La situazione della classe operaia oggi

Le condizioni economiche hanno innanzitutto trasformato la massa del popolo in lavoratori. Il dominio del capitale ha creato la situazione comune e gli interessi comuni di questa classe. Quindi questa massa è già una classe in relazione al capitale, ma non è ancora una classe per se stessa. Nella lotta, di cui abbiamo indicato solo alcune fasi, questa massa si unisce e si forma in una classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta tra le classi è una lotta politica.

Marx, Miseria della filosofia, 1847

In modi differenti i due articoli che seguono – La nuova normalità del capitalismo e La composizione di classe nella crisi (1) – contribuiscono ad una panoramica della situazione della classe operaia in uno dei sui aspetti fondamentale: il mondo del lavoro. Il primo è l'originale, leggermente più lungo, di un pezzo che abbiamo pubblicato nell'edizione autunnale della nostra rivista Aurora. È fondamentalmente un'espressione di solidarietà coi fattorini dei fast-food in lotta per garantirsi un salario adeguato. L'unione di questi operai della gig economy (parola dell’inglese americano informale che descrive un lavoretto in cui non esistono più le prestazioni lavorative continuative ma si lavora on demand, solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti o competenze) in difesa del loro interesse comune (migliori condizioni di vendita della loro forza di lavoro) conferma la prospettiva marxista che la lotta fondamentale tra lavoratori e capitalisti non scompare. Nonostante tutto il blaterare sulla classe operaia in via di estinzione nel capitalismo post-industriale, un importante settore del moderno “precariato” sta dimostrando di essere parte di quella classe, anche se una classe con un profilo sostanzialmente diverso. Di questo non ci può essere una dimostrazione più chiara se non il fatto che i conducenti Uber e Deliveroo sono stati ufficialmente classificati come lavoratori salariati (non lavoratori autonomi) dai tribunali del lavoro statali.

Detto questo, è un'illusione immaginare che tutto ciò che la classe operaia debba fare ora per assicurarsi un domani radioso sia unirsi nella lotta per costringere i capitalisti a limitarsi nei peggiori aspetti dello sfruttamento. La forza lavoro mondiale di oggi è il prodotto di decenni di ristrutturazione capitalistica, con nuove generazioni di proletari nella periferia e nuovi tipi di organizzazione del lavoro in cui i lavoratori devono imparare a organizzarsi e a resistere.

Ma la ragione principale per cui la classe lavoratrice di oggi deve rimparare le basi dell'auto-organizzazione è che decenni di lotte sindacali si sono rivelate del tutto inutili di fronte alla determinazione dei padroni e dei governi a “fare tutto quanto è necessario” per contrastare la loro crisi di redditività. Se il numero di giorni lavorativi persi a causa di scioperi può essere considerato un indice della “combattività” della classe operaia, allora quest'ultimo, nella Gran Bretagna del dopoguerra, ha raggiunto il suo massimo nel 1979, l'anno in cui M. Thatcher divenne primo ministro, quando l'ufficio nazionale di statistica del Regno Unito ha registrato quasi 29,5 milioni di “giornate lavorative perse” (2). Ora, con la crisi capitalistica mondiale nel suo quarto decennio e la classe operaia di tutto il mondo capitalistico “avanzato” che riceve una percentuale costantemente minore del valore che produce, lo stesso ufficio ha registrato un minimo storico di 170.000 giorni di sciopero nel 2015. Questo, approssimativamente, è lo schema che si ripete nel resto dei vecchi centri capitalistici.

