti.
Le riserve petrolifere totali dell'Africa, che ammontano a 80 miliardi di barili, ossia l'8% del totale mondiale, sono piccole se comparate alle risorse del Medio Oriente. Per esempio, il solo Iraq possiede riserve per 112,5 miliardi di barili. Attualmente gli USA, che importano il 55% del petrolio, prendono 1,3 milioni di barili al giorno, ossia il 16% delle loro importazioni, dall'Africa; ma stanno pianificando di aumentare questo valore a 2,1 milioni di barili, ossia il 25%, entro il 2015. Il petrolio africano ha tre vantaggi principali per gli stati Uniti, che sono:
- I produttori di petrolio africano, con l'eccezione della Nigeria, sono tutti al di fuori dell'Opec e non bloccherebbero le forniture durante una crisi.
- Molto del petrolio africano è offshore, nel Golfo di Guinea, e potrebbe essere protetto dalla marina americana se necessario.
- Il petrolio stesso contiene poco zolfo, e così è più economico da raffinare di quello mediorientale. Esso è anche più vicino alle raffinerie della costa orientale degli USA.
Le compagnie petrolifere americane stanno perlustrando l'Africa alla ricerca di nuovi giacimenti di petrolio e si stima che la produzione africana di petrolio potrebbe aumentare del 70% nei prossimi 5 anni. L'investimento maggiore sarà nella zona offshore, in particolare nelle acque di Nigeria, Gabon, Angola e isola di Sao Tome & Principe. Questa, che in precedenza era uno dei paesi più poveri della Terra, ha recentemente venduto concessioni petrolifere alla Chevron per un valore 50 volte superiore ai guadagni annuali per le esportazioni. Comunque, l'investimento non è affatto limitato alle riserve offshore, come ha mostrato il recente completamento di una pipeline di 1000 km, che collega il bacino petrolifero del Ciad all'Atlantico, attraverso il Camerun. Questa pipeline trasporterà 250 mila barili al giorno. In aggiunta ai paesi summenzionati, le compagnie statunitensi sono attive in Guinea Equatoriale, Congo Brazzaville e Sudan.
Gli USA si stanno anche preparando a proteggere i loro nuovi interessi petroliferi in Africa con la forza e stanno negoziando con l'isola-stato di Sao Tome & Principe, che è strategicamente posizionata al centro del Golfo, l'installazione di una base navale e di un centro di comando regionale.
Tutto questo sviluppo attorno al petrolio darà poco conforto agli africani indigenti. Le lotte della povera gente della Nigeria o dell'Angola, che vive proprio nelle aree dove si estrae il petrolio, per ottenere anche una piccola parte della ricchezza del petrolio per soddisfare i bisogni dei loro villaggi, sono una conferma di ciò. Una parte della ricchezza andrà, naturalmente, all'élite politica e ai loro servitori prezzolati, ma la maggior parte andrà alle compagnie petrolifere internazionali e ai capitalisti della finanza che stanno dietro di loro. Ciò che questo illustra, come abbiamo detto in pubblicazioni precedenti (10), è che lo sviluppo dell'Africa è determinato non dai bisogni della sua gente e neanche da quelli della sua classe dirigente, ma dai bisogni dell'imperialismo.
Come è successo nel Medio Oriente, la nuova avanzata degli USA è avvenuta a spese dei loro rivali, in particolare la Francia. Nonostante i tentativi della Francia di mantenere le posizioni nella regione dell'Africa centrale e l'aver ospitato una conferenza per lo sviluppo africano, gli USA hanno fatto pressione su molti dei paesi produttori di petrolio affinché concedessero alle proprie compagnie condizioni favorevoli. Durante la recente asta per le concessioni in Sao Tomé & Principe, per esempio, alla Exxon erano stati offerti diritti di offerta preferenziali. Questa rivalità indica ancora la crescente concorrenza imperialista in questa regione, che si è già espressa nelle guerre combattute nella regione dei Grandi Laghi. Tale rivalità, a sua volta, fornisce il terreno per la continuazione di guerre per procura nelle regioni dove il dominio USA è in discussione. Questo è un ulteriore indicatore della natura illusoria delle mosse attuali verso la pace nella regione.
