Idealismo consiliarista e stalinismo

Facce diverse ma complementari di un medesimo processo controrivoluzionario

Già da tempo nella rete telematica si può leggere un commento al nostro articolo di critica al Libro nero del Comunismo apparso sul numero 15/’98 di questa rivista (1). Nonostante le volgari e - va da sé - inconsistenti accuse a cui si lascia andare l’autore del commento in questione, la nostra risposta non è tanto diretta contro una persona (sebbene ad essa si faccia spesso riferimento), quanto contro una particolare forma di idealismo di cui la persona stessa è rappresentante. In questa replica difenderemo la validità di Lenin e della rivoluzione sociale, gli unici che veramente ci interessano e che concernono la loro validità nei termini dell’azione reale. Pertanto, non si tratta di difendere dogmaticamente la "sacra" figura di Lenin o interessi di casta, ma della difesa di quella che consideriamo la maggiore vittoria del proletariato fino ai nostri giorni e delle lezioni storico-politiche che si traggono da quella esperienza, tanto per quanto concerne le conquiste del metodo rivoluzionario pratico e delle possibilità di vittoria del proletariato, quanto per ciò che riguarda le condizioni e le risposte sul perché abbia trionfato la controrivoluzione. Non siamo, quindi, prigionieri di un "ismo". Le nostre osservazioni critiche alla Russia e agli errori di Lenin e dei Bolscevichi formulate nel corso degli ultimi settant’anni sono ben conosciute. Che cosa rivendichiamo e che cosa mettiamo in discussione del contributo di Lenin e dei bolscevichi alla teoria, al programma, alla organizzazione e all’azione rivoluzionaria? Ciò risulta molto chiaro a chiunque esamini e segua in ognuna delle sue fasi e senza idee preconcette la nostra ormai lunga elaborazione.

Bourrinet: il suo mondo e il nostro

Prima di procedere, occorre precisare qual è la posizione di Bourrinet nel campo consiliarista e operaio. Infatti c’è una gran distanza non solo cronologica, ma politica tra i militanti classici del consiliarismo - i Pannekoek, i Mattick ecc. - e i suoi mentori ideologici dei nostri giorni. I primi costituivano un settore reale e coerente del movimento proletario che aveva reagito prima contro il funzionarismo e il revisionismo della Socialdemocrazia e poi contro gli effetti del processo controrivoluzionario legato all’allontanamento della rivoluzione europea negli anni ’20. Quanto più la critica teorico-politica si avvicina al nocciolo dei Bourrinet del nostro tempo tanto più si è certi che Bourrinet quanto il suo discorso sono solo un’illusione. Bourrinet n+on considera la rivoluzione reale, ma solo un’idea astratta di essa. Non parla della e per la rivoluzione reale, ma di quella che crede che sia. Bourrinet vuole essere un rappresentante del movimento dei consigli, ma non dei consigli reali che organizzano la difesa contro il capitalismo e lottano per creare una nuova società (i consigli della Rivoluzione Russa), bensì dei consigli utopici, platonicamente intesi. Nel piano della rivoluzione sociale contrappone il partito bolscevico ai soviet, considera il primo come il germe dello statalismo controrivoluzionario e i secondi come il comunismo realizzato, il che equivale, di fatto, a contrapporre le istituzioni della rivoluzione proletaria al suo programma e alla volontà collettiva organizzata che rappresenta. Pensando che di per sé i soviet costituiscano l’emancipazione in atto della classe operaia e il partito un organo separato dominato dalla logica statalista del potere (di conseguenza destinato a soffocare l’autodeterminazione operaia), Bourrinet trascura il problema sostanziale della rivoluzione sociale: quello della centralizzazione del proletariato intorno al programma rivoluzionario e la dinamica che sovverte il modo di produzione e abbatte lo Stato, in funzione dei quali si definisce il contenuto storico delle organizzazioni politico-sociali dei lavoratori e si stabilisce se realmente sono chiamate ad abbattere il capitalismo e creare la società comunista. Bourrinet è temerario: è disposto a sostenere che questa forma di organizzazione (il consiglio) è per eccellenza la Rivoluzione anche a costo delle deviazioni che patisce a causa dei risultati concreti della lotta politica che si riflettono al suo interno quale contraccolpo della rivoluzione e della reazione e delle svolte radicali che gli sono imposti dai fluidi rapporti di classe.

Paragonati agli attuali difensori della idea dei consigli, Pannekoek, Korsch, Mattick, Roland-Host erano uomini e donne che incarnavano un movimento e una lotta reali. La loro vita e la loro opera rappresentavano uno sforzo genuino per superare una esperienza storica e trovare una via d’uscita adeguata all’ostacolo di fronte al quale si era arrestato il movimento operaio nell’intento di trasformare la società. Certamente, alla fine l’esperienza consiliarista si dimostrò un’esperienza fallita, però piena di vitalità, di intuizioni di grande portata, di osservazioni e di insegnamenti profondi per la nostra classe - tanto in senso positivo che negativo. Tuttavia, nella misura in cui il movimento comunista e operaio rifluiva tanto più si accentuava il suo idealismo di fondo - costituito dal divorzio della lotta politica dalle condizioni reali e dalla cristallizzazione del suo orizzonte politico e intellettuale in un periodo passato - fino a sfociare in una visione idealista della classe operaia che le fece rifiutare ogni tentativo di organizzazione politica indipendente - ritenendola sostituzionista della classe operaia - e anteporre al processo storico-concreto di organizzazione ed educazione rivoluzionarie un principio ideale.

