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Riprendendo il dialogo di un tempo e pur sempre vivo con Gramsci
«Tra i tanti significati di democrazia, quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di «egemonia». Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui lo sviluppo dell'economia e quindi la legislazione, che esprime tale sviluppo, favorisce il passaggio (molecolare) dai gruppi diretti al gruppo dirigente.» (Note sul Machiavelli - Gramsci)
Tra i non pochi frammenti e appunti sul concetto dell'egemonia, la cui frequenza e insistenza ricorrenti nell'opera stanno a dimostrare come l'argomento fosse al centro dell'attenzione dell'autore e ne condizionasse in parte e formulazione teorica e decisione pratica, in evidente contrasto con il marxismo della sua militanza politica, abbiamo scelto «Egemonia e democrazia» che riteniamo più significativo e più completo, pur nella sua schematicità.
Forse il maggior impegno di elaborazione teorica di tutta l'opera gramsciana, il punto focale della sua dottrina va ricercato in questo tentativo di approfondimento critico, che è poi l'egemonia, quel turbinoso processo molecolare che rende possibile il passaggio da gruppi o classi diretti a gruppi o classi dirigenti.
È proprio in questo nucleo di pensiero che prende via via corpo l'idea della «egemonia» che finisce per trovare la sua vera, anche se mai completa collocazione, prima nei consigli come prefigurazione della futura società comunista, quindi nel partito concepito su base cellulare di fabbrica, e infine nel ruolo n prioritario» affidato agli intellettuali e in genere alle classi medie nella visione del blocco storie»).
Incominciamo con i «Consigli». Per la verità ci siamo più volte e per ragioni polemiche, riferiti a questi punti nodali della dottrina dei Consigli soprattutto per ciò che concerne la tesi cara a Gramsci del carattere di prefigurazione della società comunista che si voleva attribuire a questo tipo di organizzazione 2ià inserito nel contesto delle strutture della vecchia società che si voleva distruggere.
I termini della nostra polemica con Gramsci allora sottintendevano la interpretazione che del ruolo dei Consigli sarebbe stata data dall'opportunismo: i consigli (soviet) sono sorti e sorgono storicamente come organi del potere operaio in perfetta sintonia col partito rivoluzionario, nascono quindi da una spaccatura rivoluzionaria e mai da un processo riformista di conciliazione tra le classi. È proprio per questo netto spartiacque teorico posto dalla nostra lontana disputa, quanto mai viva e attuale, che ogni rilettura di Gramsci deve essere fatta criticamente, alla luce cioè di quanto viene fatto, oggi, dai tardi epigoni del gramscismo in nome del suo insegnamento.
Scrive Gramsci:
«Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti alla organizzazione dello Stato proletario sono inerenti alla organizzazione del Consiglio. Nell'uno e nell'altro il concetto di cittadino decade e subentra il concetto di compagno; la collaborazione per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il più ignorante e il più arretrato degli operai, anche il più vanitoso e il più «civile degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle esperienze dell'organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per acquistare una coscienza comunista per comprendere il il gran passo in avanti che l'economia comunista rappresenta nell'economia capitalista» (da «Ordine Nuovo» - Sindacati e Consigli)
Par di leggere un brano preso di sana pianta da una pagina di un qualsiasi scrittore del periodo del socialismo utopistico tanto la crescita d'una coscienza del gruppo soggetto è intrisa di «collaborazione per produrre bene» e «utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza», e il passaggio molecolare al gruppo dirigente è tanto palesemente indolore.
Gramsci conclude il suo pensiero in questi termini:
«Il Consiglio è il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dalla esperienza viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppa nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrificio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia.
L'esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia».