Liberazione nazionale in Africa
Abbiamo visto che la causa fondamentale del collasso delle economie e degli stati africani, assieme alle guerre e alle barbarie che accompagnano questo collasso, è il funzionamento del capitalismo stesso. La disintegrazione sociale che inghiotte così tanti stati africani non è il risultato di rivalità tribali, arretratezza africana, confini coloniali arbitrari o delle altre spiegazioni superficiali serviteci dai commentatori della borghesia; essa è piuttosto una espressione della natura perversa e contraddittoria del sistema di produzione capitalista stesso. Le atrocità barbare nell'Africa di oggi esprimono la reale natura del capitalismo e servono come terribile avvertimento di quello che il resto del mondo deve aspettarsi.
Oggi, non ci può essere alcun discorso di liberazione nazionale o di sviluppo nazionale per l'Africa. Mai, dal periodo del colonialismo in poi, l'Africa è stata più dominata di ora dai centri imperialisti. Mai ha avuto meno capacità di sviluppare le sue risorse. Mai è stata meno libera. Le borghesie nazionali africane hanno abbandonato la loro partita con la borghesia dei paesi metropolitani, e la loro unica speranza è quella di diventare agenti del capitale internazionale. Nessuno fa più cenno alla liberazione nazionale dell'Africa. Il meglio che l'Unione Africana possa immaginare è una partnership con i capitalisti del G7 dalla quale essi possano trarre qualche briciola. L'idea di liberazione nazionale è una curiosità, un souvenir dal periodo post-bellico, quando il mondo era dominato da due blocchi imperialisti, e quando le nazioni della periferia avevano la possibilità di modificare le loro alleanze spostandosi dal blocco degli USA a quello russo o viceversa. Oggi il dominio è così completo e il fardello posto sull'Africa è così grave, che la reale questione per la borghesia è se le relazioni attuali tra l'Africa e i centri capitalisti di Nord America, Europa e Giappone siano nei fatti sostenibili.
L'esportazione di capitali alle nazioni metropolitane potrà essere sostenuta man mano che avanzano il declino e la marginalizzazione dell'Africa? La conseguente decomposizione potrà continuare nel lungo termine senza coinvolgere le nazioni del centro del sistema? Anche da un esame superficiale della situazione risulta chiaro che le relazioni attuali non sono sostenibili nel lungo termine. L'attuale contenimento attraverso l'intervento militare limitato e i sussidi di carità è una contromisura di breve periodo. L'intervento militare più diretto dai paesi metropolitani sembra probabile in futuro. Questo rappresenterà un ulteriore passo nel riportare i problemi dell'Africa nei centri del capitalismo.
La tesi sostenuta da stalinisti, trotskisti e loro seguaci che la liberazione nazionale indebolisca l'imperialismo non è mai stata più ridicola. Come è stato mostrato sopra, lo sviluppo nazionale è oggi determinato dai bisogni dell'imperialismo e non dalla borghesia nazionale. Infatti il processo a cui stiamo assistendo sta minando l'intera costruzione della solidarietà nazionale stessa. Lo stato nazionale diventa una succursale nella struttura globale di trasferimento di plusvalore verso i paesi centrali del capitalismo, così la base della fedeltà nazionale viene a mancare. Nel momento in cui la stessa produzione viene divisa tra diversi paesi e diversi continenti, i concetti di produzione nazionale e sviluppo nazionale perdono significato.
Il principale argomento politico che gli stalinisti e i trotskisti sostenevano per giustificare l'appoggio della classe operaia alle lotte di liberazione nazionale, e cioè che sviluppando le forze produttive la borghesia nazionale avrebbe sviluppato la forza e l'unità della classe operaia, si è dimostrato un analogo nonsenso. Il movimento della sinistra comunista si è opposto a questa posizione fin dagli anni 1920 e ha argomentato che la classe operaia non avrebbe dovuto sostenere alcuna fazione borghese, ma al contrario combatterne gli interessi. L'attuale situazione è una conferma della nostra posizione. Attraverso il sostegno alle borghesie nazionali la classe operaia africana è rimasta confusa e disarmata di fronte agli attacchi portati proprio da quella borghesia nazionale che essa stessa aveva sostenuto.
Se la classe avesse rifiutato di dare il proprio appoggio alla borghesia nazionale e avesse difeso i propri autonomi interessi dal principio alla fine, essa ora sarebbe in una posizione più forte e meglio in grado di resistere ai massicci licenziamenti, alla disoccupazione e all'impoverimento che sta soffrendo per mano della sua stessa borghesia. Il ruolo della borghesia indigena di difensore delle necessità della finanza metropolitana e del capitale bancario è meno trasparente a causa dell'appoggio che i lavoratori le hanno dato in precedenza.