Ma che cosa ci propone Bourrinet? Il suo consiliarismo è un feticcio senza vita, un ideale che si deve costituire fuori delle contraddizioni del mondo reale e, dunque, incapace di offrirci una riflessione sia sul movimento che sulle condizioni concrete della società necessarie per la sua reale abolizione rivoluzionaria: in questo modo la rivoluzione è possibile solo come applicazione a piè pari di un ideale posto come canone di analisi della storia effettiva e principio di azione per un mondo che esiste unicamente nella sua testa.

La questione del partito politico

Il punto nodale attorno al quale gira tutta l’argomentazione di Bourrinet poggia sulla questione del partito. A suo giudizio, l’embrione diabolico del capitalismo di Stato cova nella concezione e nella pratica del partito sviluppate da Lenin e dai bolscevichi. Per i consiliaristi alla Bourrinet la rivoluzione non è, infatti, un lungo, contraddittorio, complesso e doloroso processo internazionale di lotta politico-sociale, ma qualcosa che attiene esclusivamente alla spontaneità della classe e come espressione di una autocoscienza autonomamente acquisita. Si considera così la classe nel suo insieme come direttamente cosciente, come un essere naturalmente predisposto ad assumere una coscienza adeguata. I Bourrinet non concepiscono, dunque, la presa di coscienza comunista e la costituzione del proletariato in classe come un processo storico, ma come qualcosa di già intrinsecamente dato nella condizione operaia.

Per sostenere questa tesi implicitamente cominciano col negare i fatti elementari della società capitalista e la loro ripercussione sulla coscienza e la condotta del proletariato (la stratificazione sociale della classe, la divisione-parcellizzazione del lavoro, la diversa formazione e grado di sviluppo di sviluppo storico di ciascuno dei suoi settori in funzione del medesimo avanzamento del capitale, la distinta esperienza politica e organizzativa, le diverse basi nazionali, culturali, politiche ed etniche nella quale si trova immersa ogni sezione della classe operaia, la egemonia ideologica della borghesia ecc.). Ma in questa negazione c’è anche la rinuncia a una prassi e a una prospettiva politiche superiori al piano della mera spontaneità operaia e delle circostanze e a delle azioni immediate. Infatti, se l’attenzione dei rivoluzionari è diretta a offrire una soluzione al problema della direzione comunista del proletariato, non si possono ignorare le ripercussioni sul terreno politico-organizzativo dell’analisi marxiana dell’alienazione, del feticismo delle merci e della falsa coscienza elaborata da Lenin al principio del XX secolo e sistematizzate dai migliori continuatori del metodo rivoluzionario pratico. In questo caso i Bourrinet, così come tutto il campo consiliarista, partono da una idealizzazione del proletariato - in particolare della sua organizzazione - e dalla negazione radicale di quello che chiameremo il fattore politico-attivo nella organizzazione e nello sviluppo del movimento operaio rivoluzionario. Sebbene ammettano la necessità che il proletariato si liberi dalla prigione ideologica nel quale si trova oppresso, quale condizione dell’accesso di massa alla coscienza comunista, affidano la concretizzazione di tale condizione alla realizzazione di un misterioso processo che procede attraverso non si sa quali strane mediazioni giacché vedono la soluzione del problema storico dell’organizzazione del proletariato in classe come un mero postulato dissociato dalla reale lotta politica di classe.

In questo senso si può asserire che l’ideologia anti-leninista di Bourrinet - così come il cosiddetto leninismo - è un prodotto della controrivoluzione vittoriosa. Appartiene a una tappa storica del movimento proletario nel quale, attraverso la via della rivoluzione sociale aperta dall’Ottobre russo, il pensiero di Lenin fu oggetto di un doppio attacco distruttivo da parte di correnti che, riflettendo la disintegrazione del poderoso e massiccio movimento anticapitalista degli anni ’20, rifluirono su posizioni già superate di impronta anarcosindacalista che riducevano la rivoluzione a una questione di forma di organizzazione o di carattere giustificatorio dello status quo raggiunto con il consolidamento della borghesia di stato in quel paese. In primo luogo, un settore radicale e critico del vecchio movimento operaio attribuì alla applicazione del metodo "bolscevico" la responsabilità storica del corso degenerativo della rivoluzione russa, condannando in toto il "leninismo" quale apologia del giacobinismo borghese e del capitalismo di Stato. Invece di capire i fatti storici e le loro radici, questa corrente si lagnava di essi, si costringeva al puro rifiuto idealista del corso degenerativo della rivoluzione in Russia. Di conseguenza, la soluzione storica data da Lenin al problema della direzione e della organizzazione del proletariato fu ignorata o convertita in oggetto di critica puramente ideologica - facendo riferimento al modello dei burocratizzati partiti socialdemocratici occidentali e del gerarchico partito stalinista che usurpò il nome del bolscevismo. Nella maggior parte dei casi, tale critica si dibatteva tra l’esasperazione volontarista degli aspetti puramente negativi del vecchio movimento operaio diviso in partiti e sindacati o semplicemente prescindeva dalla esperienza rivoluzionaria acquisita dalla classe nei suoi precedenti giorni rivoluzionari. In secondo luogo, a causa dell’affossamento della Rivoluzione russa e alla liquidazione del partito bolscevico, il pensiero di Lenin subì una strumentalizzazione in chiave burocratica che lo trasformava in una dottrina apologetica al servizio del nuovo sistema di classe stalinista.

