A Lima tragico esito di un errore

La drammatica fine dei guerriglieri Tupac Amaru, parecchi di loro assassinati a sangue freddo dopo la resa, pone una volta di più la bruciante necessità che il programma del comunismo esca dagli sparuti gruppi di rivoluzionari, localizzati in gran parte nelle metropoli del capitale, e cominci (o ricominci) a circolare nelle periferie, gettando anche lì le basi del futuro partito mondiale della rivoluzione. Se questo è stato vero sempre, oggi lo è più che mai, quando, di fronte alla globalizzazione del capitale - più intensa ancora che ai tempi di Lenin - e quindi della forza-lavoro, il proletariato e gli oppressi di tutto il mondo non sanno praticamente opporre altro che una stordita passività o, quando si muovono, azioni votate inevitabilmente ad una sconfitta sterile, per quanto riguarda lo sviluppo della lotta di classe, perché dirette da organizzazioni marxiste a parole, riformiste nei fatti, e/o dichiaratamente nazional-democratiche, che col comunismo non hanno niente a che fare. E, purtroppo, la storia dell’America Latina da decenni non ci presenta altro che il desolante scenario di azioni disperate, di vite generosamente gettate al vento, nell’inutile tentativo di rompere un circolo vizioso fatto di miseria nera, fiammate ribellistiche e ferocissime repressioni da parte delle borghesie locali, sostenute dai macellai internazionali yankees. Perché, inutile tentativo? Perché le parole d’ordine che lo muovono sono di tipo democratico-borghese, riformista (se pure in veste radicale), che non intaccano, quindi, la natura di classe, borghese, dello sfruttamento e dell’oppressione; perché nel loro interclassismo non individuano nel proletariato occupato, disoccupato, sottoccupato, l’unica vera forza motrice del cambiamento rivoluzionario: non si può e non si deve morire “per il Perù e l’America Latina”, come ha detto il comandante del gruppo guerrigliero, ma, se mai, solo per gli sfruttati e per i diseredati di quel continente e del mondo intero. Fredde e ciniche speculazioni linguistiche, le nostre? Mica tanto, se tra gli obiettivi del commando Tupac Amaru c’era quello di imporre il proprio riconoscimento legale al governo peruviano: quando mai i rivoluzionari proletari hanno avuto la pretesa di essere legalmente accettati dal loro mortale nemico ossia lo stato borghese, pur sfruttando tutte le possibilità - poche o tante che siano - che le varie forme statali del dominio capitalistico lasciano aperte? Se questo è lo scenario, è perché anche in America Latina lo stalinismo ha praticamente cancellato il marxismo, lasciando campo libero alle ideologie radical-riformiste, di tipo guevarista, zapatista o maoista, ugualmente interclassista, che con “Sendero luminoso” ha dato fondo a tutte le sue aberrazioni. Chi ricorda, in Perù, Mariategui che 70 anni fa metteva in guardia contro le illusioni dell’antimperialismo piccolo-borghese (l’equivalente, oggi, della lotta del MRTA e simili al neoliberismo), convinto di poter fermare o, meglio, controllare i flussi di capitali stranieri, USA specialmente, con politiche interclassiste?

Che può opporre la più demagogica piccola borghesia alla penetrazione capitalista? Nulla, se non parole [o vani sacrifici - ndr]. Nulla, se non una momentanea ubriacatura nazionalista. L’assalto al potere da parte dell’antimperialismo come movimento demagogico popolare - anche se possibile - non rappresenterebbe mai una conquista delle masse proletarie, del socialismo. La rivoluzione socialista troverebbe il suo più accanito e pericoloso nemico - pericoloso per il confusionismo, per la demagogia - nella piccola borghesia consolidata nel potere guadagnato attraverso le sue parole d’ordine.

Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti politici, Einaudi

Chi trovasse questa analisi troppo rozza e semplicistica, butti un occhio a Cuba, ultimo traballante idolo di tanti “antagonisti”, dove il “socialismo” che stava in piedi solamente grazie all’imperialismo russo, si sta velocemente “aprendo al mercato” (che, per noi, c’è sempre stato).

