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La svalutazione della lira
A leggere la stampa borghese anche quella specializzata se ne ricava la sensazione che la lira sia stata costretta alla svalutazione per colpa del medico della mutua, delle pensioni e della scala mobile e ovviamente del fatto che i lavoratori non amano il dio Maastricht. Ma le cose non stanno così.
La moneta non è ricchezza in sé, ha valore in quanto può essere scambiata con ogni merce e, soltanto in quanto titolo rappresentativo di tutte le merci, essa stessa diviene merce e quindi capitale. Il suo valore dunque, come quello di qualunque altra merce, può, sul mercato discostarsi dal contenuto reale della merce, cioè dalla quantità di lavoro in essa contenuto, ma solo per periodi di tempo limitati e a condizione che a una merce sopravvalutata ne corrisponda un'altra sottovalutata. La lira si trovava, prima del 13 settembre, inserita nello Sme (Sistema Monetario Europeo) regolato da una serie di accordi, fra gli stati membri, che vincolavano ognuno di essi a operare sui mercati finanziari affinché le parità concordate fra le varie monete stessero entro una determinata fascia di oscillazione. Ad esempio concordato un cambio lira/marco a 740 lire la Banca d'Italia e la Bundesbank avevano l'obbligo, in presenza di oscillazioni superiori a quelle prefissate, di intervenire sul mercato vendendo o comprando la rispettiva moneta eccedente o carente rispetto alla domanda e l'offerta proveniente dal mercato stesso. E, quel che si dice, un sistema di cambi fissi. Perché un tale sistema possa reggervi è necessario che le parità fissate dalle banche centrali rispecchino i reali rapporti economici fra i paesi che a quel sistema sono legati. Eventuali divaricazioni possono sussistere soltanto per periodi di tempo limitati o per ragioni extra-economiche quali quelle di politica estera del paese più forte o oppure per imposizione di un potere imperialistico. Alla lunga, comunque, i prezzi delle monete (i cambi) tendono a livellarsi sui loro effettivi valori. I movimenti di moneta in sé non producono nuova ricchezza, ma solo spostamenti di ricchezza; pertanto la permanenza di rapporti di cambio non aderenti alla realtà determina uno spostamento di ricchezza effettiva, dalla moneta sottovalutata verso quella sopra-valutata.
Si comprende bene, dunque, che in un mondo in cui "nisciuno è fesso" anzi in un mondo in cui in genere il più forte mangia il più debole, una situazione svantaggiosa per il più forte è destinata a durare lo spazio di un mattino con o senza Maastricht, con o senza un regime di cambi fissi, con o senza moneta unica.
Dopo la caduta del muro di Berlino, la Germania, la più forte, è venuta a trovarsi in una situazione estremamente complessa. Da una parte, caduto il muro e con esso l'impero sovietico, ha avvertito come meno impellente la necessità di stare in un sistema di alleanze che la garantisse da eventuali attacchi dall'Est e quindi ha potuto godere di una libertà di manovra senza precedenti; dall'altra si è trovata di fronte a un impegno economico finanziario di proporzioni gigantesche derivante dai costi della riunificazione. Il tutto a fronte di un sistema economico-produttivo efficientissimo e di gran lunga il più competitivo su scala europea e secondo solo al Giappone su scala mondiale. Caduti gli obblighi d'ordine politico, sono venute meno le ragioni che potessero giustificare politiche economiche di sostegno a chicchessia e autolimitanti. È sorto da qui Maastricht: dalla necessità tedesca di omogeneizzare economicamente e politicamente l'area europea in relazione alla nuova situazione conseguente al crollo dell'impero sovietico e da quella dei partner di limitare lo strapotere tedesco senza cadere nelle braccia statunitensi.
Per anni la forte Germania ha dovuto pagare alla superpotenza statunitense una pesante "tangente" per la protezione da eventuali attacchi provenienti dall'Urss e di questo stato di cose han potuto beneficiare un po' tutti i suoi alleati ed essa stessa laddove ha potuto comunque operare su un mercato di dimensioni continentali più consono alla sua potenza economica pur non avendo un corrispondente peso politico.
Rotti i vecchi equilibri e modificatesi le linee di demarcazioni dei mercati mondiali sono saltate anche le precedenti convenienze, in particolar modo per la Germania. A Est, essa ha intravisto un mercato ricco di manodopera a basso costo e perciò molto allettante, ma anche bisognoso di giganteschi investimenti. Per fronteggiare i quali le si offrivano due possibilità senza che l'una escludesse l'altra: o inasprire il prelievo fiscale al proprio interno comprimendo i livelli di vita nazionali o facendo affluire verso il proprio sistema economico-finanziario capitali dall'estero. La scelta ha privilegiato la seconda via, benché i lavoratori tedeschi non siano stati del tutto risparmiati visto che è stato loro imposto un rigido ancoraggio dei salari reali alle necessità nuove del capitale nazionale.
