Le guerre che ci aspettano secondo un gruppo di docenti universitari

Tra gennaio e marzo 2002 si è svolto a Torino un seminario intitolato Le guerre del XXI secolo, organizzato da Historia Magistra - Associazione Culturale per il Diritto alla Storia, con la collaborazione e il patrocinio del Dipartimento di Studi Politici dell'Università di Torino.

Nell'aprile di quest'anno gli interventi dei relatori sono stati raccolti in un volume collettivo edito da Carocci (300 pagine,19,90 euro) col titolo di Guerre Globali - capire i conflitti del XXI secolo.

Tranne Luca Rastello, che è un giornalista, tutti gli altri diciassette relatori sono insegnanti universitari, quindici dei quali presso l'Università di Torino.

Angelo d'Orsi (1), docente di Storia del pensiero politico contemporaneo all'Università di Torino e curatore dell'opera, nella presentazione sostiene che questa raccolta di saggi vuole essere un invito a studiare la tematica della guerra quando...

la costruzione della menzogna, da un canto, e l'occultamento della verità, dall'altro, possono essere visti come i fili conduttori del lavoro dei signori della guerra, (2)

che, attraverso il controllo dei mass media, indirizzano quella...

profluvie di “commenti”, non di rado viziati da una profonda disonestà intellettuale e talora anche morale, dai quali siamo sommersi. (3)

Un intento, dunque, assolutamente apprezzabile, considerando anche il fatto che, almeno il curatore dell'opera, non si fa alcuna illusione sull'efficacia pratica di tale iniziativa.

Certo non sarà un libro a evitare la guerra prossima futura, - dice infatti d'Orsi, sempre nella presentazione - non sarà un gruppo di intellettuali periferici colmi di buone intenzioni [...] a impedire che l'umanità e il luogo che l'ha vista protagonista finora, la Terra, compiano gli ultimi, irreparabili passi verso l'autoannentamento, verso la catastrofe. Ma l'informazione autentica e la riflessione critica sono il primo, piccolo ma necessario passo per non cedere, per non rassegnarsi, per non piegarsi all''ineluttabilità' della guerra, alla sua stupida ferocia, alle sue infinite ingiustizie. (4)

Un altro piccolo ma necessario passo, aggiungiamo noi, sarebbe quello di affrontare il problema della guerra da un punto di vista di classe, osservando cioè che essa è il prodotto degli interessi che perseguono le classi dominanti, ossia, oggi, i detentori di capitali e i loro diretti servitori, e che, viceversa, esiste un'altra classe internazionale, il proletariato, che vive solo di lavoro, che dalla guerra non trae alcun beneficio, e che anzi ne paga tutte le conseguenze.

Ma veniamo ai saggi.

La prima parte, Guerra e terrorismo, è affidata a Luigi Bonanate (5), insegnante di Relazioni internazionali all'Università di Torino. Nel suo saggio, Bonanate sostiene che verosimilmente le prossime guerre saranno combattute dalle grandi potenze, in primis dagli USA, contro i piccoli stati, e si tratterà di guerre piccole, cioè di eventi bellici che “hanno la funzione di consolidare l'ordine dato” (6), a differenza delle grandi guerre che, invece, sono creatrici di nuovi sistemi internazionali. È questa una semplificazione, secondo noi, che ignora come certe “piccole guerre” (si pensi all'ultima guerra degli USA contro l'Iraq, che ha visto la Russia, la Cina e buona parte dell'Europa fortemente contrarie alla politica americana) possano essere il preludio di contrasti e conflitti molto più vasti.

