Il Mezzogiorno al centro della strategia rivoluzionaria e della controrivoluzione

Il cosiddetto nuovo modello di sviluppo che pretende di risolvere i problemi della economia nazionale mediante «riforme di struttura» che tutto dovrebbe mutare tranne i rapporti di produzione esistenti, non poteva non comprendere la soluzione della questione meridionale.

Il tentativo di dare una soluzione alla questione meridionale non è nuovo, anzi è vecchio quanto tutta la storia dell'Italia Unita. È dall'inizio del secolo, infatti, che si fanno tentativi per venire a capo del problema e si formulano terapie che, come toccasana, dovrebbero d'incanto dare la guarigione al grande ammalato: portare nelle misere terre meridionali «quel progresso» economico e sociale tanto agognato.

Lasciamo qui da parte i tentativi rozzi e spesso volgari degli intellettuali borghesi più reazionari che hanno risolto il problema riducendolo a una questione di razza (in verità anche qualche settore consistente del P.S.I. faceva sue certe interpretazioni razziste) e quelli del liberalismo che affida tutto ai meccanismi del dio mercato che tutto dovrebbe risolvere, perché entrambi chiaramente bocciati dalla storia; per occuparci invece di quelli compiuti dal riformismo nostrano oggi ancora di gran moda.

Il primo a dare alla questione meridionale quel taglio interclassista e riformista, che ancora domina e che tante sconfitte ha portato alla classe operaia e ai contadini e altre ne prepara, fu Gramsci.

Il fondo idealistico dominante con Gramsci si esprime nella questione meridionale in maniera netta là dove si guarda ad essa come ad una particolarità specifica, italiana, non riconducibile nell'ambito della critica marxista delle contraddizioni del sistema capitalistico e si volge invece alla ricerca di soluzioni originali e «nazionali». L'errore maggiore, prontamente messo a fuoco dalla sinistra italiana, consiste nell'aver individuato la causa dell'arretratezza del mezzogiorno d'Italia con il permanere di rapporti di produzione di natura feudale e la loro funzione con gli interessi più conservatori della borghesia italiana come base obiettiva di un blocco di forze che incapsulava ogni spinta progressiva.

«...Esso realizza un mostruoso blocco agrario che nel suo come -plesso funziona da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche. Il suo unico scopo è di conservare lo status quo. Nel suo interno nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e progressi...» (1)

e oltre

«... il piano governativo di Sonnino e Franchetti non ebbe mai neanche l'inizio di una attuazione e non poteva averlo. Il modo di rapporto tra Settentrione e Mezzogiorno nell'organizzazione dell'economia nazionale e dello stato, è tale per cui la nascita di una classe media diffusa di natura economica (cioè che significa poi la nascita di una borghesia capitalista diffusa) è resa quasi impossibile.» (2)

È dunque la mancata presenza di una «borghesia capitalistica diffusa e la causa prima dell'arretratezza meridionale e non invece la sua ormai dominante presenza su tutto il territorio nazionale e non solo su questo.

Posta in questi termini la questione, ne discende come logica conseguenza la necessità di spezzare il blocco agrario come immediata ed unica via di uscita per liberare quelle forze sociali progressive indispensabili all'attuazione di un qualsiasi programma «di miglioramenti». Date queste premesse, a questo punto per Gramsci si tratta di individuare quelle forze che possono essere aggregate sul piano della rottura del blocco, di individuare in questo i punti deboli e aprirne una breccia inarrestabile.