Quindi non si tratta solo della classe operaia britannica, o della forza essenzialmente conservatrice e repressiva dei sindacati, si tratta di un capitalismo in crisi profonda. Non solo non potrà esserci alcun ritorno alle condizioni del boom postbellico, ma neanche la lotta più determinata di un qualsiasi gruppo di lavoratori potrà modificare il fatto che in un modo o nell'altro (licenziando lavoratori e sostituendoli con robot o delocalizzando in aree a bassi tassi di retribuzione; riducendo i salari, le prestazioni di malattia, le pensioni; obbligando i lavoratori a lavorare di più per la stessa paga ecc.), i capitalisti, nel loro intento di estrarre alla forza lavoro nel suo complesso sempre più lavoro non retribuito, si riprenderanno tutte le concessioni fatte negli anni di espansione economica. Le prospettive future all'interno del capitalismo sono spaventose, e non solo sul fronte del lavoro. Nonostante i milioni di giorni di sciopero persi e la tenacia di molte battaglie di settore, se i decenni perduti dalla classe operaia hanno qualcosa da insegnarci è che la lotta rivoluzionaria per la liberazione dal capitalismo, a favore di una società di “produttori liberamente associati”, non emerge dalle battaglie economiche.

Insomma, la lotta per il comunismo non ha solo bisogno di disponibilità alla lotta, ma anche di coscienza politica e la coscienza politica deriva da una prospettiva più ampia del posto di lavoro. Come si osserva nel secondo articolo, La composizione di classe nella crisi, “dare tutto quello che puoi in una lotta con il nemico di classe è esemplare”, ma c'è qualcosa di falso, o almeno ingenuamente sbagliato, nel prospettare che una lotta economica autonoma e determinata porterà al rovesciamento del capitalismo.

Bisogna respingere la pratica di entrare nei posti di lavoro al fine raccogliere reclute per i sindacati e le forze socialdemocratiche, che è solo un altro modo per schivare il compito politico di proporre una prospettiva politica più ampia, cosa essenziale se la classe operaia deve intraprendere la lotta per un nuovo mondo.

Viste le modifiche della sua composizione, la classe operaia sta scoprendo nuovi modi per combattere. Quello di cui la lotta di classe ha bisogno ora è una visione chiara dell'obiettivo per cui valga la pena lottare, nonché un programma chiaro (basato sull'esperienza storica della classe) su come raggiungerlo. Coloro che capiscono questo devono lavorare insieme per unire le loro forze in un'unica organizzazione politica rivoluzionaria con lo scopo di contrastare l'influenza dell'ideologia borghese, qualunque forma prenda, all'interno dell'intera classe.

La nuova normalità del capitalismo

Uno dei primi atti di Theresa May come prima ministra è stato quello di istituire un'indagine sulla situazione dei 6 milioni di persone che nel Regno Unito “non sono coperte dalla normale rete dei diritti del lavoro”, in quanto autonomi nella cosiddetta gig economy o sono impiegati in altre forme di lavoro precario e flessibile come quelli con contratti a zero ore. Il tratto comune è che se si è un lavoratore autonomo, freelance, part-time o a tempo determinato, magari lavorando per un'agenzia, non si ha diritto a prestazioni aggiuntive come la retribuzione malattia, ferie, contributi pensionistici, ecc. E naturalmente il salario minimo non si applica a chi è classificato come autonomo.

A seguito di una serie di notizie e di inchieste parlamentari su ricchi direttori di aziende che manifestano stili di vita stravaganti e indifferenza verso il destino della loro forza lavoro, la classe politica comincia ad avere paura. Il voto sulla Brexit è stato interpretato come una prova della disaffezione della classe operaia verso l'ordine esistente: un problema che va al di là di come il Partito conservatore tiene insieme sé stesso o aumenta la sua fetta di voti. La classe dominante nel suo complesso (e non solo in Gran Bretagna) è molto consapevole del pericolo di una disaffezione passiva che si traduca via-via in ostilità attiva, in particolare da parte di lavoratori a basso reddito che non vedono davanti a sé prospettive di futuro brillanti. (3)

La dichiarata intenzione della May di “far pressione” sui “capitalisti irresponsabili” è dovuta più ai timori condivisi dall'odierna classe capitalistica mondiale verso la “sfida populista contro la globalizzazione” (Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale) che non al “One Nation Toryism” di Disraeli nel XIX secolo. Dalle sedute a porte chiuse della riunione di settembre del G20 (i venti stati più ricchi del mondo) è trapelato che Barack Obama, Theresa May e i loro corrispettivi australiani e canadesi sottolineavano tutti la necessità di placare il malcontento popolare. Malcolm Turnbull (primo ministro australiano ed ex banchiere Goldman Sachs) ha avvertito sulla necessità di “civilizzare il capitalismo” o, con le parole di un funzionario: “Se non affrontiamo la questione della giustizia, (questo) potrebbe mettere in pericolo l'economia globale” (4).

