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La crisi del capitale nella realtà americana
Smettiamola di eludere le nostre responsabilità interne dando tutte le colpe al petrolio e agli arabi. Non può esserci alcun dubbio: stiamo pagando il prezzo dell( aberrazioni economiche del decennio appena finito. Come era inevitabile, un'era di speculazioni azionarie e di manipolazioni finanziarie è arrivata alla sua conclusione. Le scalate buyout hanno lasciato le aziende indebitate fino al collo: adesso devono ripagare gli interessi a discapito dell'innovazione tecnologica, degli investimenti e dell'occupazione. C'è stata una grande speculazione immobiliare. Le banche e i risparmiatori si sono riempiti le tasche di beni sospetti, come i junk bond, le obbligazioni spazzatura ad alto interesse e altissimo rischio. Infine, in questo decennio, c'è stato un trasferimento netto di reddito dai ceti poveri a quelli ricchi.
Così il professor J.K. Galbraith in una intervista a Repubblica (15-1-1991).
Esorcizzata, negata, minimizzata tra i se e i ma degli esperti iscritti nei libri paga del capitale e dei maghi e guru della sua corte, l'ottava recessione (dal 1953) dell'economia americana è da più di sei mesi un fatto assodato. Sugli errori e sull'incipiente declino economico-industriale del capitalismo Usa sono ora improvvisamente in molti a disquisire; e sono gli stessi che la scorsa estate, ai primi segnali di allarme, mascheravano la situazione come un temporaneo malessere dovuto alle conseguenze psicologiche del blitz di un impazzito rais Saddam Hussein e al calo, anche questo mistificato, delle offerte e disponibilità di greggio sul mercato. Ancora fino a poche settimane fa il presidente Bush aveva cancellato dal suo vocabolario personale le parole tabù di recessione e crisi, quando la stessa Federal Reserve aveva già ammesso in autunno che più della metà dei 51 States si trovava in una condizione di recessione prima dell'estate '90, e per un'altra decina la crescita economica si presentava stagnante o in debole flessione.
Bancarotta della reaganomics
Gonfiato oltre misura dai compiacenti mass-media, il boom reaganiano si è dissolto improvvisamente, dopo aver accumulato più cartaccia e illusioni, più segni finanziari elettronici impazziti fra New York, Tokyo e Londra che non reale e solida ricchezza. Al punto che oggi, e dagli stessi che l'esaltavano, viene presentato come una funesta rivoluzione plutocratica, che se da un lato ha fatto aumentare dal 7 all'11% la parte del reddito nazionale concentrata nel solito 1% della popolazione, dall'altro ha fatto peggiorare del 10% il reddito delle famiglie tipo americane. Il resto della popolazione, i poveri ufficiali, le minoranze etniche (neri, portoricani, messicani, eccetera), affonda nel baratro di una miseria senza ritorno. E si tratta del 12,8% della popolazione contro l'11,7% di dieci anni fa prima della cura Reagan. Costretti, in uno scenario economico mondiale nel quale si scontrano interessi inconciliabili, a mostrare i muscoli e il carattere da super potenza con il ritorno a sfrontate operazioni di gendarmeria (Panama, Grenada) e di guerra vera e propria in Medio Oriente, gli Usa hanno scoperto le carte ammettendo il repentino cambiamento del trend economico. Sono finite le ubriacature hollywoodiane e le esibizioni del presidente-divo; il laccio del debito pubblico (560 miliardi di dollari) si stringe, e l'indebitamento globale dello Stato (oltre 3.500 miliardi di dollari, cioè il 70% del Pil di 5 mila dollari) pesa come uno spaventoso incubo sulla leadership del paese. Così mentre a Wall Street l'orso del ribasso si divorava il toro del rialzo ingoiando migliaia di miliardi, svaniva anche il mito della democrazia societaria (corporate democracy) che faceva di ogni risparmiatore un apparente investitore diretto sul mercato. Gli opinion makers sono oggi allo sbando; la Business School di Harward annaspa ne vuoto e il santone del Massachussets Institute of Technology, P. Samuelson, affida le sue analisi ai colpi del destino e alla... alternanza di periodi fortunati e sfortunati! E le teste d'uovo della banda Bush mascherano i colpi in testa del motore economico come fenomeni di recessione nella crescita, sulla scia delle precedenti cialtronerie dei famosi consiglieri-stregoni di Reagan, Laffer e Wanniski, miseramente falliti nella generale bancarotta. I dati che registrano mensilmente lo stato di salute del colosso americano continuano intanto a essere allarmanti e rivolti al peggio. Nel quarto trimestre 1990 il Pil è nuovamente sceso del 2,1%, il più basso indice degli ultimi otto anni, con un'inflazione che si aggira attorno al 7%. Le commesse all'industria nel 1990 presentano un bilancio finale con un aumento dell'1,4% contro il 6,3% dell'89, mentre la media settimanale dei fallimenti aziendali supera quota 350, quasi il 45% in più dello scorso anno. In gennaio il numero degli occupati è diminuito di ben 232 mila unità, di cui 37 mila nei servizi. Dal luglio '90 l'occupazione è in costante calo, e la disoccupazione registra un tasso ufficiale del 6,2%. Nel 1990 sono stati più di un milione i posti di lavoro persi, e otto milioni di americani sono in attesa di un'occupazione nelle liste di collocamento. A questi si aggiungono 5,5 milioni di lavoratori part-time, cioè precari, e un milione di persone che hanno abbandonato ogni ricerca di lavoro. Il reddito individuale disponibile è intanto sceso da 11.600 dollari nel gennaio 1990 a 11.300 in dicembre: complessivamente 75 miliardi di dollari in meno, quasi tutti sottratti alle tasche della classe operaia. Dopo l'orgia di rincorse selvagge a fusioni e acquisti di aziende e banche (le cosiddette operazioni di leveraged by out fondate su alti indebitamenti e rischi) molte società si trovano con bilanci in rosso per più di 350 miliardi di dollari; il mercato finanziario è sconvolto e quello azionario è soffocato da valanghe di titoli pattume. L'ultima risalita della Borsa di Wall Street, nell'euforia per il trionfo della pax americana in Medio Oriente, non ha risolto una crisi che ha comportato perdite, in una forma strisciante, dalle dimensioni di un tracollo senza precedenti: i 508 punti di calo dell'indice Dow Jones dei 30 maggiori titoli industriali (punti persi nel famoso lunedì nero dell'ottobre '87) sono diventati 190 nel crollo del 13 ottobre 1989 e quindi, in sordina durante l'ottobre '90, il tonfo complessivo è stato di ben 546,78 punti con la distruzione di circa mille miliardi di dollari.
