Il terzo mondo nell'era dell'imperialismo

Paesi sottosviluppati, colonialismo e mito delle rivoluzioni nazionali

Il problema delle rivoluzioni nazionali è sempre più aperto, oggi più che mai, poiché è il problema che più segue la dinamica contorta dell'imperialismo.

Quello delle rivoluzioni nazionali è un mito che ha avuto e che ha il potere di suggestionare e di imbrigliare nella morsa degli appetiti imperialisti ingenti masse di proletari che si battono nella illusione di risolvere i loro problemi di classe facendoli coincidere con la liberazione nazionale, identificandoli con gli interessi della borghesia nazionale.

Noi dobbiamo avere il coraggio di infrangere questo mito che il capitalismo stesso ha creato, quello stesso capitalismo che manovra le proprie crisi e i propri contrasti sul piano della guerra a danno della classe operaia, la quale viene chiamata a scannarsi per interessi che non sono i propri.

Sulla scorta di una analisi del grande fenomeno delle rivoluzioni nazionali e della sua conseguente definizione, l'avanguardia rivoluzionaria è in grado di elaborare una sua strategia e una sua tattica. Noi non ci associamo a coloro che danno del marxismo una interpretazione su base esclusivamente meccanicistica ed economico-deterministica e che vedono nelle rivoluzioni nazionali il mezzo per spingere avanti la "ruota" della storia, in modo da creare delle strutture capitalistiche dove vi sono condizioni di medioevalità economica e "disturbare", così, l'equilibrio economico dei paesi imperialisti.

Non ci associamo a coloro che appoggiano i moti nazionalistico-borghesi, moti che ingabbiano le masse oppresse, in ribellione contro metodi di sfruttamento schiavistico, indirizzandole verso ideali e fini che sono sì di sviluppo tecnico ed economico capitalistico, e quindi alla fine generatori di nuove contraddizioni e forze rivoluzionarie, ma sono pur sempre assoggettate non ad una propria, nuova ed indipendente dinamica ma a quella dominante oggi nel mondo imperialistico.

Nell'affrontare il problema dei paesi arretrati e delle rivoluzioni nazionali in tali paesi è necessario affrontare i temi generali dello sviluppo capitalistico nella fase imperialista, i temi della formazione storica del capitalismo di Stato, i temi della caratterizzazione sociale del processo di accumulazione allargata in una fase di industrializzazione, i temi, infine, del rapporto tra un determinato sviluppo strutturale e le sue forme strutturali.

È chiaro che, in un mondo dominato dalle forze dell'imperialismo, i moti dei paesi sottosviluppati non vanno considerati a sé stanti, ma come parte di una situazione obiettiva nella quale gli interessi della dominazione imperialista determinano gli sviluppi di tali moti. E, nello scaltro gioco imperialistico, tutti i partiti politici, compresi quelli che si richiamano al proletariato, subiscono inevitabilmente l'attrazione verso uno dei poli dell'imperialismo, "tifando" per questo o per quell'imperialismo in lotta.

E la "attiva solidarietà" dei paesi imperialisti non consiste in altro che nel soffiare sul fuoco e nel fornire combustibile all'incendio, incanalando le guerre di liberazione nazionale nel piano dell'esclusivo interesse della dominazione imperialistica.

Il proletariato indigeno è stato, finora, praticamente stritolato dalla morsa di queste contraddizioni e quando si batte e si fa ammazzare, ciò non avviene sulla linea storica dell'interesse della sua classe e del socialismo, ma per servire da puntello all'una o all'altra delle dominazioni imperialiste.

Perché il ciclo storico delle rivoluzioni nazionali si è praticamente chiuso nel momento stesso in cui si è aperto sul mondo quello dei predoni dell'imperialismo. L'uso che il capitalismo fa delle sue colonie, come di riserve di cui dispone a beneficio dei propri interessi economici e politici nell'arena internazionale, si traduce nello sfruttamento e nella oppressione più acuti.

Milioni di uomini, donne e bambini denutriti, affamati, costretti a vivere in condizioni di estrema disperata miseria: questi i risultati di una organizzazione economica e sociale, quella capitalistica, fondata sul "diritto" del capitale a disporre degli uomini e del lavoro altrui come merce capace di riprodurre danaro e altre merci.

L'imperialismo ha saputo adattare ai suoi fini il dispotismo e lo schiavismo dei tempi feudali e mentre distrugge l'economia primitiva delle colonie, tenta di ostacolare lo sviluppo delle forze produttive per servire senza contropartita gli interessi della sua produzione. E nella misura in cui gli antagonismi degli imperialismi rivali si acutizzano sul mercato mondiale, lo sfruttamento dei paesi sottosviluppati si aggrava sempre più.

