La crisi delle tigri asiatiche trascina nel panico le borse mondiali

La crisi finanziaria che lo scorso luglio ha investito la Thailandia (leggere in proposito l’articolo apparso sul numero 9 di B.C.), dove si è registrata la pesante caduta del mercato azionario e la svalutazione del Bath rispetto al dollaro statunitense, si è inevitabilmente propagata sull’intero mercato mondiale. Dopo la breve tregua del mese di settembre, durante la quale i corifei del capitale si sono prodigati nel cantare le lodi alle virtù della mondializzazione e alla completa apertura di un mercato importante come quello cinese, il sistema finanziario internazionale ha vissuto una delle giornate più critiche di questo fine millennio.

L’ondata speculativa originatasi sui mercati finanziari del sud-est asiatico ha sommerso le borse dell’intero pianeta. La borsa di Hong Kong, la più importante del sud-est asiatico dopo quella di Tokyo, in soli tre giorni ha visto l’indice crollare del 40%, mentre tutte le altre piazze borsistiche dell’area per contenere le perdite hanno deciso di sospendere le contrattazioni. Per dare un’idea della gravità della crisi finanziaria in corso, bisogna ricordare che nella sola giornata del 28 ottobre, quando l’indice della borsa di New York ha subito un ribasso del 7,2%, nelle varie piazze borsistiche mondiali si sono “bruciati” capitali per una cifra che sfiora i due milioni di miliardi di lire.

A soli tre anni dalla crisi messicana, durante la quale le borse dell’America latina hanno fatto registrare pesantissime flessioni negli indici azionari, il capitalismo mondiale è ancora una volta scosso da un violento terremoto finanziario. Come sempre l’ideologia borghese, pur di nascondere i veri motivi di queste periodiche crisi è pronta a mistificare spudoratamente la realtà dei fatti. Economisti, esperti, guru della finanza e politicanti dell’ultima ora, quando commentano la crisi, strumentalmente usano due pesi e due misure. Infatti quando si riferiscono ai paesi del sud-est asiatico, o ad altre aree periferiche, individuano i motivi della crisi in politiche economiche poco liberiste, mentre i crolli delle borse europee e nordamericane sono ritenuti ingiustificati in quanto i parametri dell’economia reale sono tutti positivi. Da un lato giudicano le crisi come un effetto salutare per l’economia in quanto impongono ai vari governi politiche più liberiste, dall’altro le ritengono dannose e ingiustificate perché l’economia reale va a gonfie vele ed invitano gli investitori a non lasciarsi prendere dal panico.

Nella realtà, la globalizzazione del capitale, avendo prodotto la completa unificazione del mercato, determina che la crisi finanziaria di un paese si ripercuota immediatamente sull’intero sistema non risparmiando neanche quei paesi in cui il trend economico è positivo. La logica di tali fenomeni è da ricercare nel fatto che il capitale finanziario negli ultimi dieci anni, grazie alla completa liberalizzazione del mercato e alla creazione di nuovi strumenti finanziari (opzioni, futures, warrant ecc.), si è sempre di più distaccato dall’andamento dell’economia reale. Il capitale finanziario, nello scegliere i mercati e settori nei quali investire, valuta esclusivamente i tassi d’interesse, in quanto sono questi in definitiva a determinare l’alta o bassa remuneratività del capitale investito. Ma se la crescita dei corsi azionari è avvenuta senza un adeguato sviluppo del sistema produttivo, ma solo grazie a manovre speculative, le cadute verticali delle borse interessando anche le azioni delle società inserite nel mondo della produzione determinano delle conseguenze disastrose sull’intero apparato produttivo e nelle condizioni di vita del proletariato.

Dopo le giornate dei crolli verticali, gli indici azionari di tutte le borse mondiali sono tornati a salire, recuperando parzialmente le perdite subite nei giorni precedenti. Ma una crisi di tale portata, durante la quale ingenti masse di capitali si sono spostati da un mercato all’altro nella ricerca spasmodica di briciole di plusvalore, non può essere tanto facilmente assorbita dal sistema finanziario in quanto lascia in eredità una schiera di paesi economicamente allo sbando. La borghesia del sud-est asiatico per rilanciare l’apparato produttivo non potrà che imporre alla propria classe operaia sacrifici enormi.

La crisi finanziaria che ha colpito i paesi del sud-est asiatico non è un fulmine a ciel sereno, come spesso è stato detto in questi giorni dall’economia borghese, ma è la conseguenza dell’azione combinata di alcuni fattori economici che hanno turbato il fragile equilibrio macroeconomico nell’intera area del Pacifico. Decantati dalla borghesia internazionale come il prodotto più genuino della globalizzazione dell’economia, le tigri asiatiche sono sprofondati in una gravissima crisi economico-finanziaria. Dopo decenni di crescita del Pil a due cifre negli ultimi tre anni le economie dei paesi del sud-est asiatico segnano il passo.