La tecnologia degli Stati Uniti, continua poi Bonanate:

si sforzerà di dotare truppe di “polizia” di strumenti sempre più mortiferi e “puliti”; ciò accrescerà la contestazione e favorirà nuove manifestazioni terroristiche. Solo in questo modo guerra e terrorismo si incontreranno: il terrorismo contro l'ordine globale; le guerre per sradicare ogni opposizione. (7)

Questa è, a nostro parere, una visione superficiale e distorta della relazione fra guerra e terrorismo. Innanzitutto perché esclude che il terrorismo possa essere utilizzato dagli stati come strumento di guerra, quando invece sappiamo che molti bombardamenti, dalla Seconda guerra mondiale ai giorni nostri, lungi dall'essere stati effettuati per colpire obiettivi militari, hanno avuto il preciso scopo di fare strage fra la popolazione civile e di terrorizzarla. Bonanate, inoltre, non tiene conto del fatto che in taluni conflitti un esercito si dia, alternativamente o contemporaneamente, al terrorismo, alla guerra o alla guerra di guerriglia. Si pensi, ad esempio, al caso ceceno. Infine, dimentica che il più delle volte le guerre al terrorismo non sono altro che pretesti utili a perseguire ben altri interessi che nulla hanno a che vedere con la necessità di "sradicare ogni opposizione". Possiamo anzi dire che tutte le ultime, cosiddette guerre contro il terrorismo internazionale, fossero proprio di questo tipo.

Il saggio di Francesco Tuccari (8), docente di Storia delle dottrine politiche all'Università di Torino, apre la seconda parte del libro intitolata Guerra e sistema internazionale. Dopo aver tracciato il nuovo scenario della politica mondiale che si è delineato a partire dal crollo del blocco pseudo-sovietico, Tuccari conclude affermando che:

è pressoché impossibile prevedere se sarà davvero un nuovo apocalittico disordine mondiale l'esito ultimo di queste trasformazioni. [...] Se il prossimo futuro ci riserverà di vivere in un pianeta intrappolato tra la violenza dei terrorismi e quella dei conflitti internazionali, che in effetti si annunciano molteplici [...], o se invece si materializzerà per incanto il sogno della democrazia internazionale o del federalismo mondiale, oppure la prospettiva di un nuovo incontrastato impero. [...] Di certo, almeno al momento, le prossime guerre annunciate, insieme a quelle che già si combattono, in particolare in Medio Oriente, non lasciano grande spazio all'ottimismo. (9)

Qualche previsione, dunque, la possiamo fare. Se infatti è incontestabile che si stia vivendo un'escalation militare che è esattamente l'opposto di quello che l'occidente trionfante aveva promesso dopo il crollo del capitalismo di stato di marca russa, è altrettanto evidente che, guerra o non guerra, di tutto si possa parlare fuorché di passi in avanti verso la "democrazia internazionale" e il "federalismo mondiale" agognati da Tuccari. Secondo le parole dello stesso Tuccari, d'altronde, solo "un incanto" potrebbe realizzare il suo sogno. Ma visto che non crediamo ai miracoli, possiamo allora asserire che la dittatura mondiale della borghesia si trova oggi nelle condizioni di poter utilizzare sempre di meno la sua maschera democratica sia nella politica interna, sia nei rapporti - di forza - internazionali. Riguardo poi all'eventualità che possa nascere un "incontrastato impero", riteniamo che gli attriti crescenti all'interno del blocco occidentale siano già di per sé un chiaro sintomo del fatto che si stia andando proprio nella direzione opposta. (10)

Il saggio successivo di Valter Coralluzzo (11), ricercatore di Scienza politica e insegnante di Studi strategici all'Università di Torino, chiude la seconda parte del libro dedicata alla guerra in rapporto al sistema politico internazionale. Analizzando i caratteri nuovi delle guerre odierne rispetto a quelle del passato, Coralluzzo ci mostra come all'imbarbarimento che è insito in ogni guerra si somma oggi l'imbarbarimento della guerra stessa:

il rapporto tra perdite civili e militari in guerra (che negli anni cinquanta era di 0:8, negli anni sessanta di 1:3, negli anni settanta di 3:1 e negli anni ottanta di 3:7) negli anni novanta è diventato di 8:1. (12)