Insomma, la teoria e i contributi di Lenin hanno subito nel corso del secolo e come diretta conseguenza della controrivoluzione, due idealizzazioni mutuamente condizionantesi e complementari. Da una parte il "leninismo", vale a dire l’ideologia ufficiale che in Oriente rappresentava una burocrazia che governava non solo senza, ma contro il proletariato e che in Occidente era espressione delle tendenze statal-capitaliste e delle categorie integrate del movimento operaio, e, dall’altro lato, "l’antileninismo", l’ideologia dei gruppi che, sebbene avessero reagito in maniera giusta al capitalismo di Stato e alla burocrazia operaia dominante, elaborarono una peculiare dottrina "comunista" sul vuoto dell’archetipo dell’organizzazione operaia rivoluzionaria (il consiglio). Sprovvista della verifica pratica, questa dottrina fu sviluppata come antitesi pura e astratta del "leninismo", che si limitava a negare senza superare le condizioni della sua realizzazione pratica. Già carente di ogni fondamento e di ogni referente nella lotta e nelle motivazioni reali della classe, questa corrente ha rinunciato a ogni iniziativa di direzione e di organizzazione comunista indipendente. In nome di un antisotituzionismo di principio, per decenni si è limitata a contemplare come spettatrice il marasma tradeunionista nel quale è sprofondata la classe operaia. Nella misura in cui la sua influenza glielo ha permesso, questa ideologia ha contribuito a mantenere il proletariato in uno stato di paralisi e lo ha privato di direttive e di iniziativa. Difatti, ponendo come condizioni ideali dell’azione "la lotta del proletariato nella sua totalità", opponendosi istericamente a ogni iniziativa di avanguardia o di minoranze rivoluzionarie attive, i gruppi consiliaristi attuali esistono solo a condizione di ridurre l’azione dei loro membri alla diffusione di idee, alla propaganda, insomma, all’agitazione, perciò il loro legame con il movimento reale della classe operaia è quasi sempre rimasto chiuso, nei suoi effetti pratici, in un orizzonte puramente economicista e tradeunionista. Così uno dei suoi effetti più disastrosi è stata la trasformazione dei suoi militanti più attivi in innocui spettatori delle lotte reali.

Posto che ha sostituito la rivoluzione reale con quello che è nient’altro che un’opinione di essa, posto che ha negato idealisticamente l’autonomia relativa del momento politico-attivo della coscienza e della prassi operaia, il suo primo effetto è consistito nella distruzione del carattere unitario e totalizzante del movimento rivoluzionario di classe. Dedita a scompigliare piuttosto che a tessere i legami tra il movimento e il suo programma storico, ha opposto a quest’ultimo e alle sue concrete incarnazioni il suo concetto puramente astratto dell’azione spontanea della classe operaia.

Il punto di partenza di Bourrinet costituisce, pertanto, uno dei tanti residui della controrivoluzione del passato. Il carattere negativo di questa ideologia acquista rilievo quando la discussione punta verso il tema della centralizzazione dell’azione operaia, la cui sola menzione causa stupore tra i consiliaristi, sebbene praticamente equivalga a schivare o a eludere il problema dell’affermazione del programma comunista. Nonostante la sua apparenza innocua e corretta, la sua idea del consiglio autodiretto e della democrazia operaia nascondono la natura conflittuale, di classe, della società da trasformare; nel medesimo tempo, mistificano i compiti e le funzioni che il proletariato è obbligatoriamente destinato ad assolvere quando si erge in classe dominante.

Se si conviene con i due seguenti e fondamentali presupposti, per altro confermati dalla storia, e cioè che, primo, il proletariato non sarà comunista repentinamente e senza la mediazione di un prolungato ciclo di apprendistato politico per mezzo della lotta sociale e, secondo, che non si entrerà nel modo di produzione comunista per voto unanime senza una lunga e penosa transizione, si deve ammettere che la dittatura del proletariato, cioè la erezione del proletariato in classe dominante, costituisce una fase intermedia di lotta violenta e di dispotismo rivoluzionario. Anche lo stesso Bourrinet sarà disposto ad ammettere che tutto ciò comporta una lotta mortale. Tuttavia, di fronte alla complessità e alla conflittualità del mondo reale e della classe, i consiliaristi alla Bourrinet concepiscono e presentano, invece, un favoloso mondo operaio chiuso e incapsulato, omogeneamente orientato verso la distruzione della vecchia società e l’edificazione della nuova che la rimpiazzerà. L’unica alternativa che offrono ai lavoratori è quella di conformarsi al loro modello preconcetto, scavalcando tutte le evidenze contrarie e tutte le condizioni storiche che condizionano l’azione reale del proletariato. Da qui si capisce la ragione del fatto che l’immobilismo politico e la paralisi organizzativa, vale a dire l’impotenza nell’azione, siano l’unico risultato di varie decadi di predicazione consiliarista.

Forse è questa la causa per la quale nel suo ragionamento è assente la più semplice nozione riguardante la rottura rivoluzionaria, di cui il partito e la dittatura rivoluzionaria sono una cristallizzazione. Infatti, normalmente è facile capire che la necessità della trasformazione rivoluzionaria della società non si presenta come un desiderio unanime e liberamente accettato, ma come uno shock violento tra le classi e le loro rispettive volontà e organizzazioni. Tuttavia, nel terreno della spiegazione in merito al sorgere della coscienza e del movimento rivoluzionario di classe Bourrinet permane prigioniero di un ingannevole determinismo sociologico. All’idea della rivoluzione comunista e della presa di coscienza rivoluzionaria di cui si è servito per muovere la sua critica al bolscevismo, soggiace la tesi secondo la quale la coscienza di classe rivoluzionaria nasce rigogliosa, omogenea e direttamente dalla condizione oggettiva del proletariato, in diretta connessione con la naturale evoluzione economica della società capitalista. In realtà, solo se diamo alla Storia un’entità metafisica possiamo pensare ai movimenti sociali rivoluzionari come forze che obbediscono allo sviluppo naturale di un processo il cui esito finale è già predeterminato indipendentemente dalla nostra coscienza e dalla nostra prassi.