In realtà, dietro qualche facile ottimismo ispirato dalla fine della sindrome del Vietnam, dal successo delle armi in funzione calmieratrice sul prezzo del petrolio, e dalle dimensioni del bottino di guerra (contratti, prestiti, eccetera); dietro la breve durata e i limiti di questi effetti la stabilità dell'intero sistema e del precario equilibrio monetario continuano a fondarsi sulla persistenza di un afflusso di capitali verso gli Usa, quantitativamente pari alla somma complessiva dei debiti, dei deficit e degli interessi da pagare, quale si presenta nei settori commerciali, pubblici e statali. Ed è solo la forza imperialistica che consente di gestire l'intera situazione, evidentemente sospesa al sottile filo di una spirale di precarie condizioni e di improvvise reazioni. Al fondo delle quali operano, con tutta la potenza distruttiva delle loro insanabili contraddizioni, le leggi economiche del capitale. Le stesse che hanno trasformato gli apparenti successi del liberismo reaganiano in un castello di cartapesta sorretto dall'espansione delle cambiali e dalla prosperità a credito, e dove imprese industriali, banche, stato federale, regioni, enti locali e gli stessi consumatori di beni di servizio - insomma, il privato e il pubblico - sono sommersi da pezzi di carta dal valore e dal futuro incerti.
Il fenomeno del consumismo, simbolo della moderna società borghese, ha dilatato l'enorme massa dei debiti contratti non solo dagli acquirenti di merci ma dall'intero sistema economico (governo, imprese, banche, famiglie) che ha accumulato debiti pari a più di due volte e mezzo il reddito nazionale di un anno. Un dato importante: il rapporto fra debiti e capitali delle aziende è pari a 88 centesimi per ogni dollaro.
Fra le artificiose stimolazioni della droga creditizia, il sistema bancario è precipitato nella stretta di una catena perversa di interdipendenze finanziarie destinata a spezzarsi proprio nel momento in cui la realizzazione concreta di plusvalore da parte del capitale industriale entra in crisi. Finito il surriscaldamento speculativo del mercato, il crollo delle quotazioni immobiliari è stato catastrofico e ha trascinato con sé quello delle Casse di risparmio, principali accumulatrici di mutui ipotecari in progressivo deterioramento: l'aumento degli interessi sui mutui porta all'espansione dei crediti in sofferenza. La Ragioneria generale dello stato dovrà ora rimborsare un buco di 600 miliardi di dollari, con ripercussioni negative sulle stesse banche commerciali che hanno quadruplicato dall'84 all'89 il valore dei mutui cancellati dall'attivo e trascritti in perdita. La debacle finanziaria è gravissima, ed è appesantita anche dall'esposizione coi debiti in sofferenza verso il terzo mondo; i fallimenti a catena delle banche commerciali stanno portando verso una previsione di quattro miliardi di dollari di deficit per il fondo federale, che con i suoi interventi assicura i depositi presso gli istituti di credito.
Nonostante le stangate fiscali e i tagli alle spese sociali e assistenziali imposti dall'amministrazione Bush, e nonostante le ipotesi da fantascienza macro-economica, i conti dell'esercizio finanziario statale per l'anno in corso segnano un passivo di 318 miliardi di dollari; le stime per il prossimo esercizio 1991/92 con una spesa di 1.450 miliardi, sono per un disavanzo di 290 miliardi. Ma non sono comprese le uscite straordinarie per il salvataggio delle Casse di risparmio e le spese per la Guerra del Golfo!
Debito pubblico e titoli di credito
La situazione coincide perfettamente con le "teorie ottocentesche" del nostro Marx, il quale si occupò anche del moderno debito pubblico, visto già allora per quello che è oggi chiaramente diventato:
l'alienazione dello stato, dispotico, costituzionale o repubblicano che sia [e che, come tale] imprime il suo marchio all'era capitalistica. [...] L'unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è... il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo si indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell'indebitamento dello stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.