Il solo raggio di speranza nell'attuale cupa situazione è che le forze del capitalismo mondiale stiano indebolendo gli stati nazionali e stiano riunendo il mondo in un sistema di produzione globale. Questo sta minando le illusioni del nazionalismo e ponendo le fondamenta materiali per una maggiore unità della classe lavoratrice.
Il bisogno di comunismo
L'unica soluzione concreta ai problemi dell'Africa è eliminare la radice di tutti questi problemi, che è il sistema di produzione capitalista. Questa è la causa sottostante a quel che c'è di sbagliato, non solo in Africa, ma in tutto il mondo. Il capitalismo è un sistema dominato dalla crisi e i costi globali per il suo mantenimento sono enormi. Sono le contraddizioni del sistema che conducono all'imperialismo, che a sua volta conduce alla guerra.
La natura del capitalismo può essere capita dal suo ciclo vitale, che si muove dalla guerra generalizzata, nella quale i capitali sono distrutti e svalutati, verso la ricostruzione, la crisi e poi nuovamente verso la guerra. Sebbene la guerra generalizzata, come le due guerre mondiali del secolo scorso, dia al sistema l'ossigeno di cui esso ha bisogno per ripartire, gli stessi problemi fondamentali riappaiono sempre.
Sebbene la crisi dell'attuale ciclo di accumulazione sia cominciata nei primi anni 1970, questa volta i nostri governanti sono riusciti a deviare i suoi effetti peggiori sulle aree periferiche e rafforzare le strutture imperialiste che tengono questi paesi al loro posto. I tremendi costi per mantenere il sistema si vedono soprattutto nei paesi della periferia, dove la classe lavoratrice sta pagando un prezzo terribile. A meno che il sistema non venga superato, lo sfruttamento selvaggio e la violenza che vediamo in Africa arriverà anche negli stati centrali. Già certi settori della classe operaia nei paesi metropolitani stanno sprofondando in condizioni che in precedenza si pensava esistessero solo nella periferia. Le condizioni dei paesi della periferia del capitalismo si stanno ora diffondendo anche nei paesi metropolitani. È presumibile un ulteriore massiccio deterioramento delle condizioni di vita nei paesi centrali, dato che il prezzo della forza lavoro tende a livellarsi.
Il sistema di produzione capitalista ha bisogno di essere sostituito da un sistema socialmente più progredito, dove la produzione sarà per i bisogni umani invece che per il profitto, dove la scarsità possa essere abolita e lo sviluppo della società pianificato. Questa società abolirà le classi sociali e le divisioni borghesi come gli stati nazionali. Gli strumenti della produzione saranno globalmente socializzati e messi al lavoro a vantaggio della società umana nel complesso. Noi chiamiamo questo sistema comunismo. Tuttavia, esso non ha niente in comune con quello che esisteva in Russia, Cina, Cuba e da qualsiasi altra parte. Questi sistemi erano sempre esempi di capitalismo, dove il capitale era posseduto dallo stato, o più esattamente una forma di capitalismo di stato.
Un tale nuovo ordine sociale può essere creato solo dai lavoratori del mondo. Ma prima che questo possa cominciare a succedere, i lavoratori hanno bisogno di prendere coscienza dei loro comuni interessi e del bisogno di una nuova società. I lavoratori hanno anche bisogno di dotarsi degli strumenti politici per eseguire questo compito, in particolare il partito comunista internazionale. La CWO è una sezione del Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR) che esiste per dare vita a questo partito. Chiamiamo tutti quelli che concordano con ciò che è stato detto sopra a contattarci per sostenere l'enorme compito che ci aspetta di rilanciare il programma comunista e creare il partito internazionale che combatta per la sua realizzazione.
CP(1) Vedi Comitato USA per i Rifugiati, refugees.org .
(2) Stima del NEPAD.
(3) Vedi RP 6 (vecchia serie), Capitalism in Black Africa.
(4) Stima del UNCTAD.
(5) Vedi D. Coates, Models of capitalism growth or stagnation in the modern era. Citato in Globalisation and the post colonial world, Ankie Hoogvelt.
(6) I flussi di capitale includono prestiti, pagamento dei prestiti, interessi sui prestiti, IDE e investimenti di portafoglio. Non comprendono il rimpatrio dei profitti sugli IDE.
(7) Vedi Labour Resource and Research Institute, larri.com .
(8) Riportato in Le Monde Diplomatique, gennaio 2003.
(9) Conferenza IASP,25/01/02. Citato in Le Monde Diplomatique, gennaio 2003.
(10) Vedi RP 14, "National Liberation in Africa".
Prometeo
Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
Prometeo #11
VI Serie - Giugno 2005
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