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Home ›Alle prese con la crisi
La distanza stellare che separa tutta l’area dei Centri Sociali, Cobas ecc. dal marxismo, è ancora più evidente se si va ad analizzare in dettaglio ciò che scrivono sulla loro stampa.
Una delle prime cose che balza agli occhi (come un pugno!) è la massima confusione (già rilevata fino alla noia) sui meccanismi della crisi: se il tono dello scritto è battagliero, la causa principale del corto circuito del capitale sono, appunto, la classe operaia e/o soggetti sociali non meglio identificati, oppure si può anche leggere che essa è provocata da “stato, industria (che vorrà dire?), regione, comune o altro (gli UFO?)” (C.S. Garibaldi, da Incompatibili, maggio 1994, pag. 11).
È evidente, anche a chi sappia appena sillabare l’ABC del comunismo, come il rapporto tra struttura e sovrastruttura sia esattamente invertito: lo stato e le sue articolazioni periferiche sono semplicemente la forma politico-istituzionale che un particolare modo di produzione si dà (oggi, il capitalismo); esse possono temporaneamente amministrarla, ma mai generarla, visto che questa ha origine negli specifici meccanismi economici che stanno alla base della società, e non nelle sue istituzioni. E siccome stiamo per avvicinarci all’argomento, diciamo subito che quello che la galassia dell’autorganizzazione presenta come la sua parola d’ordine più qualificante (ma lo è anche per il Manifesto e Rifondazione comunista), cioè la riduzione d’orario a parità di salario e di ritmi, sconta, una volta di più, una profonda incomprensione dei meccanismi del capitalismo.
La crisi strutturale del ciclo di accumulazione capitalistico, cominciata oltre vent’anni fa, ha eroso ogni spazio di mediazione e di riformismo, per cui non ci sono spazi per impostare una strategia di lotta economica pura e semplice che, per sua natura, va immediatamente a scontrarsi con le compatibilità del capitale.
Questi, oggi, ha una necessità assoluta e vitale di estorcere quanto più plusvalore possibile alla classe operaia ossia, detto in altri termini, di sfruttare come, quanto e quando vuole i lavoratori senza vincoli di sorta, proprio perché dopo la rivoluzione del microprocessore, dopo le imponenti ristrutturazioni degli anni ’80, la caduta del saggio di profitto si è dimostrata inarrestabile e il capitalismo è di nuovo al punto di partenza: dal ciclo produttivo alla fine non esce un profitto sufficiente a compensare i giganteschi investimenti in macchinari fantascientifici, e poiché non sono questi ultimi che creano il profitto, nonostante le illustri idiozie dei premi Nobel dell’economia, ma solo il lavoro vivo, il lavoro umano, ecco che in tutto il mondo si è aperta la gara a chi riesce a spremere sempre di più la forza-lavoro.
Come dicevamo all’inizio, l’abbassamento del salario, la precarietà dilagante del posto di lavoro, cioè l’adattabilità completa alle esigenze dell’azienda da parte dei lavoratori, non si possono arrestare con una normale lotta sindacale: in determinate fasi storiche, eventuali lotte di massa vanno a intaccare direttamente nel vivo il ciclo vitale del capitalismo, trasformandosi per ciò stesso in lotte politiche.
“Sulla base del modo di produzione capitalistico nessuna organizzazione di resistenza sindacale, per quanto potente essa sia, è in grado di bloccare questa tendenza [la caduta del saggio di profitto]. Qui ci troviamo confrontati con il limite oggettivo dell’azione sindacale. A partire da un determinato punto dell’accumulazione, il plusvalore disponibile non è più sufficiente a continuare l’accumulazione con il livello salariale dato. O il livello salariale precedente deve venir compresso al di sotto del livello che ha avuto fino a quel momento, o invece deve bloccarsi l’accumulazione, cioè deve crollare il meccanismo capitalistico. Lo sviluppo stesso delle cose tende quindi a produrre e ad accentuare le contraddizioni interne tra capitale e lavoro, fino al punto in cui la soluzione può essere trovata soltanto attraverso la lotta fra questi due momenti, [ragion per cui...] ai livelli più elevati dell’accumulazione capitalistica ogni serio aumento salariale si scontra con difficoltà sempre crescenti, perché ogni grande lotta economica si trasforma necessariamente in una questione di vita o di morte per il capitalismo e quindi in una questione di potere politico.” (H. Grossmann, La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalistico, in Il futuro del capitalismo, cit. pag. 464 e 468)
Queste parole, scritte poco prima della crisi del 1929, riteniamo siano ancora più vere oggi, e non tanto perché le abbiano dette questo o quel teorico marxista, quanto perché è la realtà che conferma continuamente l’analisi (marxista).