Se osserviamo attentamente la stessa propaganda imperialista troveremo che essa tende a far risaltare sempre più determinati elementi economici, quali gli investimenti imperialistici nelle zone sottosviluppate, investimenti presentati come "aiuti" e "prestiti". Le enormi somme che vengono profuse dai paesi imperialisti hanno lo scopo di sostenere i vari regimi che si insediano nei paesi a struttura pre-capitalistica, per mezzo dei quali essi possono assicurarsi lo sfruttamento delle materie prime e offrire alle loro potenti compagnie super-profitti e sbocchi di investimento.

Per i paesi sottosviluppati la liberazione nazionale non muta la situazione di dipendenza economica dai paesi capitalistici.

Già inestricabilmente "integrati" nel mercato capitalistico mondiale, e incapaci di esistenza autosufficiente, essi restano un oggetto di competizione imperialistica: il loro futuro appare legato alle mutevoli sorti delle lotte fra potenze imperialistiche. Le rivoluzioni sociali contro lo sfruttamento straniero e nazionale trovano un limite oggettivo nel loro carattere nazionale e nella arretratezza generale, che ha rappresentato la prima causa dei rivolgimenti sociali.

Quali che siano le possibilità aperte a tali rivoluzioni, esse non possono comunque condurre al socialismo come alternativa al capitalismo moderno perché al momento attuale non esistono nei paesi del terzo mondo le condizioni per un coerente sistema socialista, il quale rappresenta non tanto una realtà in divenire, quanto un lontano obiettivo politico.

Le rivoluzioni nazionali nell'era dell'imperialismo non sono che una delle varie manifestazioni della dissoluzione dell'economia capitalistica di mercato in quanto sistema mondiale e non possono, in ogni caso, produrre un sistema sociale del tipo configurato dal socialismo marxista. Solo nella misura in cui rappresentano un elemento di dissoluzione, esse rafforzano l'esigenza generale di un sistema produttivo più razionale di quello proposto dal capitalismo. Ma i loro problemi specifici non possono venir risolti se non nel quadro di una soluzione generale dei problemi che assillano il mondo capitalistico più avanzato. E tale soluzione consiste in un mutamento rivoluzionario del mondo capitalistico, che apra la strada a una integrazione socialista dell'economia mondiale. Infatti, i paesi sottosviluppati, se non possono svilupparsi in senso socialista in un mondo dominato dalla produzione capitalistica, non potrebbero nemmeno svilupparsi in senso capitalistico in un mondo dominato da sistemi produttivi di tipo socialista.

La trasformazione socialista del mondo capitalistico è la chiave per il progresso delle nazioni sottosviluppate. Ma se questa è la chiave, essa non sembra peraltro adatta nella attuale situazione.

Poiché non è pensabile che la spinta di qualsiasi moto nazionale possa oggi determinarsi e concludersi episodicamente e nelle forme dell'unità e della autonomia in assoluta e totale indipendenza economica e nazionale, slegati cioè di ogni legame diretto o indiretto con le prevalenti forze dell'imperialismo, ne consegue che non vi è moto nazionale che non debba fare prima i conti con i paesi imperialisti e che, nolente o volente, non si identifichi con i loro interessi e con la necessità della loro preparazione alla guerra.

Le spese le stanno facendo i paesi sottosviluppati il cui territorio, la cui economia e il cui potenziale umano servono da cavie tragiche a questa strategia della guerra localizzata.

Il capitalismo, già potente strumento di sviluppo tecnico ed economico, nella attuale fase monopolistica ed imperialistica, si è trasformato nel più grande ostacolo all'avanzamento economico e sociale dei paesi sottosviluppati, acutizzando tutte le questioni relative alle "aree depresse".

Perché questo? Cerchiamo di vederlo. E vediamo anche perché è una assurdità propugnare per i paesi sottosviluppati la via "occidentale" di sviluppo.

È chiaro che mentre nei paesi sottosviluppati è in corso un processo di formazione di unità statali, il che dà luogo ad una crescente attivizzazione politica di questi paesi, nello stesso tempo le nazioni capitalistiche continuano a sviluppare le loro economie ad un ritmo ben più rapido delle prime. Le nazioni capitalistiche si trovarono a suo tempo nella medesima condizione degli attuali paesi sottosviluppati. Ma come mai il processo di accumulazione capitalistica non si ripete anche nei paesi sottosviluppati, oppure avviene in essi ad un ritmo così debole da essere quasi inavvertito?