«... Al di sopra del blocco agrario funziona nel Mezzogiorno un blocco intellettuale che praticamente ha servito finora ad impedire che le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana.» (3)

Attrarre quindi gli intellettuali, nell'ambito di un nuovo blocco di forze da contrapporre a quello agrario, acquista un'importanza vitale e la loro conquista in massa diviene il presupposto indispensabile di ogni azione rinnovatrice

«ora a noi interessano gli intellettuali come massa e non solo come individui.» (4)

Sarà questa impostazione del problema meridionale che

«non è di natura ideologica e perciò non è comunista, né socialista, né democratica, né liberale»

... come osserva Dosso - e noi aggiungiamo né di classe, che servì successivamente come copertura teorica alla più aberrante pratica interclassista del PCI che culminò nell'alleanza del proletariato insieme a tutte le altre categorie di lavoratori con la borghesia industriale a sostegno della riforma agraria il cui costo in termini di sangue e di subordinazione degli interessi proletari a quelli borghesi ancora bruciano sulla pelle e degli operai del Nord e dei contadini del Sud.

La riforma agraria è consistita essenzialmente nello spezzettamento di grandi proprietà terriere e la loro trasformazione in una miriade di piccole aziende contadine, nella sostituzione cioè di pochi grandi proprietari peraltro ben indennizzati, con numerosi piccoli proprietari senza che venissero posti in discussione il modo di gestione delle forze produttive ed i rapporti di produzione che lo determinano.

La riforma agraria intesa come frattura del blocco agrario diede la illusione di aver posto in essere le condizioni per avviare il superamento dell'arretratezza meridionale. Ma di lì a poco sarà lo stesso PCI a scontare, in termini elettorali, gli errori di una tale politica (5). Privi di una qualunque autonomia finanziaria i nuovi proprietari della terra si trovarono ben presto fra le braccia del sottopotere democristiano che controllava i finanziamenti a sostegno della riforma e la distribuzione dei concimi, delle macchine agricole, dei carburanti ecc. mediante la concessione dei crediti agevolati. Accade così che il potenziale di lotta espresso da quelli che erano stati i braccianti di ieri, svuotato di ogni sua energia, finisse sulle sponde del più misero clientelismo.

Oltre ciò, ed è la cosa che più ci importa, la riforma agraria ben presto mostrò tutti i limiti che le erano propri e la sua incapacità a risolvere la questione meridionale anche e solo da un punto di vista progressista. Essa incontrò infatti sulla sua strada le leggi obiettive dello sviluppo capitalistico che comportano la progressiva diminuzione della popolazione agricola e lo aumento di quella industriale come riflesso del processo che vede predominare l'industria rispetto all'agricoltura:

«fa parte della natura del modo di produzione capitalistico di diminuire continuamente la popolazione agricola in rapporto a quella non agricola, per il fatto che nell'industria (in senso più stretto) l'accrescersi del capitale costante rispetto al capitale variabile è collegato con l'accrescersi assoluto, nonostante la diminuzione relativa, del capitale variabile; mentre nell'agricoltura il capitale variabile richiesto per lo sfruttamento di un determinato pezzo di terreno diminuisce assolutamente, quindi può accrescersi solo in quanto viene coltivato nuovo terreno, il che presuppone a sua volta un accrescimento ancora maggiore della popolazione non agricola.» (6)

Le scelte di politica economica compiute dal potere politico in Italia, tendenti a privilegiare un tipo di produzione industriale essenzialmente destinato all'esportazione accentuarono negli anni del Boom economico ancor più questo fenomeno. Infatti era molto più conveniente collocare sul mercato internazionale i prodotti della nostra industria e riceverne in cambio prodotti agricoli, che non rivolgersi al mercato interno che offriva gli stessi prodotti a prezzi superiori di quelli del mercato internazionale.

La conseguenza più immediata di ciò fu che a partire dalla seconda metà degli anni '50 iniziò un esodo, ancora oggi in atto, di contadini meridionali verso il Nord industrializzato con il conseguente abbandono delle campagne. Il Sud e le sue campagne divennero un deserto e non pochi paesi meridionali rimasero abitati solo da vecchi, donne, bambini e... dal fantasma sconfitto della riforma agraria.

L'occupazione della terra e le lotte dei contadini meridionali meritavano ben altra conclusione che non una riforma capace di produrre solo piccoli proprietari e il crollo definitivo dell'agricoltura.