E partita di conseguenza una politica di relativi alti tassi di interesse che ha determinato, nel corso degli ultimi due anni, un afflusso continuo di capitali verso il marco. Nell'ultimo anno, poi, la recessione statunitense, imponendo alla Fed (la banca centrale degli Usa) una politica di bassissimi tassi, ha reso ancora più appetibile il marco e ciò senza che i tassi d'interessi venissero spinti a livelli stratosferici. Alla Bundesbank è bastato mantenere un tasso attorno all'otto per cento per veder affluire nelle sue capienti casseforti valuta da ogni angolo della terra. Si tratta di tassi che non preoccupano più di tanto la potenza tedesca visti i divari di competitività che vanta rispetto ai concorrenti e in particolar modo nei confronti degli Usa e della Gran Bretagna. Nonostante il rialzo dei tassi degli ultimi anni la bilancia commerciale tedesca vanta a tutt'oggi un attivo di 80 miliardi di dollari. La stessa cosa non può dirsi invece per l'Italia. Con un debito pubblico stratosferico, conseguenza del sostegno dato dallo stato ai processi di ristrutturazione degli anni ottanta, per la banca centrale italiana ogni punto in più del saggio d'interesse è un pugno in un occhio di 15 mila miliardi l'anno. D'altra parte, non seguire la Germania avrebbe potuto soddisfare i settori dell'industria di stato e un numero ridotto di imprese il cui export è orientato verso i mercati extra europei, ma non certo la grande industria nazionale, Fiat in testa, saldamente ancorate in Europa e a loro volta orientate verso i paesi dell'Est; senza tener conto che un'alta quotazione del marco determina in qualche modo quotazioni del dollaro relativamente basse, cosa che favorisce l'approvvigionamento di materie prime, quali il petrolio tuttora quotato quasi esclusivamente in dollari.
Ne è scaturita una linea di condotta sostanzialmente allineata a quella tedesca fatta di una costante crescita dei tassi d'interesse, senza che all'interno si provvedesse a ridurre il debito pubblico. Si sono così sommate due spinte al rialzo dei tassi: una nazionale e l'altra internazionale, la cui risultante è stata una costante tendenza al rialzo della lira non corrispondente alla crescita dell'economia reale nell'ultimo anno, questo meccanismo perverso ha portato a un incremento dei tassi d'interesse di oltre cinque punti ingrassando a dismisura i percettori di rendite finanziarie. Alle imprese, in quanto detentrici, insieme alla banche, della quota più cospicua dei titoli del debito pubblico, questo stato di cose per un po' ha fatto comodo, consentendo loro di recuperare sul terreno finanziario quanto andavano perdendo su quello produttivo, se non più. Alla lunga, però, la situazione è divenuta insostenibile. L'agognata ripresa dell'economia mondiale e statunitense in particolare, si è mostrata una chimera. Il mercato dell'Est prima di divenire tale ha dimostrato di aver bisogno di tanti e tali investimenti da far rizzare i capelli a chiunque; e la guerra del Golfo che, secondo qualche imbecille nostrano, doveva spalancare le porte ad una nuova fase di espansione dell'economia mondiale, si è mostrata come un'accorta mossa statunitense mirante a garantirsi il controllo totale del mercato del petrolio in quanto segmento decisivo del processo di formazione della rendita finanziaria internazionale e della sua suddivisione. Di essa, per il momento, hanno beneficiato solo gli Stati Uniti che hanno potuto abbassare i tassi di interesse nonostante la tendenza internazionale fosse di segno opposto.
Lira sopravalutata e alti tassi di interesse hanno ben presto dato i loro frutti velenosi accentuando i fenomeni recessivi e facendo perdere competitività all'intero sistema produttivo con riflessi considerevoli sulle esportazioni che sono andate calando paurosamente nell'ultimo anno. E stato a questo punto che la speculazione finanziaria internazionale si è mossa: quando cioè è stato evidente che nessuna delle condizioni che avrebbero potuto consentire un riequilibrio della situazione italiana si sarebbe determinata. Per evitare gli attacchi occorrevano o un profondo mutamento nella politica monetaria tedesca o una ripresa internazionale che consentisse il riassorbimento di una parte del debito. Essendo le due cose impossibili al momento, era evidente che la parità lira/ marco andava rivista e che bisognava operare affinché la spinta endogena al rialzo dei tassi di interesse si affievolisse mettendo il sistema nella condizione di recuperare sul terreno produttivo quanto avrebbe perduto su quello finanziario.
Una vittoria della borghesia
E infuriata, e infuria tuttora, la polemica attorno all'operato del governo che sarebbe intervenuto in ritardo lasciandosi cogliere di sorpresa dal mercato, dando così a intendere che tutte le responsabilità dell'attuale stato di cose siano da addossare unicamente al ceto politico incapace, corrotto e corruttore. Non saremo certo noi a spendere parole in difesa di questa masnada di truffaldini, ma una tale semplificazione conduce all'assoluzione del sistema e alla illusoria tesi che possa bastare un cambio della guardia per rimettere tutto in sesto. Che vi siano responsabilità d'ordine pubblico è indubbio, ma i guasti discendono direttamente dalle contraddizioni strutturali del capitalismo giunto ai limiti dell'esplosione.