Vi sono una serie di fattori che sono alla base di questa mancata accumulazione e cioè: l'esistenza di una prevalente struttura e sovrastruttura di tipo feudale, il fatto che la borghesia nazionale operi in gran parte nei settori non produttivi" dell'economia, la mancanza di aree coloniali il cui sfruttamento possa (come già è avvenuto nei paesi europei all'inizio del capitalismo) accelerare il processo di accumulazione originaria. La borghesia europea riuscì a sconfiggere i gruppi feudali o a limitarne strettamente il potere; nel caso però degli attuali paesi sottosviluppati, i gruppi latifondistico-feudali godono dell'appoggio delle potenze imperialistiche e quindi l'azione della borghesia nazionale, portatrice di più avanzati rapporti di produzione, è resa più difficile.

Le possibilità di una accumulazione capitalistica da parte della borghesia nazionale dei paesi sottosviluppati sono, quindi, attualmente molto limitate. Occorre vedere se tale accumulazione è possibile grazie all'afflusso di capitali dai paesi capitalistici più sviluppati. Questa ultima tesi è sostenuta dalla maggioranza degli economisti borghesi e fu accettata anche da molti marxisti-riformisti al tempo della II Internazionale; essa si fonda sull'ipotesi che, poiché l'investimento di capitale nei paesi sottosviluppati realizza un elevato raggio di profitto, l'afflusso di capitali provenienti dai paesi capitalistici sviluppati porterebbe automaticamente alla soluzione del problema delle aree arretrate. In realtà l'esperienza storica ha provato sufficientemente che gli investimenti di capitale proveniente dai paesi imperialisti si dirigono unilateralmente verso taluni settori (dell'estrazione e industria mineraria, delle materie prime agricole, della trasformazione dei prodotti agricoli) che non coincidono con quello dell'industria dei mezzi di produzione e questi investimenti provocano una deformazione, cioè un indirizzo unilaterale, dell'economia dei paesi sottosviluppati. L'indirizzo settoriale degli investimenti provenienti dai paesi capitalistici avanzati deriva dalla natura stessa del capitale monopolistico.

Ieri, in condizioni di capitalismo di concorrenza, l'investimento all'estero era sì attuato alla ricerca del più alto tasso di profitto, ma senza preoccuparsi della redditività del capitale che veniva investito in patria, perché il capitalista che investiva all'estero era in genere una persona diversa da quella che continuava l'attività nella madrepatria. Le direzioni di sviluppo economico del paese che riceveva gli investimenti non erano, così, affatto predeterminate; e questo spiega, in particolare, l'enorme sviluppo assunto dall'economia statunitense, nel secolo scorso, con l'aiuto del capitale straniero.

Oggi, nell'epoca del capitale finanziario, diverso invece è il caso degli investimenti all'estero attuati dai grandi gruppi monopolistici dei paesi capitalistici avanzati. Tali gruppi si preoccupano in primo luogo che i loro investimenti all'estero non facciano concorrenza agli investimenti che hanno effettuato nella madrepatria. La caratteristica degli investimenti realizzati dalle nazioni imperialistiche frena, così, anziché sollecitarle, le possibilità di sviluppo economico dei paesi sottosviluppati.

La realtà delle vicende storiche ha mostrato la inesattezza delle tesi, sostenute dai social-democratici, secondo cui i paesi sottosviluppati avrebbero percorso lo stesso cammino di sviluppo economico percorso dai paesi nei quali per primi si è affermato il modo di produzione capitalistico.

È proprio l'imperialismo, cioè lo stadio più avanzato del capitalismo, che non permette agli altri paesi di seguire la "normale" linea di sviluppo capitalistico.

Oggi più che mai si alternano sulla scena mondiale una molteplicità di rapporti interimperialisti in cui alleanze e fratture sono regolate e mediate nel corso delle contingenti necessità ed interessi. Sotto questo aspetto ciò che balza maggiormente all'evidenza è l'estrema variabilità di tali rapporti ed anche questo ha una spiegazione nel fatto che lo sviluppo economico dell'imperialismo pone oggi, più che mai, le proprie contraddizioni in uno stato di aggravata acutezza. Mentre ieri la lotta per la conquista e la ripartizione del mercato mondiale si svolgeva su di una base materiale che imprimeva un determinato ritmo di azione proprio del tempo, oggi quella stessa base materiale ha raggiunto un grado di maturità economica e pone necessariamente l'accelerazione della dinamica di azione e lotta imperialistica.