La parola d'ordine leninista «la terra ai contadini» aveva avuto un suo significato in senso rivoluzionario nella Russia feudale, ma non poteva averlo certamente nell'economia italiana inserita in un contesto di capitalismo avanzato, se non intesa come definitiva abolizione della proprietà e gestione collettiva della terra. Non nuovi proprietari, ma superamento rivoluzionario della proprietà.

La riforma agraria, inoltre, per il ritardo storico con cui venne realizzata e per i suoi contenuti non solo risultò essere un fuoco fatuo rispetto ai problemi che pretendeva di risolvere, ma, in definitiva, risultò essere anche da un punto di vista solamente economico, un fatto essenzialmente reazionario.

I diversi piani successivamente elaborati nell'ambito del MEC, per favorire la concentrazione della terra e la costituzione di aziende agricole capitalistiche, capaci di far fronte alle esigenze del mercato, ne sono una conferma.

L'azienda agricola è per tutto identica a quella industriale nel senso che entrambe sono soggette alle leggi del profitto e del mercato e per entrambe la dimensione ottimale è determinata da queste leggi obiettive.

La sinistra italiana fu l'unica forza politica a capire per tempo i limiti della impostazione gramsciana della questione meridionale e le gravi conseguenze che la sua pratica attuazione avrebbe avuto.

«Quella che banalmente si considera come arretratezza dello sviluppo sociale del mezzogiorno, analogamente alla pretesa scarsa e deficiente evoluzione sociale dell'Italia in generale, non ha nulla a che fare con un ritardo storico nell'eliminazione di istituti feudali, ed anche dove presenta le famose zone depresse è invece un diretto prodotto dei peggiori aspetti ed effetti del divenire capitalistico, nell'Europa specie mediterranea nell'epoca post-feudale.» (Prometeo - Il preteso feudalesimo nell'Italia meridionale - anno III - N. 12 - 1949)

Non dunque nella permanenza di istituti feudali è da ricercarsi la causa della crisi del mezzogiorno d'Italia, ma «negli aspetti ed effetti del divenire capitalistico»

«Se si pensa che tali plaghe all'epoca della Magna Grecia erano le più floride e civili del mondo conosciuto, che restarono sotto Roma fertilissime, si deve considerare che le cause del loro scadimento si trovano sia nella posizione marginale rispetto al dilagare del germanesimo feudale con la caduta dell'Impero Romano (che le espose alle alternative di invasioni e distruzioni dei popoli del Nord e del Sud) sia alla depressione dell'economia mediterranea con le scoperte geografiche oceaniche, sia appunto al prorompere del moderno regime capitalistico e coloniale che fu condotto a localizzare altrove, giusta l'ubicazione delle materie prime di base dell'industrialismo i suoi centri di produzione e le sue grandi vie di traffico, sia infine alla costituzione dello stato unitario italiano... che istituì un rapporto tipicamente moderno e imperialistico perfino precursore dei tempi più recenti.» (Prometeo cit.)

Era dunque follia politica per noi cianciare di feudalesimo quando da tempo tutti i tratti caratteristici del mondo feudale erano stati spazzati dalla affermazione del dominio della borghesia. L'arretratezza meridionale non era il prodotto del permanere di forme economiche feudali ma piuttosto la logica conseguenza dello sviluppo capitalistico, che, soggiacendo alla legge del massimo profitto, inevitabilmente produce squilibri fra i diversi settori produttivi e crea di conseguenza aree di sottosviluppo là dove sono dominanti i settori produttivi più deboli quali l'agricoltura nel mezzogiorno d'Italia.

Alle contraddizioni del sistema capitalistico italiano di cui il mezzogiorno è parte integrante, bisognava guardare e non tuffarsi nei meandri di un passato già da tempo sepolto dalla storia.

