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Home ›L’ideologia dominante è quella della classe dominante
“L’ideologia dominante è quella della classe dominante” affermava Marx più di 150 anni fa, e mai la veridicità di tale affermazione è risultata lampante e verificabile come nei giorni nostri: non c’è questione in cui non domini il punto di vista della borghesia anche quando è in netto contrasto con la realtà o palesemente la falsifichi. Un esempio: la crescita della disoccupazione giovanile. La tesi che con martellante insistenza vieni correntemente ribadita sostiene che c’è un’elevata disoccupazione giovanile perché l’età pensionabile sarebbe troppo bassa. Se si eliminassero le pensioni di anzianità (quelle per cui un lavoratore può andare in pensione anche se non ha raggiunto il limite d’età purché abbia almeno 35 anni di contribuzione) - dicono i tromboni della borghesia - lo Stato potrebbe destinare i soldi così risparmiati alla creazione di nuovi posti di lavoro riducendo così la disoccupazione giovanile. Ora, basta saper far di conto con le dita per rendersi conto che questa è una bufala grossa quanto una casa. Supponiamo, infatti, che un lavoratore di cinquanta anni smetta di lavorare percependo una pensione di due milioni al mese e che egli viva fino all’età di 72 anni - l’età media di sopravvivenza - in tutto percepirà, compreso le tredicesime, 572 milioni ovvero poco più poco meno di quanto normalmente è mediamente necessario investire nell’industria per creare un nuovo posto di lavoro, con la non trascurabile differenza che se si deve creare un posto di lavoro l’investimento non può essere dilazionato, come per la pensione, nel tempo. Inoltre, se si tiene conto che nella realtà il periodo medio di percepimento della pensione è circa la metà di quello da noi ipotizzato e che due milioni al mese di pensione li percepisce una minoranza, appare evidente che anche eliminando completamente le pensioni i nuovi posti di lavoro che si potrebbero creare con i risparmi che ne deriverebbero sarebbero davvero pochi mentre occorrerebbe che la loro crescita fosse maggiore poiché si dovrebbe compensare il rallentamento del turn-over (la sostituzione di un lavoratore più anziano con uno più giovane) dovuto all’allungamento della vita lavorativa. Anche prescindendo dall’ovvia - ma non per questo meno importante - considerazione che i posti di lavoro si creano solo se esistono le condizioni di mercato che giustifichino una produzione di merci aggiuntiva o che negli ultimi venti anni i nuovi investimenti sono serviti soprattutto a distruggere posti di lavoro, la tesi della borghesia è palesemente infondata, eppure si è a tal punto insinuata nella coscienza collettiva da essere stata fatta propria anche da fette consistenti di proletariato giovanile e da numerosi lavoratori. La borghesia in realtà sa che quanto vanno sostenendo i suoi esperti, i suoi economisti e i suoi ideologi è falso; ma ha assoluto bisogno di ridurre ulteriormente il salario e poiché quello diretto (quello percepito in busta-paga) è ormai ridotto all’osso attacca quello indiretto (pensioni, trattamento di fine rapporto ecc.) senza andare tanto per il sottile, consapevole che detenendo il potere è in grado di imporre l’idea secondo cui i suoi interessi sono anche gli interessi dell’intera società e quindi anche del proletariato.
Un altro esempio. Si dice ai disoccupati che per creare nuovi posti di lavoro occorre liberalizzare il mercato del lavoro e si fa riferimento agli Stati Uniti dove grazie alla liberalizzazione ci sarebbe addirittura il pieno impiego. Nello scorso numero di Bc abbiamo segnalato che, per esempio, secondo Rifkin, negli Usa, il tasso di disoccupazione sarebbe pari al 13-14 per cento della forza lavoro; ma in Italia e nel mondo si continua tranquillamente a ignorare queste obiezioni e si esalta il modello statunitense. Si potrebbe pensare che forse Rifkjn non è ritenuto sufficientemente attendibile; sennonché su Le Monde Diplomatique dello scorso gennaio leggiamo che il dato statunitense è fornito dall’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) e
... Ottenuto mediante un sondaggio presso le famiglie. A ciascuna persona viene chiesto se abbia lavorato “anche soltanto per un’ora” durante la settimana di riferimento... Se la persona risponde affermativamente, viene classificata fra gli occupati. In caso contrario, le viene rivolta una seconda domanda: “Lei ha cercato attivamente un lavoro durante la settimana di riferimento?” In caso di risposta affermativa, segue una terza domanda: “Lei è immediatamente disponibile per un’occupazione?” Solo quelli che hanno risposto affermativamente a queste ultime due domande sono classificati disoccupati.