Trascurando, in questa sede, ciò che invece Gramsci non trascurava affatto, cioè la ricerca dell'effetto, che chi scrive cerca di ottenere dall'uso o dallo abuso di un certo mezzo espressivo quel che colpisce in questa nostra rilettura è l'impressionante assenza, nella funzione dei Consigli, d'una pur minima compressione dei termini di una contrapposizione di classe che nel biennio 1919-20 aveva raggiunto i suoi punti limite con la rivoluzione d'Ottobre in Russia e con la sconfitta del moto spartachista in Germania.
Ma vediamo più da vicino il problema dei Consigli nella esperienza personale di Gramsci. È a Torino che egli ne vive il suo maggiore episodio teorico-pratico: una rapida fioritura di Consigli avutasi nel settore più avanzato della industria metallurgica torinese sotto la spinta stimolante degli avvenimenti della Rivoluzione russa, fa da supporto pratico organizzativo al gruppo Ordine Nuovo che ne diviene il centro di elaborazione teorica.
Se i Consigli dell'esperienza torinese, più che di una situazione nazionale, dove era inesistente una fase d'azione immediatamente rivoluzionaria, erano il riflesso di una situazione internazionale che manteneva tuttora delle possibilità di sviluppi in senso rivoluzionario, era inevitabile che tutta l'impostazione inizialmente data ai consigli, notevole per apporto intellettualistico e per malcelato affiato mistico più che per ponderata analisi dei dati obiettivi, dovesse finire con giravolte teorico-tattiche di non facile giustificazione sul piano di una visione critica legata non al mito ma al reale svolgimento della storia degli ultimi cinquant'anni delle lotte operaie.
Nella situazione italiana, pur non essendo all'ordine del giorno una fase immediatamente rivoluzionaria, nel suo complesso era tuttavia fase montante nella quale i Consigli potevano trovare ossigeno sufficiente per vivere nella ipotesi d'una possibile e non lontana prospettiva di soluzione rivoluzionaria. Ma avevano i Consigli una struttura, una organizzazione nazionale, una rete efficiente di quadri intermedi e soprattutto una raggiunta omogeneità organica tra teoria e pratica? L'originalità dell'Ordine Nuovo e della prima esperienza dei Consigli è stata quella torinese e non ha oltrepassato nella pratica, triste esperienza italiana, i limiti della provincia.
Nella ricerca, tra il 1917 e il 1919 di una egemonia valida alle esigenze della situazione ancora piena di incognite, Gramsci si e dovuto accontentare delle false egemonie o delle egemonie imperfette.
L'errore di fondo di tutta la tematica gramsciana va individuato in quella sua pretesa, del tutto idealistica, di attribuire agli organismi di fabbrica, per loro natura contingenti, mutevoli e ancorati ad interessi particolari, funzioni permanenti e statiche che sono proprie del partito di classe.
«L'organizzazione per fabbrica -- scrive Gramsci, nella chiusa dello stesso articolo -- compone la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente.»
Che l'organizzazione dei Consigli non sia riuscita negli anni dell'esperienza ordinovista (1917-20) a comporre la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa lo dimostra il fatto della sua organica incapacità a recepire una funzione di egemonia politica pur nei confronti di un partito come quello socialista non certo concorrenziale sul piano della lotta rivoluzionaria, e infine come ipotetici organi di potere proletario, i Consigli, nati asfittici, hanno potuto avere una fine onorevole alle assisi del convegno di Imola (1920) che oltre a gettare le basi del partito di classe, è stata anche la naturale sede di approdo e di liquidazione delle due maggiori egemonie imperfette esistenti nello schieramento politico italiano, divenuto ormai adulto nello spazio vitale del Partito socialista, quella dell'Ordine Nuovo, con la fine dei Consigli e quella del «Soviet», con la fine dell'astensionismo.
E nel partito che si formerà a Livorno Gramsci porterà, era inevitabile che ciò avvenisse, la sua forma mentis consiglierista la concezione cioè di un partito che basa la sua egemonia su di una struttura cellulare di fabbrica. Subito si confonderà, ma senza compromettersi troppo, con la sinistra tradizionale del partito, per attendere, dal conflitto latente tra alcune posizioni fondamentali tipiche della sinistra italiana e le esigenze russe del centro della Internazionale, la messa in moto di un processo interno di spostamento di forze (il passaggio molecolare) che avrebbe favorito la formazione di una nuova direzione.