«Il problema del mezzogiorno è un problema di classe, un problema di abbattimento dello Stato Italiano, un problema di inquadramento di tutte le forze lavoratrici in Italia....
...Napoli non deve essere liberata da Milano. Milano e Napoli devono essere liberate da Roma.» (Prometeo 1950 - N.1 - II serie)

Alle critiche della sinistra italiana, prima alle posizioni di Gramsci e poi alla riforma agraria, rispose la rauca stalinista con il metodo solito delle accuse volgari e denigratorie, la più delicata delle quali era quella di essere finanziati dai latifondisti e dalla reazione!

Oggi esistono dati precisi che confermano invece la validità della nostra opposizione alla riforma agraria e che mostrano come la nascita di piccole aziende contadine senza futuro e la loro difesa ad oltranza sia stata causa determinante della crisi attuale del mezzogiorno.

Da questi dati rileviamo infatti come il successivo sviluppo del capitalismo italiano oltre che accentuare il distacco tra Nord e Sud ha prodotto il dissolvimento della piccola azienda contadina. Dal 1963 al 1973 si è avuta nel settore agricolo una diminuzione di oltre 3 milioni di addetti, la scomparsa di circa 700 mila unità aziendali e la diminuzione di oltre 3,5 milioni di ettari coltivati. Parallelamente a questo ridimensionamento generale si sono registrati nello stesso periodo profondi mutamenti all'interno del settore; infatti mentre il numero complessivo delle aziende è diminuito, è aumentato quello delle aziende con una superficie superiore ai 50 ettari di ampiezza. Le piccole aziende hanno perduto 2,3 milioni di ettari, mentre quelle con una superficie superiore ai 50 ettari ne hanno acquisiti ben 800 mila. Dal 1961 al 1970 si sono perduti 800 mila capi di bovini che risultano essere il prodotto della diminuzione di oltre 2,5 milioni di capi nei piccoli allevamenti e dell'aumento di oltre 1 milione di capi negli allevamenti superiori ai 50 capi.

«Si è attuato cioè un processo di ristrutturazione aziendale dello stesso ordine di grandezza (come ammontare) di quello della riforma stralcio, ma qualitativamente ben diverso in quanto si tratta di aziende di medie e grandi dimensioni, in grado di darsi una struttura organizzativa efficiente e razionale nei confronti dei mercato impostate secondo gli schemi capitalistici su ordinamenti produttivi orientati soprattutto verso le colture con basso impiego di manodopera.» (7)

Questo è il parere di un economista borghese - Fabiani - sul processo di ristrutturazione dell'agricoltura che vede costantemente diminuire l'importanza di questo settore rispetto a quello industriale e contemporaneamente al suo interno estendersi il dominio di aziende di grandi dimensioni, giusto il processo di concentrazione dei mezzi di produzione proprio del sistema capitalistico.

Industrializzazione del mezzogiorno

Lo sviluppo dell'agricoltura avrebbe dovuto agire secondo i riformisti da volano del processo di industrializzazione del meridione, ma il fallimento della riforma agraria e ancor più la logica dello sviluppo capitalistico ne hanno impedito la realizzazione. Gli unici insediamenti industriali realizzati nel mezzogiorno sono state le ormai famose «cattedrali nel deserto», quali l'impianto siderurgico di Taranto e l'altro, ancora da farsi, di Gioia Tauro in Calabria.

Questo tipo di industria non può risolvere problemi occupazionali su larga scala, ne, per la peculiarità della sua attività produttiva, porsi come moltiplicatore delle attività economiche in generale. Si tratta infatti, di settori produttivi ad altro contenuto tecnologico con elevata composizione organica del capitale e quindi capaci di occupare pochissima manodopera rispetto alla massa di capitale finanziaria investita. Inoltre, collocate nel contesto economico dell'Italia meridionale, caratterizzato da una agricoltura arretrata, non solo non hanno fatto sviluppare l'interscambio con gli altri settori produttivi e favorito la nascita di aziende collaterali ma, sono risultate in ultima istanza un elemento aggiuntivo di caos economico e sociale nel già tormentato Sud.