Il governo avrebbe dovuto, sostengono industriali, giornalisti e professori, svalutare a freddo la lira e nel contempo avviare una manovra di drastica riduzione delle spese e di rimpingua mento delle entrate con l'obbiettivo di ridurre in maniera significativa il deficit di bilancio. La riduzione del deficit e più in generale del debito avrebbe potuto consentire una riduzione dei tassi di interesse liberando così risorse a favore del mondo produttivo.
Se si fa mente locale non si può non rilevare che questa litania risuona da sempre nelle stanze del potere e su tutta la stampa borghese. Chi ha impedito che dalle parole si passasse ai fatti? Non certo i sindacati che da un ventennio e più hanno accettato tutto e il contrario di tutto quando si è trattato di colpire la classe operaia e il proletariato in generale. Non certo l'ex Pci, ora Pds che della politica dell'austerità ha fatto la sua bandiera sin dagli anni d'oro (in termini elettorali) di Berlinguer, né vigorosi movimenti di opposizione dei lavoratori visto che nell'ultimo decennio abbiamo avuto solo sporadici episodi di lotta e tutti rimasti sempre nell'ambito del gruppo o della categoria. E stato così docile il mondo del lavoro che è stato possibile senza colpo ferire prima bloccare e poi dimezzare il meccanismo della scala mobile fino al definitivo annullamento, senza contare la lunga serie di stangate fatte di nuove gabelle, di ticket sui farmaci, di imposte sulle imposte e via dicendo.
È evidente che se la manovra da tutti, a chiacchiere, auspicata non è stata attuata per tempo, non lo si deve certo a una mancanza di volontà nel colpire i lavoratori. Questa è sicuramente l'unica accusa che non può essere mossa al cosiddetto ceto politico: ogni qual volta è stato necesario il governo ha infilato le sue mani non proprio pulite sempre e solo nelle tasche dei lavoratori facendo accurata pulizia.
La paralisi decisionale in termini di risanamento del debito pubblico si è fatta particolarmente acuta negli ultimi due anni e cioè quando si è reso evidente che la completa liberalizzazione del mercato comunitario, prevista per il 1993, avrebbe imposto una profonda ristrutturazione dell'intero apparato produttivo nazionale. Le divisioni interborghesi sono diventate di conseguenza molto acute e si sono trasferite all'intero apparato statale scatenando una lotta per il potere senza precedenti.
Si sono fronteggiate almeno quattro fazioni. La grande industria privata, tutta nelle mani delle solite tre o quattro grandi famiglie, l'industria di stato controllata e lottizzata dai partiti governativi, il mondo della finanza ovvero banche, società finanziarie, compagnie di assicurazioni, media e piccola industria con tutte le varie lobbies che chi più chi meno ognuno di questi gruppi capeggia.
Le divisioni e le alleanze sono state ovviamente molto più articolate poiché nella realtà è difficile tracciare un confine netto, ad esempio, tra grande industria e finanza, tra media e grande industria e così via. Ma nondimeno la schematizzazione è utile per comprendere la colossale truffa subita dai lavoratori e quelle ancora più colossali che il futuro loro riserva.
L'introduzione della microelettronica nei processi produttivi ha determinato un'ulteriore modificazione della composizione organica del capitale a favore del capitale costante. Per un verso ciò ha incrementato la produttività del lavoro e i profitti industriali, ma anche modificato la dimensione ottimale delle imprese. Se, ad esempio, la Fiat, prima della grande ristrutturazione, poteva considerare ottimale un dimensionamento su base nazionale, dopo ha dovuto per forza di cose guardare a un dimensionamento d'ordine continentale. Il processo alla concentrazione e alla centralizzazione dei capitali ha ricevuto dalla rivoluzione tecnologica una spinta enorme, tutt'altro che esaurita, che nei prossimi anni stravolgerà completamente la faccia del capitalismo mondiale. Questa corsa frenetica alla concentrazione ha richiesto e richiede una massa imponente di capitali, interessando praticamente tutti i settori. Banche, industria pubblica e privata, chi più chi meno si sono lanciati a succhiare latte dalla grande mammella statale. E lo stato ha lasciato succhiare. Ancora una volta a sostenere il capitalismo nei suoi passaggi cruciali ha provveduto, come già aveva rilevato Marx, lo stato incrementando il debito pubblico. Bot, Cct e tutta quella montagna di cartaccia che stampa il Ministero del Tesoro non a caso posseduta per i 4/5 da banche e imprese e solo per il rimanente dai privati. In mano a costoro i titoli di stato equivalgono al possesso di un capitale liquido che frutta interessi. E come se cambiassero mille lire che non fruttano nulla (come lire di salario ad esempio) con mille lire che fruttano un qualcosa che sarà tanto più alto quanto più alto è il livello dei tassi di interesse. E evidente che questo meccanismo favorisce quei gruppi dotati di una grande capacità di autofinanziamento e non gli altri. Le piccole imprese, ad esempio, che hanno bisogno per lo svolgimento della loro attività di approvvigionarsi presso le banche subiscono il rialzo dei tassi di interessi in maniera decisiva e con scarse possibilità di difesa.