Lo scontro avverrà sul falso problema della scissione (Comitato d'Intesa 1925) ma all'ordine del giorno del vasto e a volte violento dibattito sono in realtà la politica del fronte unico e la trasformazione della organizzazione del partito dalla sua base territoriale a quella cellulare di fabbrica.
Portare la caratteristica di fabbrica propria dei Consigli nella struttura del partito, significava per la sinistra contaminarne ideologicamente la natura di organismo dalla funzione unificante le varie e a volte contraddittorie istanze che dal seno della classe salgono fino al partito in un processo di lenta decantazione socio-politico, dalle categorie alla classe, sotto il pungolo costante della vasta gamma delle lotte rivendicazioniste tra capitale e lavoro di cui veramente si sostanzia una propedeutica autenticamente rivoluzionaria.
Nella fabbrica dominano gli interessi che gli sono propri e che per loro natura non vanno oltre la rivendicazione corporativa e a questa piegano l'attenzione, i desideri, il comportamento degli operai che vi lavorano.
Portare il partito nella fabbrica significava per noi spezzare il nesso dialettico che deve sempre intercorrere tra partito e classe. Si voleva dare il sapore di scoperta, combattere ogni tendenza corporativa portando il partito nelle fabbriche e si è finito poi con l'immiserire il partito costringendolo sul binario opposto a portare avanti cioè una politica corporativa. (Comitati di gestione, ecc. ecc.).
La nuova direzione improntata alla linea gramsciana che guiderà il partito fino alle leggi eccezionali (nov. 1926) sarà ancora un pallido esempio di egemonia imperfetta, data l'incapacità del vertice di riuscire ad allargare la sua base di influenza potenziando l'apparato dei funzionari e perdendo sempre più credito dalla parte della reale maggioranza del partito che, ad onta delle manovre condotte senza scrupoli e delle protezioni internazionali sfruttate da buoni mercanti della politica, era tuttora sentimentalmente sul terreno della sinistra.
Tuttavia va riconosciuto a Gramsci la capacità di avere seguito in questo arrembaggio al potere, molto da vicino e con acuto e spregiudicato senso politico la fase del processo molecolare interno di cui ci stiamo occupando dimostrando nella pratica, anche col perfido ricatto amministrativo, di sapere attingere più ai metodi appresi dalle pagine di Machiavelli che da quelle di Marx e di Lenin.
Del resto non ebbe titubanza nel riconoscerlo rispondendo ad una nostra amara constatazione fattagli in proposito.
Nella storia del movimento operaio si tornerà a parlare dei Consigli ma in modo più dimesso e in termini meno esaltanti, svuotati del loro contenuto originario che Gramsci attribuiva loro e che di fatto non avevano mai avuto, quello cioè
«di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia.»
Questa egemonia i Consigli non l'hanno mai raggiunta né quando Gramsci scriveva queste righe ne, tanto meno, come organi del potere rivoluzionario, ridotti ormai dagli epigoni al rango di organi permanenti del sindacato di fabbrica, una specie di sostituto, forse più rappresentativo, delle vecchie commissioni interne. Nessuno nega che non si sia verificata con ciò una crescita di potere egemonico, ma a favore dell'apparato sindacale, in nessun caso dei delegati al Consiglio anche se questi sono stati eletti dalla base con tutto il rispetto delle regole democratiche.
Si tratta comunque di una egemonia sviluppatasi su un piano di gerarchia sindacale che solo il fervore di certi epigoni e di certo pressappochismo culturale, oggi in auge, possono considerare nel quadro dell'originaria concezione gramsciana.