Queste colossali somme di denaro - osservava Marx - sono in realtà già state spese dallo stato; sono una enorme quantità di capitale consumato che "non esiste più", "un capitale illusorio fittizio". Non solo: la somma prestata allo stato...
non è mai stata destinata ad essere presa e investita come capitale, e solo se investita come capitale essa avrebbe potuto trasformarsi in un valore capace di autoconservarsi.
Siamo perciò in presenza di:
una grandezza negativa che appare come capitale - come in generale il capitale produttore di interesse genera le concezioni più insensate, al punto che, per esempio, i banchieri giungono a concepire i debiti come delle merci. [...] Quale che sia il numero delle transazioni successive (che questi titoli di credito verso lo stato subiscono), il capitale del debito pubblico rimane un capitale puramente fittizio, e il giorno in cui questi titoli di credito diventassero invendibili, svanirebbe anche l'apparenza di questo capitale.
I titoli di credito, dunque, non sono che "duplicati cartacei di capitale distrutto" che portano al diffondersi e al rafforzarsi di "una classe di creditori di stato autorizzati a prelevare a loro favore certe somme sul gettito delle imposte". E Marx cita l'economista Sismondi:
I titoli di stato non sono altro che il capitale immaginario rappresentante la parte determinata del reddito annuo destinata al pagamento dei debiti. Un capitale di pari grandezza è stato sprecato; tale capitale serve da denominatore al prestito, ma non è quello rappresentato dai valori di stato, poiché esso ormai non esiste più. Frattanto dal lavoro dell'industria devono sorgere nuove ricchezze; una quota annua di tali ricchezze viene assegnata in anticipo a coloro che avevano prestato quelle ricchezze sprecate; tale quota viene tolta per mezzo delle imposte a coloro che producono le ricchezze per essere distribuita ai creditori dello stato e, in base al rapporto in uso nel paese fra il capitale e l'interesse, si suppone un capitale immaginario di una grandezza pari a quella del capitale da cui potrebbe derivare la rendita annua che i creditori devono ricevere.
Dopo di che il problema potrebbe diventare quello della solvibilità o meno dello stato, problema che viene allontanato in due modi: tenendo appetibili i saggi di interesse dei titoli di credito e rastrellando quanto più è possibile con imposte e tagli alla spesa pubblica. In ogni caso, aveva ragione Sismondi, paga sempre chi col proprio lavoro produce tutta la ricchezza della nazione e vede gravare su di sé l'inerte peso del denaro raccolto in prestito dallo stato. Un enorme accumulo di lavoro morto, fissato come denaro, come capitale finanziario: un vero e proprio feticcio al quale occorre sacrificare sempre nuovo lavoro vivo, per soddisfare la sua parassitaria fame di interesse.
Dalle tante mistificazioni che subiscono i fenomeni esterni nei loro rapporti con l'effettivo interno processo di valorizzazione del capitale, sorge l'idea, oggi dominante, "che rappresenta il capitale come automa che si valorizza di per se stesso" (Marx). Ma la irrazionalità e la follia del capitale, contenuta nella forma del capitale portatore di interesse, del "denaro che produce denaro", è a questo punto quanto mai evidente nella duplice oppressione sfruttatrice che il proletariato è costretto a subire all'interno di un rapporto economico e sociale che, dopo avergli spremuto sudore e sangue sul posto di lavoro o emarginandolo completamente con la disoccupazione, lo taglieggia quale cittadino nei suoi cosiddetti diritti civili e sociali, e lo impoverisce ulteriormente come consumatore nella sue condizioni di vita. Questo perché, come da più di un secolo ben sappiamo, tutto il capitale nelle sue diverse forme dipende dal processo di produzione totale (cioè dall'unità del processo immediato e del processo di circolazione; quest'ultimo permette solo la realizzazione del plusvalore, ma non lo crea).
Lo stesso tasso di interesse, in apparenza autonomamente derivante dal capitale monetario, è determinato dal processo di produzione del plusvalore; esso non è che una parte del plusvalore generale, e quindi è legato al saggio del profitto e al grado di sfruttamento della viva forza-lavoro. Oltre certi limiti, ogni variazione dei tassi dell'interesse monetario, così come l'interesse in se stesso, deve presto o tardi fare i conti con l'intensità e il volume della produzione e della realizzazione del plusvalore complessivo. Ed è pur vero che l'accumulazione del plusvalore nella forma di capitale monetario (capitale bancario, credito, rendita, eccetera), diventa una massa di capitale immobilizzato che si consuma improduttivamente; non genera valore da devalorizzazione. E uno dei momenti contraddittori che nella vita del capitale contribuiscono alla caduta generale del saggio del profitto. E, per dirla col solito Marx, una rilevante parte di capitale che viene trasformato in "capitale fisso che non funge da agente della produzione diretta", e che subisce quindi uno "sciupio improduttivo".