La economia di ogni paese capitalistico è connessa con il mercato mondiale, nel quale si cerca di occupare uno spazio sempre più ampio.

E l'imperialismo rappresenta una condizione preliminare dell'esportazione di capitali, la quale, a sua volta, è la condizione preliminare dello sfruttamento di una crescente quantità di forza-lavoro, e questo, ancora, rappresenta una condizione per un commercio internazionale sempre più allargato. D'altra parte il processo di concentrazione e centralizzazione capitalistico impedisce l'omogeneizzazione del mercato mondiale, cioè lo sviluppo capitalistico dei paesi sottosviluppati, e divide il mondo, come già la popolazione di ogni nazione, fra "coloro che hanno" e "coloro che non hanno". Ma questa tendenza generale del processo di accumulazione capitalistica non libera i capitalisti dal bisogno compulsivo di perseguire l'obiettivo di una espansione accelerata del capitale su scala internazionale. Non è soltanto per garantire certi utili particolari che i governi dei paesi capitalistici sopportano i molti più gravi "costi" dell'imperialismo. Essi accettano i secondi per aumentare i primi, per convertire una perdita generale in un generale guadagno.

In queste condizioni, per i paesi sottosviluppati, il problema di uscire dall'arretratezza economica non può non coincidere con quello di superare il capitalismo. Mai come oggi il capitale finanziario è stato in piena espansione mondiale ed in costante moltiplicazione di volume. La grande concentrazione nazionale ed internazionale gli permette di impegnare nella produzione milioni e milioni di proletari metropolitani, coloniali e subcoloniali, di dettar legge a Stati e blocchi di Stati, a mercati nazionali ed internazionali, di sviluppare nel suo interesse e a suo esclusivo profitto sia la scienza sia la tecnica.

In questo quadro di violenza imperialista, le rivoluzioni nazionali si articolano e finiscono per concludersi nel quadro storico del dominio imperialista, di cui semmai allargano la sfera di influenza.

Il capitalismo, dopo aver risvegliato i paesi sottosviluppati, vi ha provocato ovunque movimenti nazionali che tendono a creare degli Stati nazionali che garantiscano le migliori condizioni per lo sviluppo capitalistico.

non spetta certo al proletariato indigeno il compito di portare avanti, all'insegna di un generico progressismo economico, interessi e ideologie che serviranno solamente a consolidare il capitalismo nella fase attuale del monopolio e del capitalismo di Stato.

Sostenere la tesi secondo cui il proletariato dei paesi sottosviluppati debba battersi per le guerre nazionali come nel 1848, significa travisare l'interpretazione marxista di questi fenomeni, significa abbandonare la strada del marxismo. Coloro che sostengono questa tesi non si rendono conto come l'imperialismo costringa questi paesi ad uno sviluppo politico ed economico per nulla autonomo ed indipendente, come nel periodo delle rivoluzioni nazionali europee (1789-1871), ma essi vengono assoggettati dai diversi imperialismi mondiali che regolano i movimenti del mercato di merci e denaro nel mondo. Essi possono solo rompere in favore dell'uno o dell'altro complesso imperialista l'equilibrio politico e militare su cui poggia oggi la società capitalistica.

Dobbiamo separare i due periodi che caratterizzano il capitalismo. Da una parte sta il periodo del fallimento del feudalesimo e dell'assolutismo, il periodo in cui si formano la società borghese e gli stati democratici borghesi, in cui i movimenti nazionali diventano, per la prima volta, dei movimenti di massa, trascinando, in un modo o nell'altro, tutte le classi della popolazione. Dall'altra parte, sta davanti a noi il periodo degli Stati capitalistici completamente formati che hanno subito tutto il processo storico fino a caratterizzarsi completamente nell'attuale fase dell'imperialismo. Il primo periodo è caratterizzato dal risveglio dei movimenti nazionali nei quali le masse oppresse vengono attratte dalla lotta per la libertà politica in generale e per i diritti delle nazionalità in particolare. Il secondo è il periodo in cui il capitalismo sviluppato, riavvicinando e mescolando fra di loro le nazioni già del tutto attratte nella circolazione delle merci, porta in primo piano l'antagonismo tra il capitale che si è internazionalizzato e il movimento operaio internazionale. E a questo punto bisogna superare la linea del tradizionale nazionalismo in modo che l'enorme potenziale di questi moti sia indirizzato come potenziale rivoluzionario contro tutto lo schieramento imperialista.