A meno di non pensare che è sufficiente sperare pazientemente che la Storia marci autonomamente in una direzione prestabilita - l’inesorabile crollo del capitalismo - solo così si può dar credito all’idea consiliarista della rivoluzione. Il capitalismo e tutto il suo sistema di rapporti e istituzioni non sparirà automaticamente né per effetto di una evoluzione graduale della società né come conseguenza di una decisione unanime del proletariato. In tutti i momenti gravi e cruciali di una rivoluzione sociale, il movimento di trasformazione e concretizzazione del comunismo potrà essere spinto in avanti solamente dagli elementi rivoluzionari capaci di ergersi sopra le circostanze contingenti e perseverare negli interessi e obiettivi storici generali della classe lavoratrice. Senza i suoi organi politici - il partito e la dittatura di classe - in quanto espressione della propria volontà rivoluzionaria, la base di massa del movimento di emancipazione mancherà della forza, della chiarezza e degli strumenti per combattere la vecchia società. Una società libera della legge del valore, senza proprietà né merce, è impossibile senza prima attaccare e poi vincere la resistenza del vecchio ordine sociale. Le due cose richiedono per molto tempo la presenza di una forza politica organizzata che combatta per il programma storico del comunismo e di strumenti di classe per l’esercizio della dittatura rivoluzionaria.

Ma nella testa di Bourrinet convivono pensieri contraddittori.

Curiosamente, egli stesso, riferendosi alla funzione mistificatrice dell’ideologia e senza accorgersi che il suo ragionamento apporta argomentazioni nel senso opposto, segnala lamentosamente: "Ancora oggi, l’ideologia - e non la riflessione storica e teorica - domina. L’uscita del libro di Courtois [il curatore de Il libro nero del comunismo - ndr] e il suo sfruttamento da parte dei media lo dimostrano ampiamente. Finché si confonderà capitalismo di Stato e socialismo, controrivoluzione e rivoluzione, le classi dominanti - quale che sia il loro colore ideologico (‘capitalista liberale’, ‘socialista’, ‘comunista’, ‘fascista’) potranno dormire tra due guanciali, o piuttosto sui loro sacrosanti profitti. Veicolando senza tregua l’idea di una opposizione tra ‘comunismo’ e ‘capitalismo liberale’, i possidenti sono certi che le sbarre ideologiche nella testa degli sfruttati sono ben più sicure che le sbarre di qualunque prigione". Non è questo, nonostante Bourrinet, per chiunque sappia leggere, un riconoscimento implicito della necessità storico-strategica del partito rivoluzionario così come l’ha concepito Lenin? È qui che se avessimo dovuto fare un panegirico della lotta politica e, particolarmente, della lotta di partito, non avremmo trovato miglior argomento.

Ma, allora, bisogna trarre le dovute conseguenze del ragionamento precedente: la necessità e l’inevitabilità dello scontro politico da parte della corrente rivoluzionaria con le diverse influenze borghesi che si annidano nel movimento operaio. Negare questo scontro significa delegare ai partiti borghesi e operaio-borghesi la gestione della massa riguardo le questioni politiche fondamentali (la guerra, il nazionalismo, la democrazia, la politica economica, ecc.). In altre parole: come può avanzare una classe ignorando, le visioni, i moventi, gli orizzonti e le influenze ricevute dai differenti strati del proletariato? Si può avanzare verso il comunismo senza, per esempio, combattere decisamente il riformismo? Nel seno della classe operaia e delle sue organizzazioni si è svolta e si svolge una lotta senza quartiere tra distinti programmi, strategie e metodi che si disputano lo stesso terreno: quello della direzione politica del movimento operaio. La tal cosa, da sé sola, basta per esigere l’organizzazione dei rivoluzionari in partito. Infatti, nella lotta per dare una soluzione al problema della direzione comunista del proletariato dovranno convergere i nuclei dotati di una prospettiva di lunga portata sul processo storico della rivoluzione disposti ad assumere organizzativamente la complessità della lotta politica per far trionfare il programma comunista; la disputa intorno sia agli obiettivi del movimento che ai compiti, mezzi, metodi e procedimenti che dovranno articolare e orientare la massa combattente, finirà per scatenare un duello mortale volto a definire la direzione ulteriore degli avvenimenti.

Di conseguenza, la necessità del partito è data dalla necessità di unificare la volontà rivoluzionaria collettiva nell’azione contro altri interessi, correnti e influenze. Capiamoci bene. Non ci riferiamo a un’indomita volontà autonoma rispetto al proletariato e alla totalità delle condizioni obiettive della società che configurano la tendenza verso il socialismo. La volontà rivoluzionaria organizzata nasce e si sviluppa in dipendenza della classe e di quella totalità di condizioni; ed è nel corso della lotta per i suoi obiettivi e le sue prospettive di emancipazione che si va formando una comunità di azione e di programma che si cristallizza nella prassi politico-organizzativa e teorica dei militanti concreti.