Dietro le tensioni del mercato valutario
In generale, le fluttuazioni dei cambi monetari costituiscono da tempo un segnale del grave malessere che ha colpito il sistema economico mondiale. Nella sua funzione di rappresentante del valore, la moneta appare ovunque come un segno convenzionale dello stesso valore, legata in definitiva alla concreta potenza del capitalismo che la emette. Sotto l'aspetto di fenomeni congiunturali dipendenti dagli assestamenti e dalle irrequietezze dei mercati finanziari, si cela la reale crisi economico produttiva. Una crisi che ha assunto le caratteristiche della permanenza, e dove il succedersi di brevi periodi di relativa ripresa e quindi nuovamente di un'ulteriore fase di recessione, proseguono gli aspetti e i contenuti del classico andamento ciclico dell'economia capitalista fatto di alti e bassi e dove storicamente si può verificare il fenomeno tendenziale della caduta del saggi medio del profitto e del rallentamento del processo accumulazione. I cicli economici non si evidenziano pi secondo il precedente schema: accumulazione-crisi-nuova accumulazione. Nella fase imperialistica, parassitaria, a cui è pervenuto il capitalismo, ogni ciclo di accumulazione porta necessariamente alla guerra, alla distruzione di mezzi di produzione e di merci quale unico presupposto per un nuovo ciclo di ricostruzione e valorizzazione.
Nelle oscillazioni continue del dollaro sono evidenti, per chi sa leggere oltre gli aspetti puramente formali dei fenomeni (e non è questo il caso degli esperti borghesi), i tentativi di sfruttare ogni possibilità di pressione, attraverso gli strumenti di una spregiudicata politica valutaria, sui governi degli altri paesi e sulle loro economie scaricando così una parte del peso stesso della crisi fuori dai confini nazionali. Gli alti e bassi del dollaro riflettono oggi la situazione di crisi in cui si dibatte l'economia americana; il corso della gestione monetaria è condizionato dalle contraddizioni della struttura produttiva e non da scelte ideologiche di questo o quel presidente degli Stati Uniti o della Federal Reserve.
Giunto al suo apice, il futuro del capitalismo è solo catastrofico; il suo processo di accumulazione e di riproduzione allargata non distribuisce ricchezza e benessere ma miseria crescente e disperazione in ogni parte del mondo. Non esistono alternative di rimedi più o meno validi, o teorie anticongiunturali meglio adatte a risolvere l'aggrovigliata situazione economica del capitalismo; la politica del governo americano, nella versione Reagan o Bush, è l'unica concessa e praticabile nella logica e nella realtà del dominio borghese. Con un capitale che ha raggiunto la sua massima espressione e potenza, e che mette quindi in funzione tutti i meccanismi prevaricatori della sua politica imperialista, economicamente fondata sulla concentrazione monopolistica, sul parassitismo e sulla speculazione del capitale finanziario. Meccanismi che si sono sviluppati e perfezionati rispondendo alla primaria esigenza storica di compensare la caduta tendenziale del saggio medio del profitto.
L'arbitrio economico, militare e politico di uno stato quale quello americano o, fatte le debite proporzioni, dei suoi amici-nemici, non è certamente riconducibile alla particolare malvagità di personaggi e dirigenze amministrative. Le aspirazioni e i contenuti egemonici dell'imperialismo si fondano sulla diretta conseguenza delle leggi dell'economia capitalista, giunta alla fase culminante della sua concentrazione produttiva e finanziaria. L'estorsione parassitaria di sovraprofitti si può solo attuare con il dispiegamento di una supremazia politico-militare; di uno strapotere il cui perdurare è la sola garanzia di sostegno ai movimenti del proprio capitale finanziario, al recupero dei crediti concessi, alla imposizione dei propri interessi e alla estorsione dei profitti. Dietro l'ipocrita cartello degli aiuti e prestiti internazionali, e attraverso l'uso delle più sofisticate tecniche finanziarie, viene messo in pratica uno strozzinaggio creditizio che impedisce ai paesi sottosviluppati di accedere agli ingenti surplus di prodotti agricoli e industriali. E i "prestiti" dell'imperialismo incatenano senza vie d'uscita, in una posizione di sudditanza per le borghesie locali e di miseria e sfruttamento per le masse operaie e contadine, i paesi deboli alle potenze in grado di esercitare il ruolo di usurai del capitalismo internazionale.
In presenza di un minor plusvalore contenuto nella produzione delle proprie merci il capitalismo americano ha reagito nel modo speculativo e parassitario che è congeniale al suo sviluppo imperialistico, fino alla immissione continua sul mercato di una massa di carta moneta stampata ben al di là di ogni parità con la propria riserva aurea e di ogni corrispondenza con una effettiva produzione di merci. Le riserve auree degli Usa sono fra l'altro notevolmente diminuite dagli anni '70 in poi, e il primato di stato detentore delle maggiori riserve monetarie non è più americano.
Il cambio con le altre monete avrebbe dovuto crollare, ma in quanto moneta internazionale che presiede alla maggior parte delle transazioni commerciali di prodotti e materie prime (il petrolio in primis) il dollaro finisce col godere di una rendita monopolistica su tutti gli scambi; una specie di tangente valutaria che gli consente, in modo perfettamente "legale", di incamerare il plusvalore rappresentato dalla differenza tra il vero valore del dollaro e il suo prezzo imposto a chi è costretto ad acquistarlo. La diminuzione delle capacità di produzione di plusvalore nell'unico luogo e momento in cui ciò può avvenire, vale a dire nel processo produttivo di merci, viene compensata, naturalmente a scapito di altri paesi ed economie, con una prepotente riappropriazione di valore durante il processo degli scambi e della circolazione internazionale.
Costretta a muoversi sotto un cumulo di titoli di credito, la Federal Reserve ha dovuto, per finanziare i galoppanti deficit statali, e fin che le è stato possibile, tenere alti i tassi dell'interesse con una rivalutazione del dollaro ben oltre i suoi valori reali, che gli si è però ritorta contro nella perdita di competitività sui mercati. E quando il tasso dell'interesse viene mantenuto superiore al ritmo di crescita effettivo dei valori economici si ottiene un aumento del rapporto fra debito e Pil.