Il compito del proletariato rivoluzionario non è certo quello di aiutare le borghesie dei paesi a struttura pre-capitalistica a costruire il capitalismo. Oggi la fase storica delle guerre coloniali è chiusa e dobbiamo considerare le rivoluzioni nazionali dei paesi a struttura pre-capitalistica non nel giro di una fase storica a sé stante, ma come un elemento che deve essere inquadrato nella strategia mondiale dell'imperialismo. È un tragico errore sostenere che nelle rivoluzioni nazionali nell'era dell'imperialismo agiscono le stesse cause che furono all'opera nella rivoluzione borghese europea.

La borghesia dei paesi sottosviluppati non è così ricca e agguerrita come quella europea che caratterizzò tutto il periodo storico delle guerre di indipendenza nazionale e quindi i paesi sottosviluppati non possono sperare di sopravvivere se non appoggiandosi all'uno o all'altro dei blocchi imperialisti.

L'analisi critica condotta dal marxismo (e da Lenin in particolare con l'"Imperialismo, fase suprema del capitalismo") si afferma nelle sue conclusioni teoriche e politiche come lo strumento unico ed insostituibile per affrontare questa realtà dello sviluppo capitalistico.

Lenin ha mirabilmente trattato il "praticismo" nella questione nazionale.

La borghesia, fa notare Lenin, che interviene come egemone all'inizio di ogni movimento nazionale, chiama azione pratica l'appoggio a tutte le sue aspirazioni nazionali. Nella questione nazionale, ogni borghesia cerca dei vantaggi esclusivi per la propria nazione; ciò si chiama "pratico".

Il proletariato deve essere contro ogni privilegio, contro ogni esclusivismo. Esigere da esso del "praticismo", significa lasciarsi guidare dalla borghesia, significa cadere nell'opportunismo.

Al proletariato deve importare, sopra ogni cosa, il rafforzamento della propria classe contro la borghesia e l'educazione delle masse nello spirito del socialismo.

E allora non sarà più la borghesia indigena la forza di guida della rivoluzione democratico-borghese, ma questa avrà senso e svolgimento nella misura in cui la rivoluzione proletaria sarà riuscita a spezzare il circolo vizioso del capitalismo internazionale, ed avrà conclusione solo nel quadro della rivoluzione socialista mondiale.

Le guerre nazionali di liberazione che si sono susseguite nel mondo hanno, in definitiva, servito l'imperialismo alla stessa maniera di un pallone che serve alle squadre in gara per affermare la propria superiorità.

E noi non dobbiamo piegare la teoria marxista all'interesse di un supposto Stato proletario divenuto strumento di rapina imperialista. Nel quadro delle lotte condotte nei paesi sottosviluppati è in primo piano il problema dell'industrializzazione.

I paesi capitalistici, se finora hanno fatto ben poco per promuovere lo sviluppo industriale nei paesi arretrati, non avanzano una opposizione di principio a tale sviluppo, quando questo si dimostri redditizio. Se è abbastanza ovvio che i paesi capitalistici hanno a disposizione i mezzi necessari per industrializzare le zone sottosviluppate in termine relativamente breve, è altrettanto vero che non sono finora emerse le forze sociali capaci di realizzare concretamente tale possibilità, eliminando fame e povertà. Al contrario, gli aspetti distruttivi del capitalismo stanno assumendo un carattere sempre più violento; all'interno, con una sempre maggiore produzione destinata allo spreco; all'estero, soggiogando vasti territori, i cui popoli non vogliono piegarsi alle brutali esigenze di profitto delle potenze straniere.

Se i paesi imperialisti permettono nei paesi a struttura pre-capitalistica la trasformazione delle strutture sociali non è che per aprire in tali paesi un processo di industrializzazione basato sullo sfruttamento della forza-lavoro.

Le nuove strutture soddisfano la borghesia indigena che cerca di sviluppare il suo potere attraverso lo sviluppo nazionale, non certo la classe lavoratrice dalla quale si esige un sempre maggiore rendimento. L'industrializzazione significa, allora, l'estensione e il rafforzamento dell'"élite" dirigenziale che si propone di procedere all'accumulazione del capitale con lo sfruttamento dei lavoratori e amministra il paese in funzione dei suoi interessi particolari.