Inoltre,

mentre la guerra rivoluzionaria punta sul sostegno della popolazione locale ai fini del controllo del territorio, le strategie di combattimento in uso nelle nuove guerre, in ciò più simili alle tecniche di controinsurrezione, mirano a controllare la popolazione seminando l'odio e il terrore [...], con mezzi come le uccisioni di massa, le operazioni di pulizia etnica, le deportazioni forzate e altre atrocità del genere. (13)

Proseguendo nella lettura del suo saggio, scopriamo che Coralluzzo, rispetto agli studiosi precedentemente citati, ha il merito di usare il termine "socialismo reale", fra virgolette, invece di comunismo, senza virgolette, per indicare i sistemi del dissolto blocco pseudo-sovietico. Non è poco, vista la grande mistificazione costruita sull'argomento dai pennivendoli del capitale.

A proposito di tanti, recenti nazionalismi che hanno favorito e giustificato l'esplodere di nuove guerre, Coralluzzo fa un'analisi ampiamente condivisibile. Il collasso del "socialismo reale", dice Coralluzzo:

ha indotto le élite di molti Stati e regimi di nuova formazione (spesso provenienti dalle classi dirigenti dei precedenti regimi autoritari o totalitari) a ricercare nel nazionalismo lo strumento della propria legittimazione. (14)

Vi è stato poi un...

estendersi di quella 'economia parallela' - fatta di corruzione, speculazione, mercato nero e traffici criminali, e frutto delle politiche neoliberiste di stabilizzazione macroeconomia (equivalenti di fatto all'assenza di qualsiasi tipo di regola) perseguite in questi ultimi anni da molti paesi - che ha fornito l'ambiente ideale per lo sviluppo di nuovi gruppi di loschi trafficanti i quali, per legittimare la propria attività, si rifanno strumentalmente al linguaggio della 'politica dell'identità', stringendo alleanze (spesso cementate nella complicità dei crimini di guerra) con i gruppi politici nazionalisti e con 'pezzi' dell'apparato statale in via di decomposizione. (15)

Kosovo docet.

I due saggi che formano la terza parte del libro, intitolata Guerra e diritto, hanno il pregio di dimostrare come gli strumenti giuridici necessari agli stati per legittimare una guerra si possano trovare sempre. E se proprio non si trovano, allora si possono inventare. Paradigmatica, in questo senso, è la Costituzione della repubblica italiana, che all'articolo 11 ripudia la guerra e all'articolo 78 dice che "Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari". E poi, in fondo, basta avere un po' di fantasia: basta chiamarla "operazione di polizia internazionale" invece di guerra, e il gioco è fatto.

Veniamo dunque alla parte successiva della raccolta, intitolata Guerra ed economia. Questa sezione si apre con un saggio di Fabio Armao (16), docente di Relazioni internazionali all'Università di Torino, sulla rinascita della privateering, cioè della guerra combattuta da compagnie private per conto degli stati (17). Oggi il mercenario, dice Armao:

è sempre più “professionista” e sempre meno semplice soldato di ventura: in una logica di mercato che investe in misura crescente la dimensione umana della guerra oltre a quella industriale della produzione degli armamenti, gli eserciti privati vengono oggi gestiti da efficienti multinazionali (evocativamente definite Private Military Companies) quotate in borsa e pubblicizzate su Internet. A complicare il quadro contribuisce il fatto che tali attori privati sono di nuovo al servizio anche dei governi che, come nel passato, possono trovare più economico subappaltare certi “servizi” e politicamente conveniente non comparire ufficialmente. (18)

Inoltre, essendo gli interessi delle singole frazioni di borghesia sempre più trasversali rispetto agli stati-nazione (19) di appartenenza, è lecito supporre che l'impiego di forze mercenarie aumenterà non solo su richiesta degli stati, ma anche su quella delle grandi multinazionali. Si pensi, ad esempio, ai gruppi di mercenari ingaggiati dalle compagnie petrolifere per difendere gli impianti di estrazione e gli oleodotti. Questo fenomeno non rappresenta affatto un ridimensionamento degli eserciti nazionali, che anzi vanno ovunque rafforzandosi, ma un allargamento sempre più istituzionalizzato della violenza armata, giacché se la crisi inasprisce la concorrenza e quindi cedere di un passo potrebbe significare la sconfitta, i concorrenti, anche senza aspettare l'intervento diretto degli stati, finiscono tutti col prendere le armi, magari legandosi, oltre che a compagnie mercenarie, a organizzazioni mafiose e terroristiche.