A lungo andare il denaro più caro si trascina come conseguenza ricorrente una situazione di strisciante recessione: il classico "raffreddamento" economico che se da un lato ha in parte contenuto i sempre preoccupanti ritmi di inflazione, dall'altro ha contribuito a portare allo sbaraglio non pochi settori della produzione, agricola e industriale. Un circolo vizioso, non l'unico, che con i suoi effetti collaterali va ad influire negativamente anche sulle fonti del gettito fiscale, la cui crescita meglio si lega a floride condizioni economiche generali. La riduzione dei tassi diventava quindi una necessità per ottenere questa volta un ribasso del dollaro, ribasso che attraverso opportune manovre sul mercato e sui prezzi delle materie prime, e soprattutto del petrolio, viene scaricato in parte sulle economie dei paesi più deboli. Inoltre, una quotazione più bassa del dollaro consente di ricuperare una parte del deficit del bilancio statale, tenendo conto della differenza tra l'attuale prezzo di rimborso dei titoli del debito pubblico, a dollaro ribassato, e il prezzo di emissione a quotazione più alta del dollaro. Fermo il fatto che i tassi di interesse non possono diminuire più di tanto se il deficit pubblico si mantiene ad alti livelli.
Quando l'ago della bilancia dei pagamenti nell'importexport cominciò ad accentuare la sua inclinazione verso e oltre i limiti di un passivo allarmante, i tentativi per costringere il corso del dollaro ad una svalutazione tale da consentire il recupero di parte delle perdite di competitività commerciale, si realizzarono con la politica di Reagan culminante nella vendita sul mercato, previo accordo delle maggiori potenze industriali, di massicci quantitativi di dollari in possesso delle loro banche centrali. In effetti si è assistito in seguito ad una riduzione del valore ufficiale del dollaro, cioè delle sue quotazioni, soltanto grazie ed in rapporto ad una restrizione della base monetaria e ad un abbassamento dei tassi di interesse da parte dei paesi partners degli Usa, i quali mantenevano invece col loro alto tasso di interesse praticamente inalterato il valore effettivo di una massa rimasta costante di dollari in circolazione.
Il mercato, sul quale la speculazione internazionale muove ben più rilevanti masse di denaro, ha solitamente delle reazioni modeste e solo momentanee agli interventi della banche centrali. Così come si assiste alla macroscopica contraddizione di una Federal Reserve che compra dollari con marchi per mantenere l'attuale rapporto di scambio, e contemporaneamente abbassa i tassi di interesse, oggi al 6%, deprimendo il valore della moneta nazionale sotto la spinta incessante del disavanzo federale. La più concreta conseguenza è che il dollaro continua tendenzialmente a scendere, salvo brevi periodi di tanto euforica quando modesta ripresa, e gli investitori esteri rivolgono le loro interessate attenzioni altrove.
Nel tentativo di difendere una rendita finanziaria che assicura giganteschi extra profitti e in apparenza sembra destinata a compensare il declino del profitto industriale nel suo rapporto con la massa di capitale fisso, tutti i mezzi devono essere adottati senza scrupoli di alcun genere. Da forme di velato protezionismo a pressioni commerciali, da speculazioni sui prezzi delle materie prime al ricatto creditizio verso i paesi sottosviluppati. Il risultato è quello di scaricare in parte sul mercato mondiale le difficoltà della propria economia, senza bloccare né risolvere la crisi e dilatandola anzi su scala internazionale.
Abbiamo visto come, paradossalmente, la massima potenza imperialistica vincitrice del secondo conflitto mondiale, e finanziatrice della ricostruzione post-bellica sia di vinti che di vincitori (ad esclusione del solo blocco stalinista che respinse le "offerte" del Piano Marshall) sia costretta oggi ad un indebitamento esterno colossale e presenti un disavanzo della bilancia commerciale che fa degli Usa il pricipale protagonista delle tensioni in corso sui mercati continentali. Stando sempre alle cifre ufficiali, ai circa 330 miliardi di dollari, corrispondenti agli attuali investimenti americani nel mondo, si contrappongono i circa 305 miliardi di dollari a loro volta investiti negli Usa, e provenienti in ordine dalla Gran Bretagna, Olanda, Giappone: rispettivamente 88 - 50,9 e 48,5 miliardi di dollari al 1989. Gli investimenti cosiddetti di portafoglio, in beni e titoli, sono risultati nell'88 addirittura pari a 1.700 miliardi di dollari stranieri in Usa contro i 1.300 miliardi di dollari yankee all'estero.
La nuova situazione internazionale vede dunque le accresciute potenze industriali e finanziarie, ieri assoggettate economicamente all'imperio degli Usa, affacciarsi come diretti e pericolosi concorrenti sullo stesso mercato interno americano, fino a ribaltare a loro favore i rapporti dell'interscambio commerciale e a diventare un indispensabile aiuto nel tappare i buchi del Bilancio Federale di Washington, del fabbisogno di prestiti delle locali amministrazioni, e infine a far man bassa su case, terreni, opere d'arte, azioni e aziende fino a ieri simboli del capitalismo americano.