La Fiat che controlla banche e dispone di una grande capacità di autofinanziamento, ha invece un interesse opposto almeno fino a quando il vantaggio che ne deriva sul terreno finanziario compensa gli svantaggi che gli alti tassi procurano all'attività più immediatamente produttiva. Il punto di equilibrio è quello per il quale la somma dei profitti industriali con le rendite finanziarie dà il massimo utile in relazione a una data situazione di mercato. Fino a quando non si è modificato il punto di equilibrio il debito pubblico in crescita costante ha fatto comodo anche a tanti odierni predicatori di austerità ed è solo per questa ragione che non si è intervenuti per tempo.
Con quali denari la Fiat ha acquisito l'Alfa Romeo e costruito il nuovo impianto di Melfi? Con quali De Benedetti si è lanciato nelle sue scorrerie oltre frontiera? Con quali Berlusconi ha praticamente monopolizzato il mondo dell'informazione e dell'editoria?
È ovvio che una tale gigantesca appropriazione indebita di ricchezza ha attraversato e attraversa l'intera società. La piccola industria lombarda, rimasta a corto di denaro a buon mercato, si è scatenata contro Roma ladrona e il sud parassita immaginando per sé chissà quali splendori nella ricca Europa unita. I partiti hanno avvertito il rischio di perdere le loro rispettive basi di consenso e si sono arroccati ancor più in difesa del loro tradizionale sistema di potere. La grande industria ha prima taciuto e poi quando i punti di equilibrio dei conti economici si sono modificati ha sferrato il suo attacco con l'ormai storica dichiarazione di Agnelli "la festa è finita". E aveva ragione: la mucca era stata spremuta fino all'ultima goccia
Ora, chiamale rendite finanziarie, chiamali tassi di sconto o di interessi, chiamala speculazione di borsa, di quattrini si tratta e cioè di valori rappresentativi di valore e non di valore in sé, che è dato solo dal lavoro che si incorpora nelle merci. Quando lo stato fa debiti in definitiva altro non fa che appropriarsi in anticipo di quote di lavoro futuro della classe operaia. Il capitalismo mediante il sistema del debito pubblico, ha portato lo sfruttamento della forza-lavoro al massimo grado poiché ha aggiunto allo sfruttamento immediato della fabbrica quello mediato dallo stato tramite l'estrazione di quote di lavoro futuro. Posto in termini di classe si capisce bene che la politica seguita dallo stato, seppure in maniera cialtrona quando non borbonica, ha soddisfatto innanzitutto gli interessi dei settori trainanti della borghesia impegnati nel processo di adeguamento delle imprese alla liberazione del mercato comune prevista per il 1993. Maastricht con tutto ciò c'entra poco o nulla: che venga rettificato o meno è una questione di grande rilievo in relazione ai processi di scomposizione e ricomposizione dei blocchi imperialisti da cui i lavoratori, il proletariato mondiale in nessun caso trarranno benefici.
Le leggi del mercato e la logica del profitto confliggono permanentemente con gli interessi del mondo del lavoro. E lo stato, i governi in questo conflitto non sono neutrali, ma rappresentano (e ne assumono la difesa) innanzitutto gli interessi capitalistici.
Con la complicità della macchina statale i lavoratori italiani sono stati gabbati due volte e caricati di un debito mai contratto e da onorare a tutti i costi. La manovra del governo Amato è dunque la logica conseguenza di una rapina perpetrata nel tempo: è l'ufficiale giudiziario che bussa alla porta del garante, solo che in questo caso il garante è stato dichiarato tale, come suol dirsi, d'ufficio e a sua insaputa.
La manovra del governo
Non vogliamo spingerci fino a sostenere che la crisi valutaria dello scorso settembre è stata una recita accuratamente preparata, ma non si può non rilevare che vi è stato un susseguirsi di eventi e un epilogo che lasciano quantomeno sconcertati.