Il secondo saggio dedicato al tema Guerra ed economia è di Luca Rastello (20), giornalista specializzato nelle aree dei Balcani, del Caucaso e dell'Asia centrale. Il titolo è: Il petrolio, causa reale o apparente delle nuove guerre?.

Petrolio è feticcio di molte spiegazioni manichee e paranoiche, dotate di notevole fortuna giornalistica, dei conflitti contemporanei,

esordisce Rastello. C'è subito da obiettargli che, in realtà, di fortuna giornalistica l'argomento petrolio ne ha avuto ben poco. Molta più fortuna, durante gli ultimi conflitti, hanno avuto la guerra santa al terrorismo e la democrazia esportata a suon di bombe.

Tutto in un barile il mondo non ci sta,

dice poi Rastello. Bisogna vedere quanto è grande il barile. Se infatti il barile in questione non è soltanto il controllo del petrolio in quanto fonte energetica primaria che fa andare le fabbriche e i carri armati (e forse basterebbe già questo), ma anche mezzo attraverso cui si controllano i mercati finanziari internazionali (21), allora il mondo in un barile - per lo meno il mondo capitalista - ci sta quasi tutto. Sorprende che poi lo stesso Rastello, proseguendo nella lettura del suo saggio, ci conferma che in effetti tutte le ultime guerre hanno avuto come causa fondamentale proprio il controllo delle risorse petrolifere e dei suoi flussi! Insomma, ciò che veramente contesta Rastello alla... opinione comune, è che in realtà non esiste un dominio assoluto e incontrastato degli Stati Uniti sulle risorse petrolifere mondiali, e aggiunge che l'Europa si trova ad essere sempre più in contrasto con gli USA proprio sulla questione petrolio. Beh, ma questo è tutto un altro paio di maniche e ci trova perfettamente d'accordo.

La guerra in Kosovo del 1999, che aveva fra le sue principali cause - non l'unica (22) - la realizzazione della bretella petrolifera fra il Mar Nero e l'Adriatico (il cosiddetto Corridoio 8), segnò, dice giustamente Rastello:

un punto di frattura fra le due sponde dell'Oceano Atlantico. Ne fanno fede le manovre speculative dei mesi successivi per indebolire l'Euro nascente sulle piazze finanziarie internazionali e gli oggettivi benefici che ne trasse la divisa americana. Iniziava una fase di potenziale competizione fra la superpotenza dominante e un'Europa che, dopo le prove di ostilità diplomatica fatte registrare a Washington durante le guerre jugoslave (ad esempio, l'ostruzionismo sistematico di Francia e Inghilterra, in sintonia con la Russia, a ogni intervento USA dal 1991 al 1995) incominciava a delinearsi come una potenza concorrente in nuce. (23)

Come sappiamo, l'ultima guerra del Golfo ha in seguito ampiamente corroborato questi attriti.

Passiamo ora al saggio di Claudio Cancelli, docente di Fluidodinamica al Politecnico di Torino, intitolato Il ruolo strategico dell'aviazione militare. Cancelli inizia col darci un'informazione storica che getta un'altra ombra (una fra le tante) sull'album di famiglia dell'imperialismo straccione di casa nostra. Pare infatti che l'innovazione del bombardamento a largo raggio sul territorio nemico vada attribuita all'Italia: "i primi a mettere in atto qualche massacro, sia pure artigianale nonostante l'uso dei gas, di civili e cammelli, sono stati gli italiani nella guerra di Libia (1911) " (24). Dopo tutto quale borghesia, anche se di rosso vestita, potrebbe negare di avere nell'armadio centinaia di migliaia di scheletri?