È entrato in crisi un modello di sviluppo che aveva garantito all’intera regione di industrializzarsi e diventare competitiva sui mercati mondiali. Per tutti gli anni ottanta il capitalismo giapponese, avendo accumulato una quantità enorme di capitale finanziario inutilizzabile sul mercato interno, attratto dall’alta remuneratività ha iniziato ad investire nei paesi del sud-est asiatico, finanziando un’economia altamente dinamica. Il circolo virtuoso dei paesi del sud-est asiatico si è completato anche grazie ad un costo della forza-lavoro bassissimo. In virtù dei bassissimi salari le tigri asiatiche riuscivano ad esportare sui mercati mondiali e nello stesso tempo mantenevano in pareggio i conti con l’estero. Il meccanismo dello sviluppo economico si è basato su alcuni fattori chiave. Da un lato i capitali stranieri davano le necessarie garanzie di finanziamento delle economie, dall’altro lato le esportazioni delle merci sul mercato mondiale garantiva un equilibrio nei conti con l’estero. Per evitare che l’afflusso di capitali si traducesse in importazione d’inflazione, tutte le monete dell’area del sud-est asiatiche si sono ancorate al dollaro statunitense. La parità fissa delle monete nazionali con il biglietto verde ha dato nel corso degli anni ottanta e primi anni novanta degli indubbi vantaggi alle economie delle tigri asiatiche. Infatti l’ancoraggio al dollaro non solo ha permesso loro di vedere affluire capitali a tassi d’interesse più bassi rispetto a quelli che si avrebbero avuti senza la parità fissa, ma grazie al costante deprezzamento del dollaro rispetto alla moneta giapponese le tigri asiatiche hanno potuto incrementare le esportazioni verso il Giappone e il resto del mondo.

Le difficoltà per i paesi del sud-est asiatico sono iniziate quando nel corso dei primi anni novanta il Giappone sprofonda in una gravissima crisi economica e non può più investire capitali nei paesi dell’area circostante. Lo scoppio della bolla speculativa dei primi anni novanta non solo ha messo in crisi l’intero sistema bancario e finanziario nipponico ma ha praticamente privato le tigri asiatiche della principale fonte di finanziamento delle loro economie. Il primo provvedimento preso dalla borghesia giapponese è stato quello di ritirare i capitali investiti sui mercati internazionali per impiegarli sul mercato interno nel tentativo di dare ossigeno all’asfittica economia reale. Le difficoltà giapponesi non si ripercuotano solo sul piano finanziario ma anche sul piano commerciale; la contrazione del mercato giapponese provoca un vero e proprio tracollo delle esportazioni dei paesi del sud-est asiatico. La situazione economica per molti paesi asiatici precipita quando nel 1995 gli Stati Uniti, per risollevare le sorti dell’economia giapponese, impongono una brusca inversione di tendenza nelle quotazioni del dollaro rispetto allo yen. Dopo gli anni della svalutazione, il dollaro ha iniziato ad apprezzarsi rispetto alla moneta nipponica accentuando ancor di più gli squilibri economici dei paesi asiatici. Con la svalutazione dello yen il Giappone è riuscito a rilanciare le proprie esportazioni ma nello stesso tempo ha messo ancor di più in difficoltà le economie delle tigri asiatiche.

La rivalutazione del dollaro ha delle conseguenze disastrose anche sul fronte del debito pubblico delle tigri asiatiche; infatti per mantenere la parità fissa della propria moneta rispetto al dollaro, le banche centrali sono costrette ad aumentare i tassi d’interesse con la conseguenza di aumentare gli oneri del debito pubblico. L’aumento dei tassi d’interesse produce la naturale conseguenza di spostare i capitali dal mercato azionario a quello dei titoli sul debito pubblico con la conseguenza di determinare un’inversione di tendenza nella crescita degli indici azionari. Finisce il boom delle borse e il grande capitale finanziario scappa verso lidi più remunerativi.

Crollo delle esportazioni, conti con l’estero sempre più in rosso e un debito pubblico fuori controllo, sono all’origine della crisi finanziaria che ha colpito le tigri asiatiche. In questo contesto contrassegnato da una profonda crisi economica si è inserita la speculazione finanziaria che ha colpito in primo luogo quei paesi come la Thailandia che più di altri si trovavano in difficoltà. Nell’attacco speculativo sono saltate le parità di tutte le monete locali con il dollaro, con la sola eccezione della moneta di Hong Kong che, grazie alle riserve valutarie della Cina, è riuscita finora a mantenere l’ancoraggio con la moneta americana.

Nel momento in cui scriviamo, tra riprese degli indici azionari e nuovi scivoloni borsistici, la tempesta finanziaria sembra placarsi ma l’eredità che ci lascia è pesantissima. Il capitalismo in questa fase storica in cui dominano le forme di accumulazione più parassitarie, in cui il capitale finanziario pur essendo impiegato fuori dalla produzione pretende di partecipare alla spartizione del plusvalore estorto al proletariato, potrebbe anche superare l’attuale crisi finanziaria ma ciò può solo avvenire attaccando ulteriormente le condizioni di vita del proletariato mondiale imponendogli nuovi e pesanti sacrifici in termini di riduzione del costo del lavoro.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.