In base agli accordi dello Sme un attacco speculativo contro una delle monete che ne fanno parte implica che le banche centrali debbano intervenire di concerto affinché le parità non mutino rispetto a quelle prestabilite. Ebbene, solo una settimana prima dell'uscita dell'Italia dallo Sme il presidente del Consiglio dichiarava, lasciando intendere dell'esistenza di un accordo con le autorità tedesche, che gli impegni sarebbero stati rispettati e che non pochi speculatori ci avrebbero rimesso le penne. Unico provvedimento: il rialzo dei tassi a breve di parecchi punti. Si tratta di una manovra classica che mira a rendere più onerose le operazioni speculative, ma che ha senso soltanto se si tratta di fronteggiare turbative transitorie. Sono cose che anche l'ultimo studente di economia comprende sfogliando un qualunque manuale di politica monetaria. Dobbiamo ritenere Amato e con lui Ciampi e tutto lo staff della Banca d'Italia una accozzaglia di imbecilli che si sono fatti spennare come polli in una battaglia persa in partenza? Sarà anche così, ma
quel che è certo è che l'operato di questi "imbecilli" ha aperto la porta ad una serie di provvedimenti di straordinaria efficacia. Dapprima si è rivista la parità ufficiale svalutando la lira del sette per cento rispetto al marco, poi la si è ritirata dallo Sme lasciandola libera di fluttuare sul mercato cosicché potesse svalutarsi di almeno un altro dieci per cento. In un sol colpo il capitalismo italiano ha incamerato una riduzione dei salari reali senza neppure contrattarla. Gridando al lupo poi la solita banda di "imbecilli" ha messo a punto una manovra che aldilà delle cifre presenta una caratteristica fondamentale: quella di aver predisposto una serie di sbarramenti affinché non vi sia per un lungo periodo di tempo alcuna possibilità di recupero, da parte dei lavoratori, delle perdite subite. Blocco della contrattazione, annullamento della scala mobile, blocco delle pensioni e revisione delle aliquote fiscali costituiscono una gabbia che ha per sbarre una maglia fittissima che non consente in alcun modo ai salari e agli stipendi di trattenere per sé nulla che non sia stato predeterminato centralmente. Di contro, la possibilità di contrattare individualmente o per gruppi di lavoratori, prevista dall'accordo del 31 luglio scorso, quote di salario direttamente collegate agli incrementi di produttività assicurano alle imprese forme di supersfruttamento molto intense, tanto più se si tiene conto che il blocco della scala mobile e della contrattazione collettiva introducono di fatto il regime salariale più basso che si sia mai avuto negli ultimi trenta anni.
Imperizia o strategia calcolata per tempo? Poco importa saperlo; importa invece capire che lo stato ha trasferito sui salari e sugli stipendi tutti i costi, nessuno escluso, della ristrutturazione capitalistica e della recessione consentendo al sistema un recupero di competitività che il Cer valuta pari al sei per cento con un cambio lira-marco a 850.
Le false opposizioni
Una riduzione del salario e degli stipendi che sfiora il trenta per cento val bene un'imposta patrimoniale del 7,5 per mille che poi, appena le acque si saranno calmate, silenziosamente si farà sparire e quindi: "viva il governo e viva l'Italia" così più o meno si è espressa la Confindustria non nascondendo la propria soddisfazione. E non c'è da stupirsene. Infame è invece l'atteggiamento delle opposizioni che hanno criticato il governo e per la sua debolezza nei confronti dei lavoratori e per l'iniquità della manovra (sindacati, Pds, Rifondazione, ecc.). E ancora più infami sono i progetti alternativi presentati da costoro che muovendo alcune partite di giro fanno credere che il risanamento, oltre che essere necessario e doveroso, sia comunque possibile cambiando questo governo con un altro composto da uomini dalle mani pulite. Così Occhetto appoggerebbe senza esitazioni un governo presieduto da quell'angioletto immacolato di Martelli e con ministro del tesoro quel fior fiore di lacché della Confindustria che è La Malfa. Facce nuove e mani pulite darebbero garanzia di equità e rigore.
Ora, se una cosa balza agli occhi è che il meccanismo del debito pubblico è quanto di più funzionale vi sia per la conservazione capitalistica in quanto consente la socializzazione delle perdite e la privatizzazione della ricchezza sociale in base alle esigenze dei cicli di accumulazione. Cosa diversa è il disavanzo di bilancio, tant'è che anche un bilancio in attivo o in pareggio non eliminerebbe il debito. Il disavanzo è dato dalla differenza negativa tra entrate e uscite, il debito dall'insieme delle spese a carico dello stato. Fatta la dovuta distinzione, emerge che a fronte delle spese a favore dei lavoratori (sanità, pensioni, ecc.) è previsto il pagamento da parte degli utenti di specifici contributi. Che lo stato poi dia la pensione anche al bottegaio che non ha mai versato un ghello o la mutua gratis ad Agnelli è solo la dimostrazione che la macchina statale non è neutra da un punto di vista di classe.
Ma ciò non toglie che nel distribuire farmaci e pensioni lo stato si comporta né più né meno che un qualunque istituto di assicurazione. Da questo lato il disavanzo può formarsi soltanto per precisa volontà politica quale quella di scaricare sui fondi pensione i costi della cassa integrazione o sulla sanità quelli per il mantenimento di uno sterminato esercito di clienti dei partiti o per il finanziamento indiretto dell'industria farmaceutica. Non è dunque la spesa sociale la fonte primaria del disavanzo. Il disavanzo si origina per forza di cose dalle quote di debito per le quali non è prevista un'entrata specifica. Queste quote di debito dovrebbero essere coperte dal prelievo fiscale. Ora, se togliessimo ad Agnelli e a tutti i suoi compari anche le mutande e agli autonomi e ai commercianti la pelle si calcola che vi sarebbero maggiori entrate per poco più di 60-80 mila miliardi di lire, come dire circa la metà dell'attuale disavanzo che è però una goccia nel mare del debito pubblico che ammonta a circa due milioni di miliardi di lire. Ed è questo milione e più di miliardi di lire che tiene in larga parte in piedi il sistema capitalistico e che dà origine alla formazione di una rendita finanziaria (interessi su Bot, Cct, ecc.) che ammonta a circa 200 mila miliardi di lire annue.