Entrando nel merito della questione, Cancelli avanza una teoria interessante:

Nella Seconda guerra mondiale è giunto a compimento un processo di formazione di una struttura sociale integrata, i cui albori sono rintracciabili nella Germania di inizio secolo, ma che ha raggiunto la massima estensione di potere negli Stati Uniti e in Unione Sovietica, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. L'unione di industriali delle armi, tecnici e ricercatori del settore, militari di professione e politici, ha formato un gruppo di persone che hanno avuto una influenza determinante nelle scelte dei rispettivi stati maggiori. In parte, questo era il portato inevitabile dello sforzo bellico, della necessità di produrre sistemi d'arma sempre più complessi. [...] L'idea, tuttavia, che queste persone nel loro insieme abbiano operato per un ente astratto chiamato patria o per i ragazzi, i nostri ragazzi, al fronte, è alquanto candida. In realtà milioni di persone si sono trovate a dipendere, per il successo della loro carriera, per i loro stipendi, per la loro fetta di burro, dall'affermarsi di determinati sistemi d'arma, dalla scelta di una strategia militare invece di un'altra. (25)

Secondo Cancelli, dunque, dalla Seconda guerra mondiale in poi l'impresa militare-industriale avrebbe assunto un potere tanto esteso da riuscire a influire in modo determinante sia sulla politica di guerra degli stati, sia sul modo di condurre le guerre stesse. Più avanti, Cancelli elenca i diversi motivi per cui tale blocco sarebbe oggi dominante all'interno dello schieramento borghese: disponibilità incontrollata di denaro pubblico; problemi di sovrapproduzione risolti con lo scatenamento periodico di nuove guerre e l'invenzione di sempre nuove "situazioni di emergenza"; investimenti a lungo termine per le imprese private, assicurate da un interevento statale costante; coinvolgimento di migliaia di imprese (100.000 nei soli Stati Uniti) attraverso una perpetua cascata di appalti e subappalti; cooptazione dei settori colti della popolazione, fra cui - insigniti di un ruolo fondamentale - i produttori di spazzatura mediatica.

Dal nostro punto di vista, Cancelli è nel giusto quando individua nel militarismo il carattere essenziale e irrinunciabile della borghesia una volta che il capitalismo ha iniziato a vivere la sua fase suprema, ossia l'imperialismo, che, appunto, non è una scelta politica di questo o di quel governo, ma il modo di essere del capitale giunto alla sua piena maturazione, i cui frutti non possono che essere la decadenza, le crisi strutturali e i conflitti planetari. Sbaglia, però, quando vuole ridurre il fenomeno della guerra contemporanea all'effetto degli interessi specifici perseguiti da una frazione della classe dominante, fosse anche la frazione più dominante delle altre come potrebbe essere il blocco industriale-militare - ma in realtà non è sempre così, visto il grande potere che le borghesie finanziarie detengono ormai da alcuni decenni su scala mondiale per l'eccezionale peso assunto dalla rendita parassitaria. A Cancelli, insomma, sfuggono quelle leggi economiche che sovrastano le stesse classi dominanti e che spingono necessariamente gli stati a fare la guerra, a trovare cioè nella guerra una soluzione - temporanea - delle contraddizioni economiche che il modo di produzione capitalistico inevitabilmente porta con sé.

Siamo infine pienamente d'accordo con Cancelli quando, a proposito dei cosiddetti stati democratici, e in particolare degli Stati Uniti, sedicenti paladini della democrazia a livello mondiale, sostiene:

il fatto che i centri di potere decisionale sono informali e occulti, e che non vengono neppure sfiorati dal meccanismo elettorale. Il rapporto è esattamente rovesciato; chi ha ambizioni politiche deve prima trovare un accordo con questi centri di potere. (26)

Anche da un punto di vista liberale, dunque, tutt'altro che democrazia.