Come siamo arrivati alla situazione attuale

Negli anni '70 e '80 il capitalismo industriale britannico è stato lento nell'adottare le nuove tecnologie che servivano a ravvivare i tassi di profitto in caduta. Ciò è stato dovuto anche, e in non piccola parte, alla resistenza dei lavoratori. Settore per settore, ci sono state grandi battaglie da parte dei lavoratori che tentavano disperatamente di mantenere le loro condizioni, benché pochi si rendessero conto di quanto alta fosse la posta: in tutto il mondo capitalistico avanzato la crisi dei profitti richiedeva ristrutturazioni radicali per aumentare la produttività del singolo lavoratore. Se la ristrutturazione in loco non era sufficiente a rendere le industrie competitive (come per esempio per il grosso della cantieristica britannica), allora la nuova tecnologia poteva essere impiegata in un altro luogo nel mondo, dove la forza-lavoro costava meno. Così, sulla scorta di disoccupazione di massa, dequalificazione, abbassamento dei salari e della sicurezza sul posto di lavoro, la tendenza postbellica a una redistribuzione ai lavoratori di una porzione maggiore del PIL conobbe una rapida inversione: la quota di PIL destinata ai salari cadde da un picco del 64% a metà dei '70, a un minimo del 52% a metà dei '90. (5) Questo non è tutto, perché non ci dice come i salari fossero distribuiti, ma il fatto è che il declino nelle condizioni di vita e l'aumento della disuguaglianza più rapidi vennero prima del crollo finanziario del 2008. È stata una conseguenza diretta dei tentativi del capitalismo globale di fronteggiare il ritorno della minaccia intrinseca alla sua esistenza, considerata ormai una cosa del passato. A livello di vita quotidiana, ha significato privatizzazione e isolamento, tanto che i salariati non erano più nemmeno consapevoli di esser parte di una classe con interessi differenti da quelli dei soci proprietari, amministratori, manager, ecc. Molti di loro sposarono l'idea che la classe lavoratrice (definita come l'insieme dei lavoratori dell'industria pesante) non esistesse più e iniziarono a credere che il possesso della casa e la speculazione sulla proprietà avrebbero loro garantito un futuro sicuro, anche se la casa era ipotecata per il suo intero valore e loro stessi sommersi dal debito da carta di credito.

La crisi finanziaria del 2007-8 ha messo fine a tutto ciò. Inoltre, i massicci tagli statali praticamente in ogni settore della spesa sociale, l'innalzamento dell'età pensionabile e l'assottigliarsi delle pensioni stesse, in coppia col congelamento e le decurtazioni dei salari, hanno prodotto un immediato abbassamento della qualità media della vita. Le cifre dell'OCSE mostrano infatti che i salari orari reali nel Regno Unito sono caduti più del 10% tra il 2007 e il 2015: non c'è da stupirsi dunque che le persone lavorino più ore rispetto a prima. Allo stesso tempo, il “record nell'occupazione” è dovuto a motivi di necessità economica e alla politica statale di continua vessazione e intimidazione verso le persone senza lavoro, per costringerli ad accettare qualsiasi immondizia sia loro offerta.

Oggi il padronato sta applicando in ogni settore le possibilità delle ultime tecnologie di “aumentare la produttività”, cioè il gergo capitalistico per definire lo sfruttamento maggiore dei lavoratori nella stessa unità di tempo, che significa più lavoro non pagato per ognuno di loro: è questa l'essenza del sistema capitalistico, e non sempre significa paga inferiore.