Anche ammettendo un bilancio in pareggio, cosa tutt'altro che impossibile, rimarrebbe sostanzialmente intatto l'insieme del debito e quindi il meccanismo di formazione di gran parte della rendita finanziaria.
Se si accetta un'economia basata sul denaro, cioè un'economia capitalistica, si deve, per forza di cosa, accettare anche questo perverso meccanismo di appropriazione indebita della ricchezza. L'opposizione che attacca le rendite finanziarie senza attaccare i rapporti di produzione capitalistici mente spudoratamente laddove lascia intendere che sia possibile l'esistenza degli uni senza gli altri.
Metti Cossutta alla presidenza del consiglio e ti dirà di fare sacrifici per la salvezza dell'economia nazionale e in omaggio alle sue mani pulite. Cosa cambia? Nulla. L'equità di cui si ciancia è semplicemente uno specchietto per allodole che devia l'attenzione dei lavoratori verso obbiettivi falsi e del tutto secondari consentendone la subordinazione totale agli interessi del capitale. Non può esservi equità laddove l'interesse di molti è subordinato all'interesse di pochi.
Le prospettive
Il presidente del Consiglio dopo aver avuto la certezza che i tagli previsti dalla manovra non sarebbero stati diminuiti nei loro termini quantitativi e che nessuno ne avrebbe posto in discussione i contenuti (blocco di salari, stipendi e pensioni ai livelli post-svalutazione), è apparso in televisione e ha annunciato che tutto quanto doveva esser fatto è stato fatto e che il paese, grazie a ciò, poteva ora guardare al futuro con più tranquillità tanto che il governo aveva previsto lo stanziamento di due mila miliardi per la costituzione di un fondo di sostegno alla disoccupazione. Ma c'è davvero un futuro tranquillo dietro l'angolo, seppure - diciamo così - più austero?
Aldilà di quanto dichiarato dal presidente del Consiglio, che in quanto a bugie ne dice un sacco e una sporta, la risposta è nelle cose.
Le manovre speculative che hanno travolto oltre alla lira, anche quasi tutte le altre monete europee e che ben presto si ripercuoteranno su quelle di tutti i paesi dell'Est europeo già disastrate per loro conto, non si originano per caso o per perversione di qualche finanziarie. Chi muove il capitale finanziario ha come obbiettivo la realizzazione del massimo profitto così come qualunque altra figura di capitalista. Il fatto che si privilegi l'investimento a breve termine, come quello appunto speculativo, nonostante il grande bisogno di capitali necessari per sostenere le attività industriali è già di per sé indice della presenza di contraddizioni gigantesche nella struttura economica mondiale.
Il capitalismo vive da oltre venti anni una crisi di accumulazione senza precedenti nella sua storia sia per i suoi contenuti quantitativi che qualitativi. Dal punto di vista quantitativo, l'internazionalizzazione del capitale ha fatto sì che non vi fosse angolo della terra che non ne sia stato investito. Dal punto di vista qualitativo è che trattandosi della crisi del capitalismo giunto al suo più elevato grado di concentrazione, del capitalismo monopolistico, è stata possibile una sua gestione, affatto diversa da quella praticata nelle precedenti grandi crisi di ciclo, tutta imperniata sul controllo della rendita finanziaria e sull'impoverimento progressivo di masse crescenti e di uomini. Per venti anni, il capitalismo ha ritenuto che questo tipo di gestione potesse consentirgli l'assorbimento delle nuove tecnologie sostitutive di manodopera e la riapertura di un nuovo e prolungato ciclo di accumulazione e di espansione. La lotta per il controllo delle vendite ha lasciato sul terreno milioni di morti in una infinità di conflitti cosiddetti locali e le macerie della seconda potenza mondiale. Il fatto che ciò sia accaduto senza un conflitto militare generalizzato ha fatto ritenere che il capitalismo, come il fantasma della leggenda, potesse sopravvivere a se stesso sempre e comunque ritenendo, in buona o cattiva fede, che fosse stata sconfitta la sua alternativa storica: il comunismo. In realtà la crisi ha distrutto la seconda potenza imperialistica che in quanto tale non poteva non essere che capitalistica. Di una forma di capitalismo sicuramente particolare, ma non per questo emendato dalle contraddizioni fondamentali che caratterizzano questa formazione sociale né della sua storicità e transitorietà.