Dovrebbero e potrebbero invece, svilupparsi quelle attività produttive che meglio si inseriscono nella struttura economica essenzialmente agricola del meridione, in armonia con le esigenze delle classi lavoratrici meridionali e di quelle più in generale, di tutti i lavoratori; ma è proprio ciò che il sistema capitalistico non ha potuto fare e che non potrà mai fare, perchè incompatibile con il suo processo di accumulazione in funzione di un interesse particolare di classe dominante. Confermano questa logica alcuni rilevamenti statistici da cui risulta che a tutto il 1972, nonostante il parco trattrici fosse localizzato per il 35% nell'Italia meridionale, la produzione era localizzata tutta nell'Italia Settentrionale, ed in modo particolare nella Lombardia, dove l'offerta di trattrici risultava doppia rispetto alla domanda della regione. Si aggiunga inoltre che non è valso a stimolare la nascita di imprese produttrici di trattrici nel mezzogiorno il costante incremento della domanda di queste macchine, negli ultimi 10 anni, da parte dell'agricoltura meridionale.

La produzione di trattrici, invero richiede una struttura industriale altamente sviluppata ed un'avanzata tecnologia; cioè potrebbe giustificare in parte la concentrazione della produzione in un'area, quella settentrionale, che dispone di una lunga tradizione industriale. Ma risulta essere localizzata nel Nord anche la produzione di macchine agricole la cui fabbricazione non implica l'adozione di tecnologie avanzate. Infatti secondo i dati forniti dalla fiera di Verona la produzione di queste macchine è localizzata per il 90% nell'Italia settentrionale e per il rimanente 10% nell'Italia centrale.

L'unica eccezione è costituita dalla produzione dei motocoltivatori alla quale contribuisce in buona misura l'industria meridionale. Ma ciò è dovuto esclusivamente alla presenza nel settore di una sola grande fabbrica siciliana.

Anche la produzione di macchine operatrici semplici, realizzata soprattutto in piccole e medie aziende, è completamente assente nell'Italia meridionale e ciò nonostante la miriade di leggi e leggine a sostegno dell'insediamento della piccola e media industria nel Sud. La storia di queste leggi speciali a favore del mezzogiorno meriterebbe una trattazione a parte, non fosse altro per vedere come questa inesauribile fonte di finanziamento abbia favorito sempre e solamente i processi di ristrutturazione della grande impresa industriale del Nord. I petrolieri, ad esempio, si son visti letteralmente regalare dallo stato il capitale finanziario occorrente per la costruzione di moderne raffinerie, che non impiegano più di qualche centinaio di operai, tutte ubicate, per ovvie ragioni, sulle coste della Sicilia e della Sardegna che sono divenute così il deposito di prodotti petroliferi dell'Europa, ottenendo in cambio la loro completa degradazione.

Qui ci interessa mostrare invece, le contraddizioni del sistema capitalistico che pone come condizione del suo sviluppo la rovina di intere aree e il loro spopolamento, e la concentrazione in altre di enormi masse umane costrette a vivere in condizioni ambientali che ne producono l'abbrutimento più totale. L'industria alimentare, ad esempio, meglio di ogni altra avrebbe ragione di collegarsi all'agricoltura e pertanto la sua presenza dovrebbe essere più consistente laddove quest'ultima è dominante.

La particolare struttura della domanda dei prodotti dell'industria alimentare fortemente anelastica, consente la realizzazione di elevati profitti ed ha attirato nel settore le grandi compagnie multinazionali che meglio di ogni tipo di impresa, data la loro immensa forza finanziaria, sono in grado di conseguire sovraprofitti di provenienza essenzialmente speculativa.

In questi ultimi anni tutti i grandi colossi dell'industria alimentare si sono riversati sul mercato italiano ed oggi, questo settore risulta così strutturato: il settore dello zucchero è controllato da tre grandi società; quello dei surgelati è per l'80% nelle mani di un'impresa a capitale olandese e svizzero; il settore vinicolo in quelle di una sola compagnia americana che ha incorporato le più importanti aziende vinicole italiane. Operano infine nel settore l'Unilever, la Nestlè, la Liebig e le americane General Foods, International Corn Products, la Heinz e la Montedison... di Cefis.