Tolte le etichette nazionali, abbiamo di fronte a noi l'internazionale ed impersonale capitale finanziario il quale, se ieri nelle tasche dei "liberatori" d'oltre Oceano si comprò gli Stati di mezzo mondo, oggi ripete l'operazione - potenza mostruosa ed anonima - di acquisti e prestiti cambiando portafoglio e direzione ma non certo indole ed obiettivi. Si calcolano a 5 mila miliardi di dollari (nella equivalenza con la valuta americana sono compresi anche yen, marchi e sterline) i flussi finanziari circolanti sul mercato mondiale. Mercato che regola, in effetti, i tassi di interesse o di cambio delle monete nazionali. Una quantità di mezzi finanziari che è tre volte superiore al reale scambio commerciale, e che si riversa con speculazioni brigantesche sui mercati azionari e su quelli delle materie prime.
Alti e bassi nell'egemonia del dollaro
A seguito di quella militare l'invasione dei dollari sommerse dal '45 in poi l'Europa e il Sud-Est Asiatico, e in essi finì con identificarsi l'immagine stessa del capitale mondiale nella sua forma monetaria. I risultati del secondo conflitto imperialistico elevarono gli Usa al rango internazionale di potenza egemone, finanziariamente oltre che produttivamente, e ultra creditrice a danno dei paesi vinti ma anche dei vincitori ormai allo stremo, verso i quali affluivano gli aiuti dello zio Sam. Mezzo mondo si trovò indebitato con l'America: i suoi quasi 350 miliardi di dollari allora investiti nella guerra cominciarono a dare i loro frutti, a fronte dei 150 miliardi di dollari di devastazione bellica rivelatasi quanto mai opportuna per il lancio dei piani di ricostruzione.
Sempre in quella rappresentazione monetaria ritornarono negli Usa, attraverso il mercato finanziario internazionale, i frutti degli iniziali investimenti, dei prestiti e anche delle speculazioni, petrodollari compresi. Dagli inizi della crisi economica mondiale del 1971 il riciclaggio, ovvero il recupero dei petrodollari dopo il periodo di boom del prezzo del greggio, avviene all'insegna dominante della speculazione finanziaria con il sistema bancario americano favorito dalla politica imposta degli alti tassi di interesse, e conseguente sopravvalutazione del dollaro. Dagli inizi degli anni 80 gli Usa ricavarono da tutto ciò dei notevoli e particolari vantaggi, ma anche e in definitiva svantaggi più generali che dal novembre '85 costrinsero Washington ad imboccare la strada di una svalutazione del dollaro. In entrambi i casi le "scelte" erano dettate dall'esigenza imperialistica di esercitare un condizionamento e una pressione sulle economie concorrenziali, usando il potente strumento di manovra del capitale finanziario.
L'imposizione del dollaro quale moneta di credito internazionale non riuscì comunque a placare le tensioni valutarie nell'intero sistema. Tra svalutazioni, rivalutazioni e fluttuazioni, negli ultimi trent'anni si sono ripetuti i tentativi volti a un equilibrio mondiale fondato sulla creazione di quelle "istituzioni ed invenzioni creditizie" attraverso le quali (lo notava Marx nel 1857!):
gli artisti della circolazione si immaginano non solo di mettere da parte l'arresto, l'interruzione nella produzione, che la trasformazione del prodotto finito in capitale richiede, ma di rendere superfluo lo stesso capitale contro cui il capitale produttivo si scambia. [...] E nella natura del denaro di sciogliere le contraddizioni sia dell'immediato commercio di scambio sia del valore di scambio.
Ma questo - conclude Marx - "solo in quanto le pone in generale".
La creazione nel secondo dopoguerra di una Banca mondiale, quale il Fondo Monetario Internazionale, non ha risolto il fenomeno generale degli squilibri monetari né ha interrotto la serie ricorrente di svalutazioni che hanno interessato sterlina, marco, fiorino, dollaro canadese, eccetera, oltre alle ondate speculative sull'oro e su alcune monete.
La posizione di privilegio e di monopolio esercitata dal dollaro è sorretta e giustificata dal potenziale economico-produttivo, ancora notevole, e da quello militare, su tutto prevalente, degli Usa; e il trionfo del dollaro è soprattutto il trionfo del capitale creditizio, così come esso tende a sganciarsi dalla ristretta base dei metalli preziosi.
Tutti i rappresentanti cartacei del denaro (come le cambiali, i mandati, le obbligazioni, eccetera) sono l'esistenza più perfetta del denaro in quanto denaro e un momento necessario nel processo evolutivo del denaro,
scriveva il giovane Marx.
L'enorme sviluppo del sistema creditizio negli ultimi decenni risponde a questa necessità; Swap, buoni Roosa, e i Diritti Speciali di Prelievo sono l'esempio storico dei tentativi di una sua regolazione e diffusione internazionale, oltre che di una conciliazione dei due sistemi, monetario e creditizio. Con i Diritti Speciali di Prelievo la disponibilità dei prelievi monetari di ogni paese fu poi regolata sulla base delle singole contribuzioni al Fmi, rafforzando così la posizione delle maggiori potenze economiche. Grazie al loro potere finanziario e al loro monopolio monetario, gli Usa hanno saldamente preso in mano il controllo mondiale dei crediti, facendo da principale centro di decisione e amministrazione del complesso meccanismo dello stesso Fmi (con il relativo diritto condizionante di veto su ogni decisione), sempre attenti ai propri interessi ma anche al pericolo di eventuali bancarotte dei paesi suoi debitori.