All'apice della “catena del valore”, società come Nissan, la più grande produttrice di automobili del Regno Unito, può investire in un maggior numero di robot, come hanno fatto per la saldatura della nuova linea di lusso Infiniti, per aumentare la produzione senza necessariamente tagliare i salari o aumentare le ore di lavoro. Ma si tratta comunque di aumento dello sfruttamento e il lavoro alla catena della produzione rimane pur sempre intenso e stancante.

La causa fondamentale della crisi capitalistica giace infatti nello stadio finale della produzione del valore, dove il tasso di remunerazione del capitale è ora così basso da scoraggiare ulteriori investimenti. Nonostante la montagna del debito capitalistico (oggi equivalente a due anni di prodotto dell'economia globale) il mondo è inondato di capitale finanziario alla ricerca di un più alto tasso di remunerazione: gli investimenti sono sempre più diretti ai servizi appaltati – spesso dal settore statale – e trasformati in business che possono dare profitto ma che creano pochissimo o nessun valore. I servizi ora rappresentano l'80% del PIL britannico.

Oltre ad attività situate ai piani inferiori della catena dell'offerta, come i magazzini e le consegne (la cosiddetta logistica), il capitale si sta dando alla tecnologia digitale nel tentativo di diminuire i costi e spremere di più i lavoratori in settori dove il lavoro già è sottopagato, dequalificato e pesante. In una sorta di versione moderna del taylorismo, dove il compito di ogni lavoratore viene frammentato e strettamente limitato a una sequenza di azioni semplici e rapide, gli studi sulle tempistiche e sui movimenti sono oggi condotti da “maghi del computer”, i quali creano app basate su algoritmi che controllano e monitorano ogni passaggio della giornata di un lavoratore, ovunque egli debba recarsi. Amazon non è l'unica società in cui gli operai della logistica devono seguire le istruzioni di un palmare che dice loro dove andare e cosa “prelevare” dagli scaffali e che contemporaneamente registra il tempo che ci mettono; e di certo è comune ad Amazon e ai molti altri “centri di distribuzione e logistica” che stanno spuntando con la diffusione dello shopping online l'abitudine a pratiche d'impiego molto “disinvolte” per cercare di abbassare la spesa sui salari. (6)

Benvenuti nella gig economy

La gig economy, chiamata così perché invece di recarsi nello stesso posto tutti i giorni in cambio di un salario che permetta di vivere, il lavoro diventa una serie di “eventi lavorativi”: mansioni offerte a dei freelance per un compenso standard che essi possono sempre rifiutare. Ovviamente è necessario l'ubiquo smartphone: ma se sei reclutato per un lavoro casuale tramite un'app gestita da un algoritmo, non vuol dire che tu sia un lavoratore autonomo o l'imprenditore di te stesso! Dietro le app ci sono dei “maghi del computer” trasformatisi in capitalisti dal muso duro e col fiuto per i soldi. La loro intera strategia di usare le app per costruirsi un lucrativo flusso di entrate è basata sul rifiuto di usare altre persone come loro dipendenti: è cruciale che non abbiano la responsabilità di pagare neanche un minimo stipendio, dunque niente assicurazione, malattia, ferie ecc. “Non abbiamo niente a che fare con tutto ciò: noi forniamo soltanto la piattaforma che dà alle persone la libertà di scegliere quando accedere e lavorare”, affermano quelli come Travis Kalanick, co-fondatore di Uber, che ha sede a San Francisco. (7)