Possiamo dire che senza rivoluzione socialista nei paesi avanzati anche l'industrializzazione dei paesi arretrati non può trovare una soluzione di sviluppo organico. D'altra parte senza l'industrializzazione dei paesi arretrati anche la rivoluzione socialista non può trovare una soluzione mondiale. È questo dell'industrializzazione un processo che non può essere "saltato" e anche se essa si traduce inevitabilmente in un rinnovato dominio del capitalismo imperialista, tuttavia rappresenta obbiettivamente una necessità. E l'industrializzazione deve essere considerata positiva anche per il fatto che l'imperialismo non giungerà al culmine della sua crisi finché le zone arretrate non avranno compiuto la loro prima fase di industrializzazione. Possiamo ancora dire che una rivoluzione socialista limitata ai paesi capitalisticamente avanzati non potrebbe risolvere, se il grado di industrializzazione dei paesi arretrati fosse basso, il problema mondiale dell'ineguale sviluppo, ineguale sviluppo che determinerebbe le sorti e la stabilità della rivoluzione. È chiaro che fin quando vi sarà l'imperialismo vi sarà l'ineguale sviluppo, ma occorre un minimo di beni materiali anche per la rivoluzione socialista per risolvere questo problema: e questo minimo è l'industrializzazione iniziale dei paesi sottosviluppati.

Comunque, in qualsiasi modo si risolverà questo difficile problema economico-politico dei paesi che si sono indirizzati sulla via capitalistico-statale dell'industrializzazione, è possibile prevedere una acutizzazione della lotta di classe.

Infatti, la borghesia nazionale dei paesi sottosviluppati è prevedibile che avrà interesse ad indirizzare gli investimenti statali verso certi settori industriali (come quelli che le permettano di sganciarsi, almeno in parte, dalla dipendenza dall'estero per gli strumenti di produzione industriale), ma di limitare l'intervento statale in altri settori, dove invece il capitalismo privato desidererebbe investire in esclusiva (per la più rapida attività degli investimenti) aiutato con sussidi statali.

I più avveduti paesi imperialisti hanno, di recente, concesso, sotto la pressione esercitata dai moti indipendentisti, l'indipendenza a un certo numero di paesi coloniali. Ma, finché questi paesi rimangono sotto il controllo economico e politico degli imperialisti, tale indipendenza non è altro che un cambiamento di forma di dominazione.

Le vecchie classi dominanti vengono liquidate, ma i nuovi strati (formati in parte dai vecchi funzionari: ufficiali, padroni, tecnici; in parte da organizzatori sorti dalla massa) monopolizzano la gestione, estendono e rafforzano i loro privilegi, costituendosi in classe dirigente. Gli operai delle nuove officine, i salariati delle nuove aziende agricole non tardano a rendersene conto.

Il movimento rivoluzionario dei contadini e degli operai può ben riuscire a distruggere i vecchi quadri sociali, ma nelle condizioni di una economia sottosviluppata, viene "ricuperato" dalla nascente burocrazia.

La linea dello Stato che sorge in un paese resosi "indipendente" conduce inevitabilmente alla gestione pianificata e fortemente accentrata della sua economia e della sua politica alla cui realizzazione è necessaria, oltre alla solidarietà attiva della classe operaia, soprattutto il suo lavoro in stato di soggezione e di sfruttamento. Finora tutti i moti per l'indipendenza nazionale hanno seguito questa dinamica, che poi è quella del rafforzamento del nazionalismo, riproducendo le tendenze e gli interessi del conflitto imperialista che ha diviso il mondo in blocchi di potere e di dominio.

Cina, Cuba, Corea, Indocina, Marocco, Tunisia, Algeria, ecc. ecc.: identiche le cause determinanti, identiche le forze motrici, identico il convogliare nella dinamica del profitto borghese. È evidente, per fare un esempio, che il nazionalismo castrista non ha provocato delle lesioni all'imperialismo americano più di quanto il nazional-fascismo di De Gaulle abbia potuto mettere in difficoltà l'atlantismo europeo. Le borghesie nazionali, che gridano ai quattro venti la necessità di una indipendenza che poi è solamente formale, non sono altro che gli strumenti della tendenza produttiva che meglio si adatta alla zona di economie arretrate: il capitalismo di Stato. Ed è chiaro che il capitalismo di Stato non coinciderà in nessun caso con il corso del socialismo.

Se esso può essere considerato positivo dipende solo dal fatto che i contrasti di classe aumenteranno e si approfondiranno in proporzione diretta alla pressione dello sfruttamento imposto alla classe operaia.

Il capitalismo - scrive Lenin - si è trasformato in un sistema mondiale di oppressione coloniale e di iugulamento finanziario della schiacciante maggioranza della popolazione nel mondo da parte di un pugno di paesi "progrediti". E la spartizione del "bottino" ha luogo fra due o tre predoni di potenza mondiale, armati da capo a piedi, che coinvolgono nella loro guerra per la spartizione del loro bottino, il mondo intero.