Gli accordi di Bretton Woods del 1944 ("gold standard exchange") avevano regolato il sistema monetario mondiale sulla base della convertibilità di tutte le monete in dollari, e del dollaro in oro secondo un rapporto di 30 prezzo fiduciario, allora pari a 35 dollari l'oncia. II corso delle manovre speculative del governo americano portò in seguito, e dopo che attraverso l'oro gli Usa avevano ampiamente sfruttato le differenze tra cambio ufficiale e cambio reale, alla rottura da parte del presi dente Nixon nel 1972 degli stessi accordi e alla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro. Il rapporto con l'oro salì prima a 38 e poi a 42,5 dollari l'oncia, per poi arrivare a toccare anche i 400 dollari l'oncia. Praticando tassi di interesse superiori a quelli normali e ai tassi dell'inflazione, la carta moneta ha il sopravvento sull'oro. Attualmente si assiste ad una sovraproduzione del prezioso metallo e a forti vendite delle banche centrali, in una situazione di incertezza del mercato che praticamente dura dalla fine del sistema del "gold standard" rispetto al dollaro. Modificatosi lo scenario mondiale capitalistico dopo il periodo delle ricostruzioni nazionali e del rilancio di un nuovo ciclo di accumulazione, la condizione dei rapporti economici interimperialistici si è alterata, e ulteriormente complicata a seguito della crisi degli anni settanta e delle ristrutturazioni industriali e riconversioni produttive che ne sono derivate.
Dalla circolazione alla produzione, nel fondo della crisi
Le trasformazioni, quantitative e qualitative, verificatesi nel rilancio della valorizzazione del capitale si sono ripercosse dalla produzione nella circolazione; dal cuore del sistema alla sua superficie. E negli ultimi decenni l'industria americana ha finito col trovarsi in molti settori a livelli di insufficiente competitività nel confronto con i partner europei ed asiatici. Anche la relativa espansione della richiesta di mano d'opera creatasi nel terziario ha avuto la sua motivazione, oltre al basso livello salariale, nella scarsa produttività del lavoro fornita da tecnologie arretrate, e tollerata fintantoché la crisi economica non ha messo in luce le eccessive dimensioni della spesa per i servizi sia pubblici che privati in rapporto al generale deficit dei bilanci.
Una condizione che si è accompagnata a quelle posizioni nazionali di rendita e di monopolio le quali (come osservava Lenin) finiscono col portare a forme di putrefazione economica, ad un certo punto del loro sviluppo, proprio i paesi capitalisticamente più forti. Rapidi incrementi di espansione che non escludono "sperequazione ed imputridimento", depressione e declino economico tra i maggiori stati imperialistici. Risalire la china della propria concorrenzialità ed efficienza commerciale, per un ipotetico riequilibrio della situazione interna americana - e a fronte di un aumento del 40% dell'indice degli scambi mondiali negli ultimi sei anni - significherebbe oltretutto la riduzione di quel 65% delle esportazioni di manufatti dei paesi del terzo mondo assorbito dagli Usa, e l'aumento di quel 25% dell'intero prodotto lordo mondiale che sfornano le industrie americane, in presenza del solo 6% della popolazione mondiale. Lo strombazzato modello americano di ricchezza economica e di vita sociale, se fosse accessibile e consentito a tutta l'umanità entro l'attuale modo di produzione e di distribuzione e i rapporti economico-sociali che ne derivano, porterebbe ad una esplosione immediata e violenta dell'intero sistema oltre che ad una catastrofe ecologica del pianeta terra.
Importare di meno ed esportare di più è esattamente lo stesso problema che tormenta le altre maggiori potenze economiche, le quali, pur in presenza dei due terzi della popolazione mondiale in condizioni di sottoconsumo, subirebbero un contraccolpo preoccupante da una eventuale riduzione del disavanzo commerciale americano che è pari all'attuale 7% della domanda internazionale di merci. Condizionati da queste contraddizioni i belligeranti del commercio fra i popoli vivono e si alimentano delle difficoltà e delle sofferenze degli altri, e a loro volta esposti agli effetti della generale anarchia della produzione e degli scambi mercantili. Le potenze industriali produttivamente più competitive dominano il gioco: ma poiché il limite della produzione capitalistica sta proprio nella... produzione capitalistica stessa, si gettano nel vortice di quel valore-capitale "puramente illusorio" che abbiamo visto essere il movimento finanziario dei titoli di credito, delle azioni, eccetera. E questi - giusto Marx - rappresentano sì, capitale effettivo, cioè capitale investito o da investire e operante nelle imprese; esso però esiste in questa forma e non può avere una seconda esistenza:
le azioni non sono che titoli di proprietà, in proporzione, sul plusvalore che verrà realizzato da questo capitale. [...] L'apparenza che essi sostituiscono un capitale reale accanto al capitale o al diritto sul capitale di cui essi sono eventualmente titolo giuridico...
è consolidata dal movimento autonomo del valore delle azioni, come dei titoli di stato. E poiché è soltanto ed unicamente il capitale produttivo che realizza il plusvalore, se le imprese non ottengono concretamente profitti la struttura del credito scricchiola e si inceppa e il sistema capitalista rotola verso la crisi generale. A riconferma del fatto che tutte le manifestazioni di contraddizioni e di congiunture negative dentro e fuori i processi della produzione e riproduzione capitalista hanno il loro fondamento nel dominio storico della legge del valore.