Non vorremmo che si pensasse, con questo nostro richiamo, alle esperienze più recenti come ad un nostro tentativo di servircene come dimostrazione pratica di errori che troverebbero la loro matrice ideale nel pensiero di Gramsci, o più esattamente nella sua frammentarietà, in quei lampeggiamenti di rapide sintesi a cui sono mancati i necessari svolgimenti.
Nel fatto specifico in esame a nostro avviso è mancato a Gramsci soprattutto lo strumento più valido o caratterizzante per un marxista, il metodo, quello cioè di porre il problema dei Consigli nella forma di organismo, centro di un maximum di virtù politico-organizzative che si autoformano del lavoro umano nell'ambito della fabbrica, una specie di monade che ha tutto in sé per essere, per raggiungere da sé i limiti della propria perfezione e «affermare», cioè, «la sua sovranità, attuare il suo potere e la sua libertà creatrice di storia». Questa linearità di sviluppo è propria dell'idealismo e non è mai coincidente con lo sviluppo reale della storia basata sulla legge della permanente contrapposizione di classe.
Dove e quando tale linearità di sviluppo è riscontrabile nella non lunga e tormentata storia dei Consigli?
Nel periodo che precede la conquista rivoluzionaria del potere i Consigli sono, sì, organi del potere operaio, ma lo sono allo stato potenziale ed hanno per compito di affrontare i problemi della produzione in prospettiva dello assalto rivoluzionario e la mobilitazione spirituale delle masse operaie verso i nuovi obiettivi. In questa fase di formazione i Consigli sono ancora un coacervo di forze divise da interessi divergenti e da caratterizzazioni politiche religiose diverse. È compito del partito rivoluzionario operare in modo da far prevalere gli interessi unitari e superiori della classe su quelli contingenti particolari delle categorie; di fare accettare la dottrina, il metodo, la disciplina, la saldezza dei nuovi quadri come il solo partito capace di porsi alla testa della rivoluzione. È in questo quadro d'insieme che prende particolare significazione la decisione di Lenin di subordinare l'inizio della insurrezione alla affermazione dei bolscevichi nelle elezioni dei maggiori soviet; la maggioranza dei bolscevichi nei soviet di Mosca e di Pietrogrado (oggi Leningrado) avrebbe garantito un esito vittorioso dell'insurrezione.
Spezzata, con l'atto rivoluzionario, l'ossatura della vecchia macchina statale i Consigli possono esprimere nella totalità la loro autentica funzione di organi del nuovo potere nella pienezza dei suoi attributi, nella potenza della sua unità rivoluzionaria.
Era nostra cura mettere in evidenza questa fase dei Consigli che precede la conquista del potere che sta tutta entro la dinamica del conflitto di classe che vede il proletariato e i suoi organi di lotta, compresi i Consigli, in condizione, per usare la terminologia di Gramsci, di gruppo diretto (noi diremmo di classe soggetta o subalterna). In questo passaggio molecolare, più o meno celere, tipico del periodo di crisi profonda in cui sorgono i Consigli, ipotizzare un loro processo di sviluppo organico nel tronco marcio del sistema capitalista, che la rivoluzione dovrà distruggere, è una formulazione per lo meno mitizzante in quanto non trova alcun legame con la realtà del contesto socio-economico. Due momenti diversi per tattica e per strategia che non possono essere confusi.
A proposito di metodologia ci piace ricordare ciò che scrive Lenin di Marx in «Stato e Rivoluzione»:
«In Marx non vi è traccia del tentativo di inventare di sana pianta delle utopie, di fare vane congetture su quel che non si può sapere. Marx pone la questione del comunismo come un naturalista porrebbe, per esempio, la questione dell'evoluzione di una nuova specie biologica, una volta conosciuta la sua origine e la linea precisa della sua evoluzione.» (Stato e Rivoluzione)
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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
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Anno XXVIII - Serie III - Primo e secondo semestre 1975
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