E, come è ovvio, la gente che viene pagata per questi eventi, il cui annuncio avviene online, deve comprarsi l'equipaggiamento da lavoro, proprio come ogni piccolo imprenditore. Ad esempio, gli autisti di Uber, che sono 30 mila soltanto a Londra, devono provvedere alla propria vettura in maniera che corrisponda alle specifiche di Uber, pagarsi la formazione, il permesso ecc. ecc. Devono soprattutto possedere la app di Uber (5£ a settimana se è quella ufficiale), perché altrimenti non possono lavorare. I passeggeri pagano la corsa elettronicamente e l'ammontare (calcolato dall'algoritmo di Uber) è accreditato alla società, che si trattiene almeno un 20% di “costi di servizio”, prima di accreditare il rimanente all'autista una volta a settimana. Questi lavoratori... pardon, “soci”... devono effettuare almeno una corsa al mese per rimanere nel database. Questo tipo d'impieghi è di sicuro meno monotono della vecchia condanna alla stessa occupazione 40 ore alla settimana per tutta la vita che ha dominato l'industria pesante decenni fa, ma è nondimeno sfruttamento capitalistico, in cambio, inoltre, della precarietà e dell'anonimato del boss che si nasconde dietro un'app.

Si pone la domanda di cosa la gig economy e il più ampio mondo del lavoro precario possano significare per la riscossa della classe lavoratrice. Mentre sembra che l'attuale generazione di salariati stia affrontando un gruppo di capitalisti con tutte le carte in mano, una serie di scioperi durante l'estate da parte di autisti di catering impiegati (se ne sono resi conto!) da compagnie come Deliveroo (creata da Will Shu, ex banchiere d'investimento alla Morgan Stanley) e Ubereats (uno spin-off – avrete capito di chi) hanno sfidato l'autocompiacimento di questi capitalisti senza scrupoli, prodotto di un sistema in piena crisi che ricorre all'accumulo di profitti finanziari proprio mentre la capacità del capitalismo di estrarre nuovo valore dalla classe lavoratrice è in declino. Ciò significa che, nel mondo reale, si è in un'epoca di sfruttamento sempre più brutale, in cui la sete di profitti spingerà sempre più capitalisti a tentare di pagare un salario meno che di sussistenza.

Deliveroo, che opera in 84 città su 12 stati, ha più di 20 mila ciclisti “autoimpiegati” che consegnano cibo per conto di 16 mila e passa ristoranti: anche se riesce ad attirare investimenti finanziari, deve ancora iniziare a fare profitto. Questo aspetto ha senz'altro a che fare con la improvvisa introduzione di una tariffa-pilota dei pagamenti per circa 280 dei suoi 3.000 corrieri londinesi: tradotto, significa un massiccio taglio ai salari. Prima i corrieri ricevevano 7£ all'ora più 1£ per ogni consegna; con le nuove tariffe non ci sarà stipendio-base, ma riceveranno 3,75£ a consegna: ciò va bene a ora di pranzo e di cena, quando si possono fare più di 7£ all'ora, ma significa che per la maggior parte del tempo guadagnano meno del salario minimo!

La buona notizia è che la cosa non è stata subita supinamente: durante l'estate centinaia di lavoratori Deliveroo hanno organizzato da soli proteste e singoli scioperi “selvaggi”: una delle loro richieste è essere pagati 9,40£ all'ora – il salario di sussistenza a Londra. Anche se probabilmente Shu riuscirà a far firmare ad abbastanza lavoratori il suo nuovo contratto da prendere-o-lasciare, ha comunque avuto uno shock ed ha affermato che “gli dispiaceva” che l'esperimento avesse suscitato proteste.

E non è l'unico a cui dispiace. La lotta dei lavoratori Deliveroo ha ispirato i corrieri Ubereat, che si sono sollevati contro un altro trucco taglia-salari e hanno organizzato il loro “sciopero selvaggio”: dopo aver inizialmente pagato 20£ all'ora, una volta reclutato un certo numero di lavoratori Ubereat ha portato la paga a 3,30£ per consegna, cioè un compenso molto più basso. I lavoratori hanno usato i loro telefonini e Facebook per organizzare la protesta insieme all'Independent Workers Union of Great Britain (IWGB) e all'United Voices of the World: il primo è una scissione della versione moderna dell'IWW (Industrial Workers of the World). Non conosciamo l'origine dell'United Voices of the World: considerando che stanno usando il malcontento dei lavoratori precari della gig economy per costruirsi un seguito che sarà la loro testa di ponte per diventare i legali rappresentanti permanenti dei lavoratori, essi non rappresentano la via giusta. È chiaro invece che organizzando da sé le loro lotte questi precarissimi lavoratori hanno aperto al resto della classe uno spiraglio su quale essa sia.