Il problema della dittatura del proletariato e la sorte di Lenin

Il destino ultimo della rivoluzione sociale dipende dalla dittatura del proletariato, cioè dal vigore e dall’efficacia con cui l’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia ha spazzato via il sistema borghese. Nessuno può ignorare che questa vittoria è legata sul piano dell’organizzazione, dell’azione e delle realizzazioni pratiche, tanto all’egemonia politica e ideologica del programma comunista, come all’estensione della rivoluzione ai più importanti pesi industrializzati. Così, dunque, tra il partito rivoluzionario e la dittatura del proletariato c’è una relazione inestricabile; ambedue sono i due aspetti inseparabili di una medesima totalità. Però questo significa allo stesso tempo - e Lenin è stato il primo a vederlo chiaramente - che sebbene godano di un livello più o meno grande di autonomia relativa - il partito e la dittatura proletaria sono il riflesso cosciente e attivo dei rapporti di classe nella società. Sebbene costituiscano una necessità storica in virtù delle condizioni in cui vivono gli uomini nella società capitalista e dello sviluppo contraddittorio dei movimenti di liberazione della classe oppressa, non sono in alcun modo un assoluto: la funzione del partito e la dittatura saranno superati in funzione dell’avanzamento della capacità sociale e culturale degli operai e dopo il progressivo sradicamento dei rapporti sociali borghesi e di classe.

Come abbiamo visto sopra, Lenin - e quando parliamo di Lenin ci riferiamo all’organizzatore della lotta per la dittatura esclusiva del proletariato, al Lenin della contrapposizione irriducibile tra la borghesia e il proletariato, al Lenin centralizzatore della collettività rivoluzionaria intorno al programma comunista, al Lenin della lotta di classe contro la democrazia parlamentare e la collaborazione di classe - non è uscito indenne dal sistematico lavoro di falsificazione cui lo ha sottoposto la controrivoluzione trionfante. Infatti, è stato lo stalinismo che ha fatto passare come proprio del suo sistema tutto quanto costituisce precisamente l’antitesi della concezione e del metodo bolscevichi: la subordinazione del proletariato allo Stato nazionale e al nazionalismo, la giustificazione dei fronti popolari e delle alleanze interclassiste, la concentrazione monopolista dei mezzi di produzione e del potere politico nelle mani di una borghesia di Stato, la confusione del socialismo con l’economia di mercato, con il denaro, con la regolazione dell’attività e dello scambio sociali per mezzo della legge del valore, con la perpetuazione del lavoro salariato, della famiglia....Il nostro Lenin non ha la più lontana relazione con il cosiddetto "leninismo", ma rappresenta, invece, la più rigorosa continuità con il pensiero marxiano, vale a dire la coscienza viva del fatto che senza lotta violenta contro la borghesia, senza la dittatura proletaria, l’emancipazione del proletariato non cessa di essere una consegna vuota. Insomma: solo se il proletariato si organizza in partito politico al fine di combattere decisamente e sistematicamente per la realizzazione del suo proprio programma storico contro tutti quanti, a "destra" e a "sinistra", tentano di sviarlo dal suo cammino, potrà conseguire la vittoria finale sopra la borghesia.

Questa immagine di Lenin contrasta, naturalmente, con quella di Bourrinet. Infatti, il Lenin di Bourrinet è lo stesso che la talmudica staliniana ha fatto passare come artefice dello "Stato socialista". Ma tra questo Lenin e il nostro Lenin c’è tanta differenza come tra il Lenin vivente del 1917 e il Lenin mummificato nel mausoleo di Mosca. Se nel Libro Nero la tesi centrale è la demonizzazione del comunismo e della rivoluzione sociale - mostrandoli come le forze generatrici del genocidio, del terrorismo, del totalitarismo e della distruzione sistematica - nel suo breve commento Bourrinet accetta senz’altro la versione stalinista. Allo stesso modo in cui gli stalinisti favoleggiarono per giustificare il mito di Lenin creatore dello "Stato socialista", invocando l’adesione formale a certe sue tesi preventivamente dogmatizzate come fonte di ogni autorità e legittimità rivoluzionaria - Bourrinet - e con lui tutto il movimento che si caratterizza per la feticizzazione dei consigli - ha creato il mito complementare di Lenin "padre" del capitalismo di Stato per contrapporlo alla sua immagine idealizzata del proletariato e del socialismo. L’imputazione consiliarista e anarchica a Lenin della successiva controrivoluzione staliniana è il risultato dell’accettazione acritica di un punto di vista anche peggiore: la riduzione di Lenin al "leninismo" creato e adattato alle necessità di automistificazione della borghesia di stato russa. Sebbene abbia il merito di denunciare le nuove modalità di dominio del capitalismo di Stato russo, strappando loro le vesti mistificatrici con cui si era abbigliato lo stalinismo per giustificarsi, non esiste una differenza di fondo tra la versione staliniana del leninismo e quella consiliarista (Bourrinet). Per la stessa ragione, quest’ultimo, come chiunque ragioni al di fuori del terreno rivoluzionario, incorre nello stesso procedimento idealista che riduce la storia a individui, a idee e personalità eccezionali. Difatti, Bourrinet ha reso Lenin responsabile del capitalismo di Stato e della dittatura terrorista sopra la classe operaia. Nel fondo, questa attribuzione suona tanto strampalata quanto l’intento capitalista di attribuire a Marx il Gulag e lo Stato Totalitario per il solo fatto che Stalin e i suoi successori si sono detti "marxisti". Sebbene Bourrinet si lamenti (si veda Du Bon Usage des Livres Noirs) che "l’ideologia - e non la riflessione storica e teorica - domini" ci si deve lamentare ugualmente del fatto che anche la discussione che intende sviluppare contro quell’autore gravita essenzialmente attorno a dei nomi, dimenticando che i nomi nascondono i processi storici. Infatti, a dispetto della sua tirata contro l’ideologia, nuovamente un individuo, un partito, una "ideologia" - cioè Lenin e il Bolscevismo - appaiono come le forze generatrici della storia, occultando in tal modo le forze e i meccanismi sociali dei quali realmente sono frutto.