Così dice Lenin. E noi diciamo che questo è il punto di partenza dell'analisi e nello stesso tempo della soluzione marxista al fenomeno economico e politico dell'imperialismo oggi dominante.

Il tentativo del capitalismo di inserire i paesi arretrati nel ciclo della più sviluppata produzione di beni industriali e mercantili, tentativo mascherato dallo stesso social-opportunismo sotto l'etichetta di una rivoluzione nazionale a carattere "socialista" appoggiata dall'esterno da uno degli Stati imperialisti, ebbene cozza contro la critica dialettica della dottrina economica marxista, la quale proclama l'inevitabilità della crisi generata dalle contraddizioni della progressiva accumulazione ed espansione capitalistica.

L'imperialismo - dice Lenin - è la vigilia della rivoluzione sociale del proletariato.

E, nell'era dell'imperialismo, il compito del proletariato dei paesi sottosviluppati è quello di precisarsi nella ideologia e nei metodi di lotta dalla borghesia.

Il segno più evidente dell'imperialismo è l'esportazione del capitale finanziario. Il capitalismo finanziario tende, per sua natura, ad allargare il proprio territorio economico e quindi la sua sfera d'influenza; e la sua potenza, afferma Lenin, è così decisiva, in tutte le relazioni economiche e internazionali, da essere in grado di assoggettare a sé anche i paesi politicamente indipendenti, o meglio formalmente indipendenti. Chi oggi detiene il monopolio del capitale finanziario ha, di fatto, ridotto il mondo ad un immenso mercato nel quale appaiono dominanti i rapporti di creditore e debitore.

E allora come possiamo pensare che gli Stati che sorgono dalle rivoluzioni nazionali in queste condizioni sono indipendenti ed omogenei? O forse non sono soggetti a una oppressione politica più terribile?

Giustamente la Luxembourg, nell'"Accumulazione del Capitale", sostiene che i paesi sottosviluppati, nei successivi trapassi dalla economia naturale alla economia mercantile e da questa alla produzione capitalistica, sono sempre più divorati dal capitale internazionale e non possono mettersi sulla via di questa evoluzione senza consegnarsi mani e piedi ad esso. Monopoli, oligarchia, tendenza al dominio anziché alla libertà, sfruttamento di un numero sempre maggiore di nazioni piccole e deboli: queste sono le caratteristiche dell'imperialismo che ne fanno un capitalismo parassitario e putrescente.

La teoria leninista traccia un punto fermo dicendo che i gruppi proletari d'avanguardia debbono incessantemente creare organizzazioni autonome di classe e distinguersi ideologicamente e politicamente dalla borghesia.

Ogni altra strada riconduce alla ferrea morsa dell'imperialismo.

La strategia di Lenin era imperniata soprattutto nell'Internazionale rivoluzionaria, sui partiti d'avanguardia e sul proletariato dei paesi metropolitani. Erano questi gli strumenti che, lottando contro le proprie borghesie imperialiste e colonialiste, utilizzavano il moto indipendentistico delle colonie per indebolire il fronte imperialista, appoggiando i nuclei rivoluzionari nelle colonie e assumendo l'egemonia di questa lotta combattuta sui due fronti.

Mancando lo strumento principale - i partiti rivoluzionari e una attiva lotta del proletariato nei paesi avanzati - anche il processo di differenziazione sociale nelle colonie viene rallentato e le masse subiscono maggiormente l'egemonia ideologica e la direzione politica della borghesia nazionale. Ciò è ancora più vero nei paesi arretrati dove la direzione è presa dal nascente capitalismo di Stato. Finora non vi è stata convergenza fra la lotta dei popoli dei paesi sottosviluppati e la lotta del proletariato industriale.

Dopo il 1945, la burocratizzazione e l'indebolimento del movimento operaio nei paesi avanzati ha permesso al capitalismo di rafforzare la sua pressione materiale e ideologica sui lavoratori.

Il patriottismo più piatto era stato predicato dalle organizzazioni "operaie" per parecchi anni. Inasprito durante il secondo conflitto mondiale, è stato uno dei più potenti mezzi di stabilizzazione dei regimi borghesi nel corso dei primi anni di pace. Ora, se è vero che il patriottismo non decresce che nella misura in cui la lotta delle classi rode il mito della comunità nazionale, è ancora più vero che il suo opposto - l'internazionalismo - non può sorgere spontaneamente nella classe operaia. L'internazionalismo suppone un grado di coscienza politica che non è automaticamente dato dall'esperienza quotidiana del lavoratore nella fabbrica. Esso è il prodotto delle organizzazioni operaie rivoluzionarie.