Non è dunque con la guerriglia, con il riformismo più o meno armato, che si può lottare efficacemente contro lo sfruttamento e l’oppressione, da sempre prodotti naturali del capitalismo, e oggi cresciuti enormemente in tutta l’America Latina a causa delle spietate politiche “neoliberiste” imposte ai governi da un capitale in crisi alla ricerca affannosa di extra-profitti, per lo più di tipo speculativo. Dagli anni ‘80 lo smantellamento del cosiddetto stato sociale - quel po’ che c’era - le privatizzazioni (impiegate anche per pagare il debito estero), il pesantissimo attacco ai salari, ovunque precipitati a livelli minimi, la flessibilizzazione totale della manodopera, hanno spalancato le porte - ammesso che prima fossero socchiuse... - ai cosiddetti mercati, cioè al capitale finanziario internazionale. “Tra il 1981 e il 1991 il Prodotto Interno Lordo dell’America Latina è cresciuto del 16.3%, mentre la frazione del PIL destinata agli investimenti è scesa dal 21.1% al 15.6%”. Che i capitali esteri si dirigano soprattutto verso la speculazione finanziaria è provato dal fatto che nel 1992 “su un totale di 22.4 miliardi di dollari costituenti il flusso verso l’Argentina e il Brasile, solamente 1.9 miliardi hanno assunto la forma di investimenti diretti esteri” (Le citazioni sono tratte da Le Monde diplomatique, gennaio ‘94). Il Perù rientra perfettamente in questo quadro, tant’è vero che Fujimori aveva dichiarato che il paese “si era trasformato nella terra promessa dei capitali esteri”, il quali, infatti, sono arrivati in massa, specialmente dopo la sconfitta di “Sendero luminoso”. Il presidente peruviano, che si era fatto eleggere dichiarando demagogicamente guerra alla povertà, in realtà ha dichiarato guerra ai poveri, essendo forse il più fedele esecutore degli ordini che gli vengono dal capitale internazionale per bocca del FMI e della Banca Mondiale. I risultati sono che l’inflazione è drasticamente calata, ma, per es., il fallimento di un gran numero di piccole e medie imprese, incapaci di resistere alla concorrenza internazionale, dopo l’abbatti-mento delle barriere doganali, ha gettato altri 750.000 lavoratori nella disoccupazione o, come si dice ipocritamente, nel mondo del lavoro informale (cioè della dura arte di arrangiarsi), che nel ‘93 toccava il 76% della popolazione attiva. In breve, oggi in Perù, secondo stime della Banca Mondiale, il 79.4% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, ossia nella miseria, quando nel ‘91 era circa il 70% (dati tratti da Le Monde diplomatique, rispettivamente marzo ‘97 e gennaio ‘92).

Si capisce allora come “i mercati” dovessero a tutti i costi essere assicurati circa la stabilità del paese e che la linea scelta da Fujimori è stata dunque borghesemente corretta: ha preso tempo, fingendo di intavolare una specie di trattativa, privando così i guerriglieri dell’unico vantaggio su cui possono contare contro un nemico incomparabilmente più forte, cioè la sorpresa e la rapidità d’esecuzione, fino a quando la trappola ha potuto scattare. E che avessero scarse possibilità di successo è provato dal fatto che i loro movimenti erano costantemente seguiti da un ben collegato sistema di microspie e aerei USA che trasmettevano in tempo reale ciò che il commando faceva e diceva. Dulcis in fundo, secondo notizie riportate dal Manifesto del 27-4, non è mancato il solito carognesco intervento della Chiesa cattolica - da sempre complice insostituibile dei sanguinari regimi latinoamericani (in primis Cile e Argentina) - la quale avrebbe collaborato al massacro dei militanti MRTA con un pretaccio finto mediatore, il cui nome, se volete, potete raccattarlo nell’immondizia.

Per concludere, non abbiamo altro da dire che richiamare quanto abbiamo detto all’inizio sull’assoluta necessità del partito marxista, di classe, rivoluzionario, affinché la disperazione di crescenti masse di diseredati cessi di alimentare disperati atti di ribellione, nei quali potenziali rivoluzionari sacrificano, purtroppo inutilmente, la vita.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.