Non c’è che dire: una metodologia davvero scientifica che farebbe impallidire i polli di Trilussa. In realtà, tutti sanno che negli Stati Uniti la situazione occupazionale non è molto diversa da quella italiana, ma qui come negli Stati Uniti sta emergendo con sempre maggior forza l’incapacità del sistema a tirarsi fuori dalla crisi di ciclo che lo attanaglia da più di venti anni. In un primo momento si pensava che la ristrutturazione industriale avrebbe favorito la nascita di nuovi settori capaci di assorbire l’eccedenza di manodopera che si andava formando nei settori tradizionali; poi che sarebbe stato il terziario, ma poiché entrambe le aspettative sono andate deluse, ora si punta alla globalizzazione del mercato del lavoro convinti che essa, consentendo l’industrializzazione di nuove aree, alla fine si traduca in una crescita complessiva del mercato e della base produttiva capace di riassorbire i surplus sia di capitali che di forza-lavoro che si vanno accumulando su scala mondiale; ma, intanto, la globalizzazione ha scatenato una vera e propria guerra commerciale combattuta a colpi di incrementi della produttività del lavoro e di riduzione del suo costo. In questo contesto, i salari dei lavoratori dei paesi maggiormente industrializzati risultano sempre molto elevati rispetto a quelli dei lavoratori di aree come il Sud-est asiatico o l’Europa dell’est per non parlare della Cina (il costo del lavoro in Corea è di quattro dollari l’ora contro i ventiquattro in Europa) e si cerca in tutti i modi di ridurli; ma una riduzione di queste dimensioni non è cosa che si possa ingoiare facilmente; occorre camuffarla affinché chi la subisce si convinca che sia un’altra cosa e che serva a qualche nobile causa quale il futuro dei propri figli e in generale dei giovani. I figli come si sa “sono piezze e core” e per loro si fa di tutto; si accetta anche un salario molto più basso tanto più se la riduzione prende il nome di liberalizzazione del mercato del lavoro o flessibilizzazione. Non importa che essa serva veramente a creare nuovi posti di lavoro, ciò che conta è che diventi convinzione comune che conviene a tutti, che è nell’interesse collettivo realizzarla. Mario Pirani, per esempio, dimenticando il suo passato di stalinista, prima e di keynesiano poi, non esita a esaltare il lavoro nero e a sollecitarne la legalizzazione:
... La via per creare occupazione passa per una liberalizzazione piena del mercato del lavoro, legalizzando le situazioni di fatto e facilitando il sorgere di nuove imprese.
La Repubblica del 3 febbraio 1997
Solo qualche anno addietro gente come questa voleva farci credere che il capitalismo era quanto di meglio ci potesse essere in quanto capace di contemperare i suoi spiriti animali (il mercato) con la tutela dei più deboli, ora poiché appare sempre più evidente che non è in grado di contemperare un bel nulla si vuole far credere che la causa di tutti i mali è da ricercarsi proprio nel fatto che gli spiriti animali non sarebbero liberi di esprimersi compiutamente. Non è vero, ma è conforme agli interessi della classe dominante e quindi, in quanto punto di vista della classe dominante, diventa idea dominante. Solo la presenza del partito di classe capace di contrapporre alla falsificazione della realtà la sua critica puntuale può incrinare un tale dominio e creare le condizioni per la sua totale rottura; in mancanza, la classe dominante resta tale e così le sue idee.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio 1997
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