Due letture della rivoluzione russa (Gli errori di metodo di Bourrinet)

C’è un punto che ci separa profondamente da Bourrinet e da tutti quelli della sua specie: la lettura degli eventi storici. Rispetto alla Rivoluzione russa questo è palese: sebbene sia probabile che noi e Bourrinet abbiamo sotto gli occhi i medesimi fatti, egli li legge attraverso la lente deformata dell’idealismo che ha in sé una visione teleologica e, in definitiva, mistica della storia. Questo aspetto della nostra analisi ci consente di fare una breve digressione. Nell’analizzare gli avvenimenti del passato si corre il rischio di cadere preda dell’illusione consistente nel credere che nella successione degli eventi ci sia qualcosa di predeterminato. Questa visione nasce dal fatto di contemplare l’avvenire nello stesso modo in cui si guarda il passato. La genesi di questa illusione è radicata nel fatto che conosciamo uno ad uno gli anelli dello sviluppo del passato e, pertanto, non possiamo sfuggire facilmente alla falsa sensazione che ogni cosa stia al suo posto come se tutto fosse già stato prestabilito, comprese le scelte degli uomini. Bourrinet è disgraziatamente vittima di questo abbaglio intellettuale. Quando guarda in retrospettiva il processo storico tende a giudicarlo secondo il punto di vista dei fatti già accaduti e, dunque, secondo circostanze già cristallizzate e irreversibili, riducendo il processo stesso a un’evoluzione senza alternativa i cui accadimenti si incamminano con rigore logico e inesorabile fatalità verso un punto preciso. I fatti non sembrano avere nessuna connessione vitale con la totalità della prassi sociale dell’epoca, sorgono come qualcosa di già prescritto e stabilito; in tal modo si lasciano in ombra i processi sociali organici e la prassi creatrice degli uomini. Il dramma storico che si è svolto appare come già scritto in precedenza: le azioni dei suoi personaggi sembrano corrispondere a un copione e a un piano previsto da un demiurgo impersonale.

In tal senso, Bourrinet concepisce il carattere - così come l’azione o l’ideologia - del soggetto-oggetto sociale non come parte di un processo storico nel quale la lotta di classe rappresenta la locomotiva, ma come un qualcosa di definito e compiuto una volta per sempre, privo di conflitto e di tensione interiore e, dunque, non suscettibile di cambiamento e mutazione, cioè, metafisicamente determinato, fuori tanto dalle precise condizioni di un determinato contesto come dalle dinamiche che lo creano, lo modellano e lo definiscono. Così, a causa degli eventi successivi, il partito bolscevico è visto come un’entità che dalle sue origini è predestinata a rivestire un ruolo controrivoluzionario; in tal senso, le figure di Lenin e dei Bolscevichi lungo ognuna delle tappe del loro itinerario storico-politico, sono equivalenti a quelle di Stalin e del capitalismo di stato degli anni trenta: in primo luogo come preparazione, come germe, e poi come fatto realizzato. La storia e la lotta di classe scompaiono: non rimane altro che il cieco determinismo delle forze produttive e la ferrea sottomissione dei suoi mutevoli strumenti umani. La successione degli avvenimenti si dà per scontata, e non ha nessun senso chiedersi quali furono le condizioni che incisero nel riflusso della rivoluzione - se mai c’è stata una rivoluzione - e alimentarono gli elementi controrivoluzionari. Per Bourrinet la controrivoluzione - vale a dire la marcia verso il capitalismo di stampo staliniano - fu sempre la forza dominante: in modo latente e debole in Lenin e nel partito bolscevico nella fase pre-rivoluzionaria; nella forma brutale dello stalinismo dominante nella fase post-rivoluzionaria. In altre parole. I fenomeni storici essenzialmente non sono spiegati con i risultati e le condizioni della lotta di classe. E non è nemmeno necessario imparare da essi per capire, per esempio nel nostro caso, come una rivoluzione si trasforma nel suo contrario.

Questa è l’idea che Bourrinet e i consiliaristi si sono fatti sulla Rivoluzione sovietica. Per essi non esiste prassi creatrice, storia, ma un determinismo sociologico che annienta e assorbe tutto. Si potrebbe credere, infatti, che nella società, al di sopra della nostra attività e della nostra coscienza, esiste un fattore astratto al quale possiamo ragionevolmente attribuire l’avanzamento o l’arretramento delle società, escludendo in tal modo la possibilità della creazione storica o della regressione come conseguenza dell’azione rivoluzionaria (o controrivoluzionaria) degli uomini. Nelle loro analisi dei processi sociali conferiscono, senza dubbio, un primato assoluto alle forze produttive. Tendono a considerare il movimento storico come qualcosa di imposto dalle esigenze oggettive riferito essenzialmente al grado di sviluppo delle forze produttive. In questa ottica, la lotta di classe e i processi ideologici, sociali e politici risponderebbero a un cieco determinismo economico identico a quello che regge i processi sociali dentro il capitalismo. L’avanzata verso il comunismo costituirebbe, così, una progressione inesorabile scaturita direttamente dallo sviluppo delle forze produttive. Ignorando l’intervento dei molteplici fattori che, sulla base del rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura della società, interagiscono gli uni con gli altri codeterminando e modellando l’evoluzione storica e tutte le sue possibili svolte, il progresso, il ristagno o il regresso storici come tali cessano di dipendere, a rigore, dalla peculiare dinamica che acquisiscono i rapporti tra le classi in virtù delle contraddizioni presenti tanto in ogni formazione sociale particolare come all’interno del modo di produzione che già al tempo di Lenin regge l’intero universo sociale: il capitalismo.