La politica, seguita da queste compagnie sino ad oggi, è poco definirla di rapina. Esse infatti spingono i contadini a produrre ad esempio mais o barbabietole promettendo loro prezzi buoni e convenienti, ma al momento del raccolto rifiutano di acquistare i prodotti ai prezzi stabiliti lasciando ai contadini l'alternativa di vendere sottocosto, ma comunque di recuperare almeno in parte le spese sostenute, o di lasciar marcire il raccolto sulle piante. È emblematico a questo riguardo, quanto accaduto la scorsa estate con i pomodori. La grande industria alimentare ha offerto ai produttori prezzi tanto bassi da non coprire neppure le spese del solo raccolto.

La conseguenza immediata di tutto ciò è stata la distruzione di migliaia di quintali di pomodori e la rovina dei contadini più poveri.

Aspettarsi, che l'industria alimentare così come è strutturata e dati i fini che perseguono le società multinazionali che la controllano, possa ubicarsi nel mezzogiorno d'Italia è pura illusione.

«Bisogna infatti scorrere fino al 50o posto la graduatoria delle aziende ordinate in base al fatturato, per trovare una società che presenti tanto i propri centri di produzione quanto quelli di decisione nel Sud. Si riproduce, cioè, anche dal lato delle vendite, la struttura di un'agricoltura diffusa in tutto il territorio nazionale, e quindi con una componente meridionale assai rilevante, ma tributaria di un settore industriale geograficamente concentrato nella parte settentrionale del paese. Si tenga, infine, presente che le poche imprese meridionali, tendono ad essere anche le più deboli e appartengono a quella fascia dimensionale nella quale più frequentemente si ritrovano nel momento attuale, le situazioni di crisi.» (8)

La localizzazione delle imprese, infatti - come insegna lo svedese Myrdal - dipende da una serie di fattori, le cosiddette economie esterne quali la vicinanza ai mercati di approvvigionamento o di collocazione dei prodotti finiti, che incidono direttamente su costi di produzione e quindi sul profitto. È sempre la legge del massimo profitto che determina le scelte imprenditoriali e non i pii desideri del primo riformista di turno. Si può concludere dunque, che sia il settore industriale, cui l'agricoltura si rivolge per soddisfare la propria domanda. sia quello alimentare che ne assorbe l'offerta sono localizzati interamente al Nord. Il fenomeno per di più tende, dato il perdurare della crisi economica, ad accentuarsi poiché le aziende più deboli che sono quelle meridionali sono le più esposte.

Dalla pur breve analisi fatta risulta evidente il completo fallimento della politica meridionalista fin qui seguita, non avendo questa raggiunto nessuno degli obiettivi che si proponeva.

L'aver incapsulato il potenziale di lotta, che pure avevano espresso le masse lavoratrici meridionali e subordinato gli interessi della classe operaia a quelli del capitalismo, rimane l'unico risultato della aberrante pratica interclassista del PCI.

L'esperienza passata, i rivoluzionari la sottopongono ad attenta analisi critica per trarne da essa i dovuti insegnamenti. Ma non altrettanto fanno gli opportunisti.

È il caso questo, del partitone di Berlinguer che come se nulla fosse accaduto negli ultimi trent'anni ripropone come soluzione della questione del mezzogiorno le stesse cose di allora: riforme di struttura capaci di valorizzare lo spirito imprenditoriale. Dice Attilio Esposto - presidente dell'alleanza dei contadini