Il capitalismo, per quanto paradossale possa apparire, sta crepando di se stesso: è cresciuto troppo e male. Dispone di forze produttive immense che teoricamente potrebbero condurre all'abolizione del lavoro umano, ma non riesce a utilizzarle appieno perché senza lavoro vivo, senza sfruttamento non ha ragione di esistere, ma lo sfruttamento del lavoro vivo proprio grazie a quelle tecnologie che lo hanno reso se non superfluo, utilizzabile in misura estremamente ridotta rispetto alle ingenti masse dei capitali occorrenti per acquisire quelle macchine, non remunera a sufficienza gli investimenti necessari per dar vita a qualunque ciclo produttivo. Su scala mondiale c'è una tale abbondanza di manodopera a basso costo di cui non hanno potuto disporre forse neppure le società schiavistiche, eppure non c'è ripresa dell'economia.
Si parla degli Stati Uniti e si parla di un paese dai piedi di argilla. Si parla di Giappone e si parla di crisi. Si parla di Germania forte e potente e ci si accorge che perde colpi a sua volta. Si parla di Europa e ci si accorge che si parla di un continente frantumato e per tre quarti scaraventato nella miseria più nera; questa area ritenuta, fino a ieri, la possibile locomotiva del rilancio degli ex paesi sovietici è spaccata al suo interno e senza altra possibilità, per ognuna delle sue parti che aggregarsi o alla potenza tedesca o a quella statunitense che benché sia l'unica potenza veramente mondiale è profondamente ammalata. I suoi eserciti controllano ogni angolo della terra e in ogni angolo della terra appena è possibile e necessario scaricano la loro terrificante potenza distruttiva con l'unico scopo di trasferire ricchezza nella madre patria. Come leggere tutto ciò, se non come le convulsioni di una società attraversata da potenti spinte disgregative?
Posta in questo quadro la crisi italiana, come quella di molti altri paesi, perde molto delle sue connotazioni nazionali e diviene anche più comprensibile. Con un'economia essenzialmente di trasformazione e completamente priva di materie prime, l'Italia non può che allinearsi con chi direttamente o indirettamente quelle materie prime controlla o le assicura un mercato per le sue merci. Non ci vuole una grande fantasia per capire che l'Italia non può che allinearsi, come già han fatto Olanda, Belgio, Lussemburgo e in qualche modo la stessa Francia, con la Germania riunificata che, pur non disponendo di una potenza militare equivalente a quella statunitense, costituisce l'area di mercato verso cui è orientato oltre il cinquanta per cento dell'export italiano e che al momento si presenta come la più accreditata ad aggregare attorno a sé i paesi dell'Europa centrale e quelli meno disastrati della penisola Balcanica andando a costituire così un blocco economico in forte espansione sicuramente capace di giocare un ruolo imperialistico di tutto rispetto.
Gli Stati Uniti si presentano come una cambiale in bianco e senza scadenza visto che si tratta di una potenza che può in qualunque momento fare a meno delle importazioni di chiunque e alla disperata ricerca di mezzi da destinare alla ricostruzione del suo malridotto apparato produttivo e al mantenimento del suo esorbitante apparato militare. Ma Germania vuol dire, per i lavoratori competere con i salari della Germania dell'Est con quelli della Cecoslovacchia, dell'Ungheria o dei paesi Baltici, per non parlare di quelli della Russia. E questo per un periodo di tempo non certo breve visto lo stato in cui quei paesi si trovano e ammesso che vi sia in tanto sconquasso una minima possibilità di espansione della base produttiva. Più probabile appare invece la prospettiva di una risorsa continua e crescente al ribasso e un esercito di disoccupati di dimensioni bibliche poiché la molla che sta muovendo l'economia mondiale in questo scorcio di secolo, non è l'espansione, ma la spartizione dell'esistente sempre più povero e indigente.
E una lotta feroce poiché è chiaro che vi sono ancora troppi polli nel pollaio e troppi capitali che non riescono a trovare adeguata remunerazione. Alla fine, fra una crisi finanziaria e l'altra, si ritroveranno di nuovo faccia a faccia, due blocchi contrapposti ed entrambi bisognosi di far fuori l'avversario sempre che, nel frattempo, chi oggi si sente più forte non sia riuscito a giocare di anticipo mettendo tutti in riga a far la fame e a star zitti. Non è già così per milioni di sfruttati?
I venti che spirano nell'ex Jugoslavia, in Russia, in tutti i paesi dell'ex impero sovietico carichi di nazionalismi fratricidi, di guerra per bande, di fanatismi religiosi e tribali si sono originati proprio a partire da quella stessa crisi che oggi impone gli allineamenti monetari con il marco e ieri li ha imposti con il dollaro. Cosa può fermare quei venti? Le preghiere del papa, la riforma elettorale o gli sfruttati che decidono di prendere nelle loro mani il loro stesso destino?
Non si è mai dato nella storia che una società in crisi sia riuscita ad autoriformarsi sin dalle fondamenta ovvero ad autonegarsi. La stessa Russia è là a dimostrarlo: in mancanza di una rivoluzione sociale il sistema si riaccartoccia in sé e tenta di riproporsi con nuove vesti, ma non apre le porte al nuovo, mai.