Il modello utilizzato per rappresentare la transizione dal capitalismo al comunismo è copiato dalle caratteristiche proprie del passaggio dal feudalesimo al capitalismo, dimenticando che, rispondendo a strutture e logiche diverse, l’evoluzione capitalista e comunista non sono omologabili tra loro. In termini generali, la marcia verso il comunismo si distingue per:

  1. gli elementi del modo di produzione comunista non hanno nessuna possibilità di nascere e svilupparsi nel seno dell’economia capitalista (quantunque, certamente, la moderna società borghese abbia dentro di sé in forma negativa i germi potenziali del socialismo), ma possono affermarsi solo attraverso una fase iniziale di lotta politica diretta alla distruzione dello Stato e della borghesia in quanto classe, vale a dire: a) solo dopo l’instaurazione del potere dei lavoratori; b) grazie allo sviluppo di una politica tendente a fornire le condizioni per la scomparsa degli interessi di classe;
  2. il comunismo non è prodotto da forze economiche cieche (come nel caso del capitalismo dovuto all’influsso della legge del valore), il mero sviluppo delle forze produttive non può mai, da sé stesso, far scomparire le forme capitaliste della divisione del lavoro né gli altri rapporti sociali borghesi: un tale modo di produzione non può essere raggiunto che per mezzo dello sviluppo della forza cosciente del proletariato.

Insomma, le modificazioni e gli sviluppi delle forze produttive della società non provocano, di per sé, in funzione e in conformità con quelli, modificazioni essenziali nei rapporti sociali di produzione tra gli uomini; per conseguire ciò occorre legarsi alla classe e al suo livello di coscienza per realizzare la sua potenzialità trasformatrice in lotta con le classi che rappresentano i rapporti sociali esistenti. Ma c’è da tenere conto di un’altra caratteristica fondamentale del comunismo: la vittoria proletaria inaugura, effettivamente, una nuova Era storica, quella della gestione e del controllo cosciente della produzione e della distribuzione - così come di tutti i campi della vita sociale - da parte dei produttori liberamente associati.

Invece, esattamente come i menscevichi contemporanei di Lenin, Bourrinet e i consiliaristi considerano la rivoluzione russa come borghese e l’evoluzione storica della stessa come inevitabilmente destinata a sfociare nel capitalismo. La ragione inappellabile? Il condizionamento assoluto delle forze produttive da parte della situazione semifeudale e dell’arretratezza generale del paese. Si tratta di una ipotesi meccanicistica che tende a ridurre unilateralmente le possibilità e la portata di un processo storico-sociale al livello di sviluppo conseguito dalle forze produttive, relegando a un piano secondario o, semplicemente, omettendo il ruolo dei rapporti di classe nella società e la dinamica prodotta da quei rapporti intimamente antagonisti.

D’altra parte, aggira due aspetti sommamente importanti presenti nell’ibrida formazione sociale russa dell’epoca che consentono di confutare quella ipotesi: la subordinazione della produzione agraria all’economia mercantile internazionale e il ruolo del capitale finanziario, sommati al noto sviluppo della concentrazione capitalistica nell’industria del paese. In altre parole, la Russia non era un’isola chiusa in sé stessa nel concerto mondiale, ma una struttura economico-sociale funzionalmente integrata ai circuiti internazionali di riproduzione del capitale e, di conseguenza, condizionata dai cicli e dalle dinamiche proprie del capitalismo in una fase data di sviluppo. È grazie a esso che sono state presenti nella formazione sociale le forze motrici e gli elementi materiali capitalistici potenzialmente propizi allo sviluppo del movimento proletario rivoluzionario e della prospettiva socialista; e la teoria leninista dell’"anello più debole della catena imperialista" fu elaborata precisamente in risposta a una situazione storica nella quale era contemplata la possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia invece che nelle nazioni industrialmente più avanzate.

Contro i presupposti menscevichi che escludevano la rivoluzione socialista nei paesi arretrati, la rivoluzione russa del 1917 fu una rivoluzione proletaria. Su quali basi poggia questa tesi? Su basi molto solide, a nostro avviso. In primo luogo partiva dall’impugnazione di tutte le forme statali precedenti e instaurava il diretto potere delle masse lavoratrici per mezzo dei soviet: il soviet si rivelava la forma politica concreta assunta dalla dittatura del proletariato. In secondo luogo effettuava l’espropriazione radicale di tutte le vecchie classi proprietarie e della borghesia, consegnando i mezzi di produzione e di distribuzione agli organismi di amministrazione collettiva dei produttori. In terzo luogo, proclamava l’Internazionale proletaria come sua naturale indirizzo politico e suo nocchiero storico, nello stesso tempo in cui consegnava la sua propria sorte alla sorte generale della rivoluzione comunista mondiale. La teoria della supremazia dello sviluppo delle forze produttive come causa diretta dei fenomeni sociali e politici, propria del marxismo volgare applicato oggi da Bourrinet e ieri dai menscevichi, è semplicemente incapace di concepire anche la possibilità di cose simili, per non parlare della sua capacità di spiegarli.

Se ci atteniamo all’articolazione della Russia con il circuito capitalista mondiale e al legame originario del bolscevismo e della classe operaia russa con il movimento proletario internazionale, possiamo affermare che non esisteva nella Russia rivoluzionaria degli anni ’20, come lo sottolineò Bordiga nella lettera a Korsch dell’ottobre 1926 (2), una evoluzione socio-politica che equivalesse fatalmente alla restaurazione del capitalismo. Il posteriore trionfo della controrivoluzione in Russia essenzialmente non fu determinato né dalla mera struttura economico-sociale russa né dalla inefficacia - o, peggio, dalla contraddizione - del bolscevismo con gli obiettivi rivoluzionari.