«I guai della nostra agricoltura nascono dell'arretratezza nella quale tali aziende [le piccole aziende contadine - ndr] sono tenute da un regime economicamente e socialmente ritardato, e ancora più - oggi - a causa della loro subordinazione al potere del capitalismo monopolistico... Il superamento di questa subordinazione ed inferiorità può avvenire solo con un'agricoltura associata che attraverso un sistema nazionale di forme associative e cooperative, d'organizzazione unitaria, autonome e democratiche dei coltivatori, rispettose dei criteri del pluralismo politico professionale, possa dare alle imprese coltivatrici singole e associate e all'intero settore un adeguato potere e quindi la forza e le capacità necessarie per una politica di rinnovamento dell'agricoltura stessa e di tutta l'economia... L'agricoltura associata è da una parte la risposta di massa democratica ed unitaria ai falsi miti dell'efficientismo della grande azienda capitalistica; dall'altra è la risposta alternativa allo attuale stato dell'agricoltura italiana, alternativa che rifiuta anche l'errata ipotesi della socializzazione collettiva della terra» (L'Unità del 05-10-1975)

Nessun accenno, come si vede, ai salariati dell'agricoltura quasi che il profitto realizzato dalle cooperative non sia della stessa natura di quello delle grandi imprese monopolistiche. Notiamo che rispetto a 30 anni addietro il PCI ha rinunciato a certe fregole progressiste per collocarsi sul terreno della più bieca reazione. Non è un caso infatti che il discorso di Esposto sia indirizzato alla Coldiretti - l'organizzazione dei coltivatori diretti controllata dalla DC - distintasi sempre per le sue posizioni parafasciste. Leggiamo sempre sull'Unità:

«La Coldiretti innanzitutto, che malgrado frenata e rigurgiti anticomunisti, peraltro prevedibili, resta la principale destinataria della proposta politica dell'alleanza e della sua ispirazione unitaria».

Si propone addirittura questa volta, l'alleanza con quelle fasce sociali legate a filo doppio alla piccola proprietà e quindi obiettivamente collocate sul terreno della più bieca conservazione. L'inconsistenza e la demagogia di queste proposte è data anche dalla pretesa di ottenere investimenti per circa 12 mila miliardi di lire in cinque anni, dimenticando che l'apparato produttivo italiano è utilizzato al 65% delle sue capacità produttive e gli investimenti sono calati nel 1975 di oltre il 30%. Vien fatto di chiedersi se i 12 mila miliardi non serviranno ancora una volta a finanziare il processo di ristrutturazione dell'apparato produttivo come è già accaduto negli anni 1960.

E ancora una volta si subordinano gli interessi della classe operaia a quelli del capitale. Infatti, i sindacati hanno impostato la loro azione rivendicativa limitando le richieste salariali per privilegiare gli investimenti nel mezzogiorno. La questione meridionale non può essere risolta e la storia lo ha ampiamente dimostrato, schierandosi ora con questo ora con quel settore della borghesia secondo calcoli puramente elettoralistici. Ma impone un suo collocamento nell'ambito della lotta di classe che vede gli operai, i contadini poveri, i braccianti obiettivamente uniti da un interesse comune: la distruzione dei rapporti di produzione borghesi.

«Il predominio della città sulla campagna (sotto lo aspetto economico, politico, intellettuale e sotto tutti gli altri aspetti) rappresenta un fenomeno generale ed inevitabile in tutti i paesi nei quali esistano e la produzione mercantile e il Capitalismo.» (9)

Dunque come insegna Lenin il capitalismo è l'unico responsabile! Di questo devono prendere coscienza i contadini calabresi e gli operai piemontesi se non vorranno i primi continuare a girare il mondo alla ricerca di un lavoro e di un padrone e i secondi a scioperare per finanziare la ristrutturazione delle imprese capitalistiche.

Giorgio

(1) Gramsci - La questione meridionale - Ed. Riuniti.

(2) Gramsci - op. cit.

(3) Gramsci - op. cit.

(4) Gramsci - op. cit.

(5) Confrontare - Tarrow: Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno - Ed. Einaudi.

(6) Il Capitale - Karl Marx - Ed. Riuniti pag. 737.

(7) Crisi e ristrutturazione nell'economia italiana - Ed. Einaudi pag. 191.

(8) Crisi e ristrutturazione nell'economia italiana - Ed. Einaudi pag.

(9) Il Romanticismo economico - Lenin - Ed. Riuniti pag. 136.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.