Può convivere la democrazia con la guerra? Questo è il titolo del saggio di Alfio Mastropaolo (27), docente di Scienza della politica all'Università di Torino, con cui inizia, appunto, la sezione del libro dedicata al rapporto fra guerra e democrazia. Ci pare che la storia del secolo scorso e l'inizio del nuovo millennio abbiano senza dubbio alcuno dimostrato che sì, la democrazia, o per lo meno la "democrazia reale", cioè quella borghese, realizzata in tutti i paesi occidentali e altrove, può tranquillamente convivere con la guerra. Tanto che oggi si è persino arrivati a esportare la nostra democrazia, che è la democrazia per eccellenza, con i bombardamenti a tappeto e i carri armati. Nonostante ciò, Mastropaolo vuole porsi ancora questa domanda, e nel rispondersi deve ammettere che in effetti, nonostante il carattere meno bellicoso delle democrazie rispetto ai regimi autocratici (carattere che difficilmente noi riusciamo a scorgere) vi è un "assopimento dell'avversione istintiva dei popoli democratici alla guerra" (28), e, dunque, vi è l'urgente necessità di "rinverdire la cultura democratica".

Ci chiediamo: quale "cultura democratica" bisogna rinverdire, esattamente, per abolire finalmente la guerra dalla storia? Quella che ha partecipato al macello di Verdun o quella che ha raso al suolo Dresda? Quella che ha lanciato l'atomica su due città giapponesi o quella che, nonostante la scomparsa del "pericolo rosso" ha voluto provare le sue armi nucleari di distruzione di massa su Mururoa?

Il titolo del saggio seguente, Guerre democratiche, risponde implicitamente alla domanda posta dal contributo di Mastropaolo. L'autore, Silvano Belligni (29), docente di Scienza politica all'Università di Torino, afferma che i paesi democratici, oltre a fare la guerra ai non democratici (la mancanza di democrazia in un paese è oggi un ottimo casus belli...), si fanno anche la guerra tra loro. Si può infatti sostenere che:

se raramente i governi democratici si sono combattuti tra loro in campo aperto, alcuni tra questi hanno però fatto spesso ricorso ad azioni ostili, di regola condotte in segreto e per interposta persona, finalizzate a neutralizzare con mezzi violenti gruppi al potere o all'opposizione in altri paesi democratici. (30)

Inoltre, come nota in parte lo stesso Belligni, il fatto che gli stati democratici si siano raramente fatti la guerra in campo aperto non è dovuto all'affinità dei propri ordinamenti interni, ma all'appartenenza di tutti questi paesi al medesimo blocco imperialista. Oggi, però, venuto meno il blocco imperialista contrapposto, quello staliniano, e incalzando la crisi di ciclo a livello internazionale (31), assolutamente nulla vieta che le democrazie occidentali vengano fra di loro a conflitto.

Sembra ovvio - dice Belligni a conclusione del suo saggio - che non possano essere queste democrazie a fermare le guerre e la violenza internazionale. Ma se non queste, quali? (32)

Già, quali? Certamente non quelle borghesi: le democrazie, cioè, che fanno da involucro al mercato e alle gigantesche disparità economiche che ne derivano, hanno largamente dimostrato che non ne possono proprio fare a meno, della guerra. Per quanto ne sappiamo, solo una democrazia, in una occasione, ha fatto ritirare i propri uomini dal macello della guerra: la democrazia proletaria dei Soviet, nel 1918. Una democrazia durata pochissimo, ma che rimane a tutt'oggi il modello, il punto di riferimento di chi ritiene necessario superare il capitalismo per costruire una nuova società che non abbia più bisogno di classi, guerre e frontiere.