Non è vero che le estreme condizioni di precariato sofferte al giorno d'oggi dal 20% della forza lavoro siano un semplice effetto collaterale temporaneo dell'innovazione capitalista che verrà appianato in futuro. Per quelli come Will Hutton (nel Guardian del 4 settembre 2016) il capitalismo “come sempre è portatore del moderno, l'agente del cambiamento le cui innovazioni sono le benvenute)”. Questa è una lettura completamente sbagliata della situazione: lontano dall'essere l'agente del progresso umano, il “capitalismo di oggi” sta andando verso una soluzione catastrofica della terza crisi globale della sua esistenza, dove l'unico risultato progressivo può essere il rovesciamento dell'intero sistema. Ma Hutton ha ragione su una cosa: la gig economy è il parametro della nuova normalità, ad esempio con l'imporsi presso altri settori della classe lavoratrice delle condizioni d'impiego che il capitalismo riesce a strappare qui. Già il nuovo contratto per i giovani medici sembra includere elementi di “chiamata” derivanti dalla gig economy, mentre BBC e ITV commissionano ora programmi secondo parametri di continuo ribasso come da gig-style.

Gli scioperi estivi dei fattorini vanno letti come il primo segno di una reazione da parte di una nuova generazione di proletari e hanno certamente spaventato la classe al potere (alla conferenza del Partito conservatore il consigliere politico in capo di Theresa May, George Freeman, ha messo in guardia da “rivolte anticapitaliste” se il governo non interverrà per rendere il sistema “più responsabile”). Riconoscere il proprio comune interesse materiale è il primo, necessario passo verso una coscienza politica indipendente; ciò aprirà a sua volta la possibilità che una organizzazione rivoluzionaria con un programma genuinamente anticapitalista maturi nella vita quotidiana della nostra classe. Nel frattempo possiamo solo ricordare ai nostri lettori che la sola via sicura per una società socialmente giusta non è costituita dalla mera lotta per una giusta paga, ma anche per l'abolizione del lavoro salariato.

ER

(1) L'articolo sulla composizione di classe a cui i compagni della CWO rimandano è stato pubblicato su Prometeo #16.

(2) Cifre dell’Office of National Statistics. Vedi ons.gov.uk

(3) Anche se vi sono diverse interpretazioni su ciò che il voto sulla Brexit rivela sulla classe lavoratrice, la Resolution Foundation ha spiegato che non c'è correlazione tra le aree che hanno votato in grande misura a favore della Brexit e quelle che hanno sofferto maggiormente la caduta dei salari in anni recenti. Ma c'è una correlazione tra i luoghi che hanno votato per la Brexit e quelli dove i salari medi sono bassi da decenni. Per esempio, il 76% dei votanti di Boston, Inghilterra orientale (l'area coi salari più bassi del Paese), ha votato per lasciare l'UE, mentre lo ha fatto solo il 31% di Richmond upon Thames, l'area coi salari più alti.

(4) Vedi G20 Leaders Urged to ‘civilise capitalism’, di Tom Mitchell et.al., Financial Times del 6.9.16.

(5) Vedi, per esempio, The Great Wages Grab, uno studio della Trade Unions Confederation basato sulle cifre dell’OCSE.

(6) Vedi Amazon, A Modern Capitalist Microcosm su www.leftcom.org/en/articles/2014-02-15

(7) Vedi Wikipedia per ulteriori dettagli.

Martedì, January 9, 2018

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.