Impresa irresponsabile o normale funzionamento del capitale?

Gli effetti della caduta del saggio del profitto

Tra i ricercatori borghesi ormai vi è una sostanziale concordanza sul fatto che:

nelle maggiori economie del mondo, quelle dei paesi del G-7, il tasso di profitto lordo - ante imposte - delle grandi imprese del settore non finanziario tra gli anni ’60 e gli anni ’80 abbia subito una forte caduta, con una riduzione stimabile in circa il 50%. (1)

Occorreva quindi accrescere la redditività del capitale, per realizzare una sua più congrua valorizzazione. Ma per il capitalista non è tanto importante l’ammontare assoluto del profitto, quanto il rapporto tra l’ammontare di questo e la massa del capitale (capitale variabile + capitale costante) utilizzato nella produzione, appunto il tasso o saggio di profitto. Secondo l’economista Gallino, la risposta o l’effetto, è consistita nell’avanzata dell’impresa irresponsabile legata al principio della massimizzazione del valore per l’azionista, che impone la crescita del valore delle azioni come suo scopo primario ed il rendere, per questa via, elevata la rendita finanziaria. Rendita finanziaria che per gli investitori istituzionali e le famiglie proprietarie d’impresa deve essere dell’ordine del 15%. Massimizzare il valore delle azioni vuol dire massimizzare il valore dell’azienda quotata in borsa. La borsa diviene così il centro operativo con tutto quel che ne consegue a livello di speculazioni a vantaggio dei soggetti prima indicati, e dei crolli a svantaggio della massa dei risparmiatori. Negli anni ‘90 del secolo scorso il corso delle azioni è aumentato mediamente negli USA e nei paesi Ue di 4-6 volte (400-600%) con punte di 20-30 volte. Tanto è vero che per sostenere il valore delle azioni, tra il 1995 e il 2001, le corporation non finanziarie americane hanno speso 870 miliardi di dollari per riacquistare loro stesse azioni. Ed è proprio l’industria che ha contribuito in maniera determinante alla finanziarizzazione dell’economia. I due maggiori gruppi industriali americani General Electric e Genaral Motors ottengono dai servizi finanziari circa il 40% dei loro ricavi lordi. Sempre negli USA agli inizi del 2000 le transazioni puramente finanziarie hanno superato i 1500 miliardi di dollari al giorno, mentre quelle commerciali ammontavano a 25-50 miliardi. Alla creazione fittizia di valore si contrappone il crollo borsistico: il crollo della borsa americana tra il 2000 e il 2002 ha distrutto “valore” per circa 8400 miliardi di dollari, pari all’85% del Pil statunitense del 2001. L’impresa irresponsabile, per i principi che la ispirano, oltre a sconfinare nell’illegalità e nella falsificazione dei bilanci, determina pesanti costi sociali che vanno dall’evasione fiscale alla produzione di insicurezza socio-economica; dalla precarizzazione del rapporto lavorativo alle pratiche antisindacali e contro i diritti dei lavoratori; dal trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale con conseguente aumento delle disuguaglianze sociali, all’esternaliz-zazione dei costi con la frammentazione della catena produttiva delocalizzando dove il costo del lavoro è più basso, dove minori sono i vincoli ambientali, dove il trattamento fiscale e doganale è più favorevole; e da ultimo i disastri ambientali.

Due paroline in più vorremo però dire sulla precarizzazione. L’utilizzo del lavoro flessibile o informale nella Unione Europea ha fatto si che nel periodo 1991-2002, a fronte di un aumento degli occupati di 9 milioni, i contratti di lavoro flessibile siano cresciuti di 16 milioni, mentre quelli a tempo determinato siano diminuiti di 7 milioni. Secondo l’Organizzazione internazionale dei lavoratori su 2,6 miliardi di lavoratori nel mondo 1,3 miliardi svolgono un lavoro informale. Effettivamente grazie a tutto ciò vi è stato un considerevole recupero dei profitti. Ma alla fine l’effetto si è trasformato in causa per cui l’impresa irresponsabile perpetua comportamenti affatto “normali” e “immorali”, quindi:

la soluzione va cercata non tanto in maggiori regole e pene per reprimere la devianza dei manager, per quanto queste possano giovare, ma piuttosto in una ridefinizione radicale del concetto di normalità. (2)

Se diciamo: è immorale, non è la normalità, questo non ha nulla a che vedere con l’economia borghese. Dovremmo limitarci ad affermare che quel fatto economico è in contraddizione col nostro “senso morale”. Però il “senso morale” dominante è quello del capitale e la sua morale è quella della sua valorizzazione a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Ora, o si vede la contraddizione del sistema capitalistico, la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione, tra la produzione sociale e l’appropriazione privata, come una contraddizione di rapporti sociali storici, né naturali o eterni, rintracciando nel proletariato mondiale la potenzialità eversiva dell’antitesi storica alla società borghese; oppure si fa, non tanto di quella contraddizione, ma degli effetti contraddittori dell’accumulazione capitalistica un modo per lucchettare il mondo al capitale riducendoli a questione morale, pane di tutti i riformismi. Bene ha scritto Hegel che la contraddizione è ciò che spinge innanzi e, diciamo noi, non la morale o la libertà. Alla fine il capitale ha recuperato profitto, ma siamo daccapo, ed il problema attuale è quale debba essere il valore della forza lavoro, del salario, del capitale variabile più consono per accoppiarsi col capitale costante al fine della valorizzazione del capitale. Sembra che i riferimenti del livello delle condizioni di lavoro e salariali stiano divenendo quelli di CINDIA (Cina+India) col plauso degli apologeti del capitale che premono affinché CINDIA non sia vista come minaccia ma come opportunità.

(1) L. Gallino “L’impresa irresponsabile” p. 95 Einaudi

(2) L. Gallino op. cit. p. 136

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.