Se, ad esempio, prendiamo due tra i più significativi episodi della lotta di classe degli ultimi quindici anni (e non sono tanti), cioè la lotta alla FIAT del 1980 e quella dei minatori inglesi del 1985, vediamo che la classe operaia in entrambi i casi si scontrava con le necessità vitali di ristrutturazione radicale dell’apparato produttivo (robotizzazione, chiusura dei pozzi ecc.) dettate dal capitalismo su scala mondiale e che una lotta di tipo semplicemente sindacale (anche se non fosse stata condotta, come è stato, da sindacati totalmente asserviti alla logica padronale) avrebbe comunque condotto a una sconfitta.
Questo però non significa, ovviamente, per le avanguardie realmente comuniste presenti nelle lotte, rifiutarsi di lottare, al contrario, facendo proprie le rivendicazioni economiche di difesa immediata delle condizioni di vita, esse devono mettersi alla testa delle lotte stesse, diventando punto di riferimento di tutta la classe. Persino una sconfitta, patita sul terreno economico, può trasformarsi in una “vittoria” se ne discende un’acquisizione politica.
In altre parole, partendo, come si diceva, dalla difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro, occorre andare oltre il dato economico legato alla questione politica e, dunque, trasformare le lotte rivendicative in un primo momento di scontro politico come premessa del decollo del processo rivoluzionario.
È precisamente quanto non fanno tutte le componenti, soprattutto sindacaliste, dell’area dell’autorganizzazione le quali, invece, accettano in pieno le regole del gioco, tra cui, almeno per alcuni, il ricorso alla pratica democraticistica del referendum. Altro che classe contro classe: ci si illude ancora che dentro i meccanismi truffaldini della società borghese i reali interessi dei lavoratori possano essere tutelati con gli stessi strumenti che la borghesia si è data per disorientare e ingannare le masse.
In ogni caso, la prospettiva è sempre e comunque quella di trovare accomodamenti impossibili e risibili dentro e per questo ordine sociale, mai contro, se non in un futuro estremamente vago e lontano, fumosamente evocato per giustificare verbalmente l’etichetta che ci si è appiccicata addosso di comunisti e/o antagonisti. Che cos’è, infatti, la richiesta allo stato di destinare ingenti somme per la promozione di “lavori socialmente utili” al fine di assorbire la disoccupazione, se non il ripescaggio di politiche keynesiane, cioè borghesi, che hanno avuto lo scopo, finché hanno potuto, di mandare avanti la baracca capitalista, attutendo le sue insanabili contraddizioni? Nell’economia del capitale gli unici lavori socialmente utili sono quelli che danno un profitto adeguato ai livelli di accumulazione dati -tant’è vero che la stessa azienda produce indifferentemente farmaci per la cura del cancro e la diossina che lo provoca, purché abbiano un mercato solvibile, cioè compratori paganti - e se per cinquant’anni tutti gli stati hanno potuto, in forme diverse, destinare una parte della ricchezza prodotta dalla classe operaia verso settori (servizi, ammortizzatori di vario tipo ecc.) che non creano profitto, ma piuttosto assorbono una quota di quello complessivo, è semplicemente perché prima esistevano margini tali che era addirittura conveniente al capitale percorrere questa strada: non solo si sosteneva una domanda solvibile, ma si rafforzava la pace sociale, distribuendo le briciole della torta che i lavoratori, complessivamente, avevano preparato, cucinato e solo assaggiato.
Oggi, al contrario, le esigenze sono altre, e precisamente destinare anche quelle briciole al processo di accumulazione, tagliando tutte le spese improduttive.
Andare contro la linea di tendenza del capitalismo odierno che è indiscutibilmente quella (sta sotto gli occhi di tutti) di sbarazzarsi dei settori non produttivi, in primis dei servizi sociali, significa porre immediatamente il problema politico della rottura con le compatibilità economiche, dunque prepararsi -e preparare - a uno scontro di classe che, ancora una volta, ponga le premesse del “decollo rivoluzionario” .
Tagliare l’erba nei giardini pubblici, infatti, non dà profitto, ma può solo distribuire reddito, se ce n’è abbastanza per poterlo fare....
Come si suol dire, l’errore dunque è già nel manico, perché non si capisce - o se si capisce non se ne tirano le necessarie conclusioni - che la società capitalistica è fondata sulla merce, sul rapporto mercantile, sul valore di scambio, a cominciare dallo scambi (sfruttamento) della forza-lavoro contro denaro; è da qui che hanno origine le strutture portanti di questa lurida società: salario, profitto, rendita.
Tutto è merce dunque, tutto è sottoposto al rapporto mercantile, al denaro come capitale (che scambiandosi con la forza-lavoro deve, alla fine del processo produttivo, uscire accresciuto, cioè profitto). Credere di poter intervenire su questi meccanismi senza prima distruggere l’apparato statale che li difende, è spargere gravissime illusioni, significa sterilizzare di fatto propositi e intenzioni di migliaia di compagni, significa insomma - e siamo sempre lì - essere sul terreno del più trito e sputtanato riformismo.
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