Nuova Intifada, petrolio e vecchie questioni

La Palestina ribolle, il proletariato ancora tace e sembra allinearsi

Quello che sta succedendo in Palestina, al momento in cui scriviamo, presenta una novità rilevante alle rivolte e scontri passati: la unità di azione e, almeno apparentemente, di obiettivi, fra i Palestinesi dei Territori (le aree occupate da Israele dopo la guerra del 1967 e ora amministrate dalla Autorità palestinese) e gli Arabi Israeliani, cittadini cioè dello stato Israeliano. La Galilea (interna a Israele) è in rivolta, mentre si combatte (a sassate contro i mitra) in Cisgiordania e a Gaza.

La scintilla che ha fatto divampare l'incendio, che sta scottando tutta l'area Mediorientale, è stata una di quelle azioni "sconsiderate" che solo il ceto politico borghese contemporaneo riesce a compiere, nella corsa alla poltrona, la più meschina possibile, sul teatrino elettorale sempre più squallido.

Ariel Sharon, universalmente ritenuto il capo responsabile delle stragi di Shabra e Chatila, ha pensato bene di guadagnarsi le simpatie dell'elettorato di destra e vincere così le "primarie" del suo partito, con una visita provocatoria nella zona ritenuta sacra dai musulmani, che sono maggioranza dei palestinesi così come gli ebrei sono maggioranza degli Israeliani e i cattolici degli italiani.

Le scintille sociali hanno molto in comune con la scintille fisiche: come una scintilla fisica scatena un incendio solo se scocca in prossimità di materiale combustibile e nelle (s) favorevoli condizioni, così un fatto anche grave diventa scintilla sociale solo se si verifica in condizioni sociali e politiche esplosive.

E queste condizioni esistevano tutte: da una parte, l'acuirsi della politica di pressione e provocazione sulle popolazioni dei Territori, mentre Arafat sta al mobile, magari tempestoso, ma permanente tavolo delle trattative senza fine volute e orchestrate dagli Usa; dall'altra, il parallelo crescere della pressione e della discriminazione nei confronti degli Arabi Israeliani.

Si tratta di una miscela esplosiva, alimentata da una politica condotta dagli israeliani - dai laburisti come dalla destra politica-religiosa - volta più alla difesa degli interessi immediati degli... elettori che alla gestione dei precari equilibri raggiunti in zona. Israele ha finora potuto permettersi quella politica perché protetta dagli Usa, che anche in sede di Consiglio della Sicurezza delle Nazioni Unite stanno facendo di tutto per evitare qualsiasi forma di condanna e di critica di Israele. Ciò d'altra parte gioca solo ad attizzare le fiamme in tutta l'area: l'odio degli Arabi - non tanto dei governi, quanto di quote consistenti della piccola borghesia, parte della borghesia e gran parte delle masse proletarie - nei confronti di Israele e degli Usa è destinato a crescere, mettendo a rischio la stabilità dei governi recentemente acquisiti alla fedeltà Usa (Egitto, Giordania, gli stessi Emirati Arabi), la "neutralità" di Paesi come il Libano sotto l'autorità siriana, e la stessa autorità della... Autorità palestinese di Arafat.

Ci sarebbe da preoccuparsi e non poco, da parte israelo-americana, quando Hamas, Jihad Islamica, Fatah, Partito comunista, Amal e PSP, superando divisioni vecchie di anni e cosparse pure di sangue, marciano insieme a Beirut per chiedere l'uscita di Arafat dai negoziati.

Ma perché allora gli Usa marciano decisi a lato di Israele? Non potendo trasformare Israele nella cinquantunesima stella Usa, devono lasciare la formale autonomia alla borghesia israeliana, e, anche se fa sciocchezze, difenderne la faccia e l'esistenza davanti al mondo.

Devono - scriviamo - perché Israele è la loro roccaforte nell'area del petrolio; devono, nonostante il fatto che tutto ciò spinga al una nuova saldatura fra Iran e Irak, divisi dalla guerra fra loro, ma uniti dalle sanzioni imposte dagli Usa, e ciò a sua volta comporti il rischio di un più accentuato interesse di questi due grandi produttori, allo scambio con l'Europa (magari in Euro) che non con gli Usa in dollari US.

Prima conclusione: l'area ancora principale della produzione della più importante materia prima e della più importante fonte di rendita finanziaria, diventa area calda, uno dei maggiori crogioli in cui inizieranno a delinearsi le alleanze, i fronti del futuro nuovo bi o tripolarismo.

Ciò costerà ancora decine di migliaia di morti, guerre più o meno locali, lo scatenarsi di passioni nazionalistiche e religiose. E in tutto questo, il proletariato - la classe che con il suo lavoro non pagato paga i profitti e le rendite di chi poi gioca sugli scacchieri tanto della finanza, quanto della politica quanto delle guerre - è ancora oggetto.

C'è anche chi, da pulpiti proditoriamente nominati internazionalisti, è pronto a chiamare il proletariato a farsi massacrare nella "santa guerra" contro gli Usa, a lato dei preti e delle "sante" borghesie locali, entrando così come massa d'urto, carne da macello, nel gioco degli scontri interimperialistici.

Noi difendiamo invece la linea dell'unità proletaria in tutta l'area e nel mondo, la linea della autonomia degli interessi di classe, la linea della lotta di classe, contro il nazionalismo e le guerre nazionali; la linea della lotta al capitalismo, non ai singoli stati capitalisti in alleanza con le proprie borghesie e quindi con altri stati capitalisti.

Le unità realizzate a Beirut ci fanno paura, quanto le ciniche esibizioni di muscoli delle borghesie israeliana e americana. Entrambe puntano alla passività di classe del proletariato e al suo allineamento sui fronti di una guerra del capitale per il capitale.

La dura tragica esperienza del proletariato iraniano ha portato al sorgere di un barlume di speranza: ancor deboli forze internazionaliste, nella diaspora iraniana, iniziano a portare avanti la rottura proletaria col nazionalismo e ogni forma di "tappismo" e si collegano e coordinano con gli altri internazionalisti nel mondo.

Quanto si dovrà aspettare perché anche in Palestina e nella regione adiacente in ebollizione, si presentino fenomeni analoghi?

m.jr

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.