La degenerazione dei partiti e dei sindacati e la scomparsa simultanea del sentimento internazionalista dovevano rendere la solidarietà tra i lavoratori dei paesi avanzati e le masse dei paesi del terzo mondo estremamente difficile; e tanto più difficile dato che il movimento di liberazione ha sempre avuto, e non poteva essere diversamente, un carattere fortemente nazionale. Tuttavia, nonostante le fluttuazioni della lotta di classe e il peso enorme delle ideologie e delle forze conservatrici, si vanno creando le condizioni per una solidarietà reale fra il movimento dei paesi sottosviluppati e la lotta del proletariato mondiale.

La congiunzione dei due movimenti offre la sola e vera prospettiva ai popoli dei paesi sottosviluppati, perché solo il proletariato industriale è capace di liberarli nel contempo dalla malattia del sottosviluppo e dai lavori forzati dell'industrializzazione burocratica, creando con essi una società in cui l'apparato produttivo dei paesi avanzati, invece di essere sorgente di oppressione, sarà strumento di liberazione.

La congiunzione dei due movimenti, incorporando alla resistenza di classe dei lavoratori industriali la forza esplosiva delle contraddizioni dei paesi sottosviluppati, potrà generare la potenza necessaria per distruggere la società basata sullo sfruttamento: inevitabile prologo alla costruzione del socialismo.

Solo il proletariato rivoluzionario dei paesi a capitalismo avanzato può trascinare i popoli oppressi dei paesi sottosviluppati verso la lacerazione violenta di ogni vincolo nazionale e imperialistico, portando le masse proletarie di tutti i paesi sul piano dell'internazionalismo di classe, sulla via luminosa che l'ottobre rosso ci ha tracciato.

Comunque è chiaro che i popoli oppressi dei paesi sottosviluppati non possono stare ad aspettare la trasformazione socialista del mondo capitalistico. È necessario sorga in tali paesi una avanguardia proletaria aliena da ogni prostituzione alla borghesia e all'imperialismo, qualsiasi colore rivestano. Alla doppia rivoluzione si perverrà non confondendosi con la borghesia nazionalista, ma con una sempre più precisa differenziazione di classe e con la costruzione dei propri strumenti di organizzazione e di lotta.

Il problema di fondo per il proletariato indigeno è, dunque, quello di distinguersi sempre, di dissociarsi a tempo, di non servire, in ogni caso, da trampolino di lancio per l'ascesa al potere della borghesia nazionalista e di non costruire con le proprie mani le ferree maglie del capitalismo di Stato per un nuovo e più infame sfruttamento.

Oggi più che mai il nostro compito, il compito dei veri marxisti, è quello di favorire il processo di formazione di una avanguardia rivoluzionaria di classe che il proletariato delle metropoli reclama per rientrare sul proscenio della storia e trascinare e guidare verso la nuova società comunista il risveglio delle masse dei paesi sottosviluppati. È necessario ricostruire il partito internazionale di classe per essere in grado di sottrarre questo enorme potenziale di uomini e di economia dalle mani dell'imperialismo per immetterlo nel fuoco della rivoluzione socialista.

Allora e solamente allora si potrà parlare in termini concreti di appoggio ai moti di liberazione nazionale, dopo il tradimento del "comunismo" russo e dei partiti "operai" dell'opportunismo. È lecito perciò concludere affermando che la strada che il proletariato dei paesi sottosviluppati deve seguire è la medesima del proletariato dei paesi imperialisti: lotta frontale e diretta contro il capitalismo per la rivoluzione internazionale.

E noi continueremo ad aiutare questi popoli non con la mistificazione dell'indipendenza nazionale, ma con l'indicazione della necessità storica di una coscienza di classe e della creazione di una autentica guida rivoluzionaria per saldare il loro movimento a quello del proletariato delle grandi metropoli.

Nel richiamo fedele e costante ai princìpi classici del marxismo noi difendiamo, sulla linea di una continuità storica, il patrimonio di idee e di esperienze che la "Sinistra Italiana" ci ha lasciato. E l'esattezza delle analisi e della impostazione data da essa al grande problema delle rivoluzioni nazionali ci ha permesso di elaborare questa strategia e questa tattica. E la sopravvivenza di una avanguardia di classe fedele ai princìpi del marxismo-leninismo si deve alla esperienza teorica e politica della "Sinistra Italiana" che ha anticipato e previsto criticamente lo sbocco finale della situazione attuale; e noi lottiamo per la difesa e l'affermazione sul piano della battaglia politica di tale visione storica.

Franco Bilotta

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.