Una riflessione conclusiva

Dall'analisi di questi saggi e degli altri che qui non abbiamo trattato estesamente, emergono secondo noi due dati fondamentali. Il primo: se un gruppo di onesti studiosi, anche senza essere marxisti, tratta oggi la questione della guerra, non può che rilevarne le prospettive catastrofiche, gli interessi guerrafondai delle classi dominanti, l'impotenza delle democrazie "reali", il servilismo generale dei mass media e degli intellettuali. Il secondo: se un gruppo di studiosi, onesti ma non marxisti, tratta oggi la questione della guerra, pur individuando gli effetti devastanti del problema, non riesce a scorgerne le cause profonde - lo stesso modo di produzione capitalistico - né l'unica, possibile via d'uscita - la rivoluzione anticapitalista.

Di più, al mondo accademico, non si può chiedere.

Giacomo Scalfari

(1) Autore di Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi 2001, e altro.

(2) Pag. 12, op. cit.

(3) Ibidem.

(4) Pag. 13, op. cit.

(5) Autore di La guerra, Laterza 1998, Terrorismo internazionale, Giunti 2001, e altro.

(6) Pag. 30, op. cit.

(7) Ibidem.

(8) Autore di La Nazione, Laterza 2000, e Capi, élites, masse. Saggi di storia del pensiero politico, Laterza 2002.

(9) Pag. 49, op. cit.

(10) Vedi in proposito Mauro jr. Stefanini: L'impero che non c'è. La moderna presentazione del vecchio superimperialismo, in Prometeo 5, serie VI, giugno 2002.

(11) Autore di La politica estera dell'Italia repubblicana, Franco Angeli 2000, e I dilemmi della geopolitica e le nuove vie della pace, Guerini 2000.

(12) Pag. 59, op. cit.

(13) Ibidem.

(14) Pag. 61, op. cit.

(15) Ibidem.

(16) Autore di Capire la guerra, Franco Angeli 1994, e di Il sistema mafia. Dall'economia-mondo al dominio locale, Bollati Boringhieri 2000.

(17) Nel XVII secolo "privateer veniva definita la nave corsara e privateering la pratica con cui il sovrano autorizzava vascelli armati di proprietà privata di attaccare il naviglio nemico in tempo di guerra, trattenendo per sé una parte del bottino". Op. cit., pag.96

(18) Pag. 99-100, op.cit.

(19) In proposito vedi Giorgio Paolucci, Lo stato a due dimensioni. La mondializzazione dell'economia e lo Stato, in Prometeo 10, serie V, dicembre 1995.

(20) Autore di La guerra in casa, Einaudi 1998, e di La pace intrattabile, Asterios 2000.

(21) Vedi in proposito Giorgio Paolucci: Il controllo del mercato del petrolio nell'epoca del dominio della finanza, in Prometeo 17, serie V, giugno 1999, e Alle radici della guerra contro l'Iraq e quelle a venire, in Prometeo 7, serie VI, giugno 2003.

(22) Vedi in proposito Fabio Damen, La guerra dei Balcani, in Prometeo 17, serie V, giugno 1999.

(23) Pag. 105, op, cit.

(24) Pag. 126, op. cit.

(25) Pag. 130, op. cit.

(26) Pag. 135, op. cit.

(27) Autore di La Repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant'anni di democrazia in Italia, La Nuova Italia 1996, Antipolitica. All'origine della crisi italiana, L'Ancora del Mediterraneo 2000, e altro.

(28) Pag. 204, op. cit.

(29) Autore di Cinque idee di politica. Concetti, modelli, programmi di ricerca in scienza politica, Il Mulino 2003.

(30) Pag. 215, op. cit.

(31) In proposito vedi Lorenzo Procopio: Crisi di ciclo di accumulazione del capitale e crisi congiunturali, in Prometeo 6, serie VI, dicembre 2002, e Mauro jr. Stefanini: Si delineano i primi fronti futuri dell'imperialismo, in Prometeo 7, serie VI, giugno 2003.

(32) Pag. 221, op. cit.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.