La produttività del capitale (produzione di valore) diminuisce in quanto esso proporzionalmente realizza minori quantità di plusvalore, ed è perciò costretto ad accrescere la propria massa in movimento nella produzione di merci. Aumentando, col capitale costante (mezzi di produzione), la composizione organica del capitale a spese del capitale variabile (salari), viene a cadere il saggio medio del profitto, cioè il rapporto fra il plusvalore ottenuto e il capitale costante e variabile impiegato, e che costituisce "la forza motrice della società capitalistica".
Nel tentativo di compensare questa tendenziale caduta, che allontana i flussi di investimento e mette quindi in difficoltà l'intero processo di accumulazione, non resta altro da fare - per la borghesia - che aumentare il saggio del plusvalore, cioè il rapporto fra plusvalore e capitale variabile, attraverso l'intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro. E osannando il mercato, ovverosia la produzione di ciò che dà un profitto. In tali condizioni, i prezzi di vendita delle merci sono ulteriormente spinti al di sopra dei loro valori, ma il profitto si incrementa con il rialzo dei prezzi a condizione che l'aumento dei costi di produzione risulti più limitato. Inoltre, ciò che occorre per la vita e lo sviluppo dell'economia capitalista è produrre profitti per l'accumulazione, mentre in una situazione di crisi la produzione di una parte del profitto, il cosiddetto sovraprofitto, avviene non nel processo di produzione vero e proprio ma in quello della circolazione. E per lo più vi rimane, nelle forme di capitale commerciale e finanziario: forme speculative ma non produttive; forme di una appropriazione parassitaria che contraddice le esigenze della produzione e della accumulazione. Infatti, "il processo di circolazione è una fase del processo complessivo di produzione. Ma nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore" (Marx). Vi si realizza quel plusvalore che può essere creato unicamente nella sfera della produzione: "La legge generale è che tutti i costi di circolazione non aggiungono valore alle merci. Sono puri e semplici costi per il realizzo del valore e costituiscono, dal punto di vista dell'intera classe capitalistica, una sottrazione di plusvalore o di plusprodotto".
Questa sottrazione si è maggiormente ampliata nel tempo in seguito al dilatarsi delle spese di distribuzione e vendita delle merci prodotte; lo stesso numero di operai addetti alle operazioni di circolazione delle merci prodotte (cioè il lavoro improduttivo in senso capitalistico) si è ingigantito. L'aumento dei costi di vendita e di commercializzazione in generale è riconducibile fra l'altro alle esigenze di quella che si presenta come "la condizione essenziale dell'accumulazione": cioè che
il capitale sia riuscito a vendere le merci e a ritrasformare in capitale la maggior parte del denaro intascato.
Marx
Una condizione che viene continuamente frenata dall'enorme capacità produttiva del modo di produzione capitalista, la quale entra in contrasto con la possibilità di un consumo che contraddittoriamente si mantiene, o meglio viene mantenuto dalla logica interna del sistema, a livelli addirittura di sottoconsumo. La stessa logica che interviene quando si passa alla sollecitazione della domanda pubblica di beni di consumo e di servizi sociali, sperando in un rilancio del processo di accumulazione, e a cui poi si deve per forza di cose contrapporre il contenimento della spesa pubblica corrente. Come dirà Marx, è "l'enorme forza produttiva in relazione alla popolazione, quale si sviluppa in seno al modo capitalistico di produzione", che viene a trovarsi in contrasto, assieme all'aumento dei valori-capitale, "sia con la base per cui lavora questa enorme forza produttiva, che relativamente all'accrescimento della ricchezza diventa sempre più angusta, sia con le condizioni di valorizzazione di questo capitale crescente. Da questo contrasto hanno origine le crisi" (Il Capitale - vol. III).
Ma la causa principale della crisi, precisa ulteriormente Marx negli appunti sul Capitale, non è "la separazione, nel tempo e nello spazio, dell'acquisto e della vendita". Questa è "la possibilità generale delle crisi", in quanto "metamorfosi formale del capitalismo"; "forma più generale della crisi, cioè la crisi stessa nella sua espressione più generale. Ma non si può dire che la forma astratta della crisi sia la causa della crisi". È nel ciclo del processo produttivo che si concentrano tutte le contraddizioni dell'economia capitalista e si sviluppano le determinazioni di quella "più generale espressione della crisi", e si mostrano "le forme più astratte della medesima come ricorrenti e contenute nelle più concrete".
Ed è "solo dal movimento reale della produzione capitalistica, dalla concorrenza e dal credito che la crisi reale può essere rappresentata". Sono queste le "forme più concrete" della crisi. Il che non significa sottovalutare la questione del mercato, e della contraddizione fra produzione di plusvalore e sua realizzazione; in ultima analisi, però, anche le crisi di mercato hanno la loro causa fondamentale nei meccanismi stessi del processo di produzione e accumulazione; di una produzione unicamente rivolta al profitto e al rapporto fra questo e il capitale impiegato. Da qui la spinta alla sovraproduzione di merci e alla saturazione dei mercati; saturazione dal punto di vista ristretto della realizzazione del profitto e dell'autovalorizzazione del capitale, e non certo dei bisogni dell'umanità.
Davide CasartelliPrometeo
Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
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V Serie - Giugno 1991
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