Una volta riconosciuto che l’azione del proletariato russo e del bolscevismo è stata diretta a trasformare lo stato di cose esistente in senso socialista, i mutamenti sociali e politici si devono intendere come frutto della rottura tra quella azione e la formazione storica lì solidificatasi, tenendo conto tanto della reazione e dell’inerzia delle forze della vecchia società quanto della lotta di classe (in questo caso specialmente col confrontarsi di prospettive e concezioni storiche) svolgentesi all’interno del partito e del movimento rivoluzionario. Infatti, le classi, i conflitti di classe e le differenti prospettive che si esprimono nel terreno della teoria e dell’orientamento politico non scompaiono immediatamente con la presa del Palazzo d’Inverno a Pietrogrado. Le concezioni, i mezzi, e gli strumenti con cui i bolscevichi e i soviet cominciarono a dirigere la trasformazione della società sono fondamentali per capire le ragioni dei successi e delle sconfitte di quel processo, nel cui caso, la sconfitta posteriore della rivoluzione russa non è spiegabile, quindi, con il carattere intrinseco del partito bolscevico e dei marxisti russi (così come, nemmeno, direttamente dallo stato delle forze produttive) ma da situazioni e circostanze storico-sociali molto particolari che è necessario esaminare concretamente e che essenzialmente attengono alle condizioni in cui essi dovettero affrontare la lotta politica dal 1917 Quest’ultime non si possono capire , in primo luogo, se si parte dal presupposto che il "processo storico" (che per sé stesso non sarebbe più tale) è stato nulla più che la cristallizzazione di una direzione originariamente predestinata fin dalle origini e, in secondo luogo, se i risultati di tale processo sono considerati come una responsabilità attribuibile a certi aspetti della personalità di Lenin, Trotsky o Stalin o a loro particolari concezioni: i nomi occultano, come abbiamo dimostrato altrove, i sistemi e i processi sociali. La storia, infatti, come pare dedursi da certi passaggi dell’articolo di Bourrinet, non è responsabilità personale dei dirigenti politici. Questo aspetto pone in rilievo altri difetti dell’ottica di Bourrinet e dei suoi simili: quello di considerare che la visione e le idee di un individuo - Lenin - riassumano e conformino un’epoca storica. Qui Bourrinet condivide, senza distanziarsi di un millimetro, il disegno di Courtois, il direttore del Libro Nero, che è quello di presentare Stalin, Mao, Pol-Pot, Menghistu in perfetta (si dovrebbe dire perversa) continuità con Lenin, seguendo una linea di predeterminazione genetica. In altre parole: al determinismo si unisce una rappresentazione provvidenzialistica delle grandi personalità. Bourrinet ha dimenticato che sebbene in certi momenti queste possono giungere a personificare le forze sociali, non è la loro coscienza né la loro volontà che genera e racchiude le condizioni dello sviluppo. Il loro posto e la loro funzione nello svolgimento dei fatti - per esempio la possibilità di formulare e portare a compimento una politica o il potere che mostrano - si posso spiegare solamente con la natura dei rapporti sociali predominanti nella società e con la natura dei loro conflitti. È da qui che, come insegna Marx, si comprende come la chiave per capire le loro realizzazioni risieda nell’analisi di detti rapporti.

L’analisi ha a che vedere, senza dubbio, con l’ambiente sociale che agisce da base condizionante dell’azione nell’epoca in questione, tuttavia questo ambiente non è fissato e congelato una volta per tutte, ma cambia continuamente e si forma in funzione della dinamica della classe in lotta, la quale, a sua volta, riceve un’impronta notevole dal flusso e riflusso dei movimenti sociali, dai processi di allineamento e riallineamento sociale e politico avvenuti nel teatro della storia. L’elemento di aggiustamento o di errore nella linea e nei mezzi dell’azione intrapresa tanto dai bolscevichi per rivoluzionare la classe lavoratrice quanto dai soviet per produrre cambiamenti nei rapporti di produzione, hanno anche qui un posto eccezionalmente rilevante. In questo senso, in linea generale, si può affermare che è stata la sfavorevole situazione internazionale la condizione che più di ogni altra ha contribuito al trionfo della controrivoluzione. Detto trionfo non si compì, dunque, in modo semplice né ha origine in una legge inevitabile di natura, della società o della storia, alla quale, ben al di là delle azioni degli uomini e delle condizioni concrete del periodo storico in questione, si possa attribuire la fissazione di una determinata direzione dell’evoluzione sociale. Vittima del suo peculiare modo di vedere metafisico, Bourrinet non può capire nulla di questo. A suo giudizio, gli elementi politici dei lavoratori, il partito e i soviet, sono entità definite una volta per tutte. Sono incarnazioni di principi e di forze che trascendono la prassi sociale e determinano in modo assoluto le azioni e le idee degli uomini. Nel suo mondo non c’è spazio per la contraddizione e per la storia. Al posto della lotta di classe e dei suoi riflessi politici e ideologici ci presenta un mondo omogeneamente dominato da una impersonale ragione teleologica.

Juanamando

(1) Philippe Bourrinet, Deux réactions de "l’extreme gauche" au Livre noir du communisme; e, dello stesso autore, Du bon usage des livres noirs, entrambi in real-huizen.dds.nl . Il nostro articolo è intitolato "La Santa Alleanza della borghesia: Il libro nero del comunismo". Prometeo n.15, giugno 1998.

(2) Lettera di Amadeo Bordiga a Karl Korsch del 28 ottobre 1926, ora anche in Danilo Montaldi, Korsch e i comunisti italiani, Roma, Savelli, 1975.

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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.