E, invece, occorrono nuove cose: occorre farla finita con l'economia monetaria una volta per sempre e porre le forze produttive al servizio della collettività per la soddisfazione dei bisogni sociali.
Non ci sono alternative: o si lavora per questo o si lavora per il capitale e per il disastro del proletariato internazionale.
Giorgio PaolucciPrometeo
Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
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- Social unrest
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- Unemployment and precarity
- Workers' conditions and struggles
Storia
- 01. Prehistory
- 02. Ancient History
- 03. Middle Ages
- 04. Modern History
- 1800: Industrial Revolution
- 1900s
- 1910s
- 1911-12: Turko-Italian War for Libya
- 1912: Intransigent Revolutionary Fraction of the PSI
- 1912: Republic of China
- 1913: Fordism (assembly line)
- 1914-18: World War I
- 1917: Russian Revolution
- 1918: Abstentionist Communist Fraction of the PSI
- 1918: German Revolution
- 1919-20: Biennio Rosso in Italy
- 1919-43: Third International
- 1919: Hungarian Revolution
- 1930s
- 1931: Japan occupies Manchuria
- 1933-43: New Deal
- 1933-45: Nazism
- 1934: Long March of Chinese communists
- 1934: Miners' uprising in Asturias
- 1934: Workers' uprising in "Red Vienna"
- 1935-36: Italian Army Invades Ethiopia
- 1936-38: Great Purge
- 1936-39: Spanish Civil War
- 1937: International Bureau of Fractions of the Communist Left
- 1938: Fourth International
- 1940s
- 1960s
- 1980s
- 1979-89: Soviet war in Afghanistan
- 1980-88: Iran-Iraq War
- 1982: First Lebanon War
- 1982: Sabra and Chatila
- 1986: Chernobyl disaster
- 1987-93: First Intifada
- 1989: Fall of the Berlin Wall
- 1979-90: Thatcher Government
- 1980: Strikes in Poland
- 1982: Falklands War
- 1983: Foundation of IBRP
- 1984-85: UK Miners' Strike
- 1987: Perestroika
- 1989: Tiananmen Square Protests
- 1990s
- 1991: Breakup of Yugoslavia
- 1991: Dissolution of Soviet Union
- 1991: First Gulf War
- 1992-95: UN intervention in Somalia
- 1994-96: First Chechen War
- 1994: Genocide in Rwanda
- 1999-2000: Second Chechen War
- 1999: Introduction of euro
- 1999: Kosovo War
- 1999: WTO conference in Seattle
- 1995: NATO Bombing in Bosnia
- 2000s
- 2000: Second intifada
- 2001: September 11 attacks
- 2001: Piqueteros Movement in Argentina
- 2001: War in Afghanistan
- 2001: G8 Summit in Genoa
- 2003: Second Gulf War
- 2004: Asian Tsunami
- 2004: Madrid train bombings
- 2005: Banlieue riots in France
- 2005: Hurricane Katrina
- 2005: London bombings
- 2006: Anti-CPE movement in France
- 2006: Comuna de Oaxaca
- 2006: Second Lebanon War
- 2007: Subprime Crisis
- 2008: Onda movement in Italy
- 2008: War in Georgia
- 2008: Riots in Greece
- 2008: Pomigliano Struggle
- 2008: Global Crisis
- 2008: Automotive Crisis
- 2009: Post-election crisis in Iran
- 2009: Israel-Gaza conflict
- 2020s
- 1920s
- 1921-28: New Economic Policy
- 1921: Communist Party of Italy
- 1921: Kronstadt Rebellion
- 1922-45: Fascism
- 1922-52: Stalin is General Secretary of PCUS
- 1925-27: Canton and Shanghai revolt
- 1925: Comitato d'Intesa
- 1926: General strike in Britain
- 1926: Lyons Congress of PCd’I
- 1927: Vienna revolt
- 1928: First five-year plan
- 1928: Left Fraction of the PCd'I
- 1929: Great Depression
- 1950s
- 1970s
- 1969-80: Anni di piombo in Italy
- 1971: End of the Bretton Woods System
- 1971: Microprocessor
- 1973: Pinochet's military junta in Chile
- 1975: Toyotism (just-in-time)
- 1977-81: International Conferences Convoked by PCInt
- 1977: '77 movement
- 1978: Economic Reforms in China
- 1978: Islamic Revolution in Iran
- 1978: South Lebanon conflict
- 2010s
- 2010: Greek debt crisis
- 2011: War in Libya
- 2011: Indignados and Occupy movements
- 2011: Sovereign debt crisis
- 2011: Tsunami and Nuclear Disaster in Japan
- 2011: Uprising in Maghreb
- 2014: Euromaidan
- 2016: Brexit Referendum
- 2017: Catalan Referendum
- 2019: Maquiladoras Struggle
- 2010: Student Protests in UK and Italy
- 2011: War in Syria
- 2013: Black Lives Matter Movement
- 2014: Military Intervention Against ISIS
- 2015: Refugee Crisis
- 2018: Haft Tappeh Struggle
- 2018: Climate Movement
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