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Il dopo Isis è altrettanto complesso della fase che ha accompagnato la sua nascita. Gli interessi imperialistici che prima lo hanno favorito ora lo stanno distruggendo. Oltre alle sue macerie rimarranno solo morte e miseria per milioni di uomini e donne vittime dei giochi che gli imperialismi hanno inscenato in una delle aree più strategiche del mondo. Petrolio ma non solo, lotta sui mercati monetari, controllo dei mari e delle maggiori vie di commercializzazione. Guerre civili fomentate e guerre combattute per procura. E' l'ineluttabile barbarie provocata della crisi del capitalismo internazionale.
In tempi non sospetti abbiamo scritto che la durata dello Stato Islamico sarebbe stata inversamente proporzionale all'affermarsi degli interessi di quegli imperialismi che ne avevano facilitato, se non inventato la nascita e lo sviluppo basati sulla conquista territoriale in Siria come in Iraq. Sviluppo con tanto di possesso di pozzi petroliferi, sino a diventare una piccola potenza in grado di finanziare un altrettanto piccolo e potente esercito. La sua nascita è stata finanziata, sponsorizzata, armata e politicamente coperta in tutti i modi da quelle potenze d'area, come l'Arabia Saudita, gli Emirati, il Qatar e la Turchia, che volevano disfarsi della presenza alawita di Assad in Siria e del regime sciita iracheno. Governi, questi ultimi, rei di essere sciiti, quindi alleati del loro nemico N°1, l'Iran, e concorrenti sul business energetico. Dietro il paravento religioso, si è nascosta la perenne sfida economico-commerciale per la supremazia nella gestione della rendita petrolifera e dei conseguenti percorsi di commercializzazione del greggio, ossia l'ormai vecchia ma sempre attuale “guerra dei tubi”. Non a caso nel 2011, a scoppio già avvenuto della primavera araba in versione siriana, le suddette potenze d'area hanno incominciato a finanziare tutte le formazioni, jihadiste e non, che si opponevano al regime di Assad, Isis compresa. Non tanto per favorire il fronte sunnita rispetto a quello sciita, quanto per impedire che entrasse in funzione un accordo per costruire entro il 2016 un gasdotto che avrebbe collegato South Pars (Iran), il più grande giacimento mondiale di gas naturale, alla Siria e dunque al Mediterraneo. Sarebbe stato un ottimo affare per Assad e per la Russia, che aveva a disposizione i porti strategici siriani nel Mediterraneo e che avrebbe fornito l'assistenza tecnica, un po’ meno per la Turchia, che vedeva nel progetto una pesante interferenza dell'Iran in tema di gestione di materie energetiche in quello che considera il “mare suum”. Per di più il 16 agosto 2016 Assad annunciava la scoperta di un vasto giacimento di gas a Qara, vicino a Homs, che avrebbe ancor più legato i suoi destini energetici al colosso russo e all'Iran, in concorrenza e opposizione ai paesi del Golfo ed ai sempre presenti Stati Uniti sia in termini di strategia, di controllo delle materie prime energetiche, sia nei termini di salvaguardia del ruolo del dollaro negli scambi internazionali.
Per gli Usa, anch'essi nella lista dei finanziatori dell'Isis, la partita da giocare era quella di impedire la creazione di un asse con l'Iran e la presenza delle navi russe nel Mediterraneo. Da qui la feroce guerra contro Assad, che era considerata l'unico efficace mezzo per raggiungere il risultato affinché la VI flotta americana fosse l'unica a solcare le acque di un mare interno così vicino a tre punti fortemente strategici come l'Europa meridionale, il Nord Africa e la porta turca verso l'Asia. Per cui non meraviglia che, immediatamente dopo i primi segnali di opposizione al governo di Assad, il variegato, per interessi e strategie, Fronte sunnita sostenuto dagli Usa, iniziasse a foraggiare ogni tipo di opposizione, in modo particolare quella siro-irachena dell'Isis. Dal 2011 al 2014, data della nascita ufficiale dello Stato Islamico, l'Isis ha potuto godere di ogni sorta di finanziamenti e di coperture, ma successivamente, dopo il decisivo intervento russo, le cose sono cominciate a cambiare. Nascono la Coalizione a conduzione americana e poi quella a conduzione saudita al fine di non lasciare il monopolio a Mosca della lotta contro il terrorismo jihadista e lo Stato islamico che, oltretutto, nella sua fase di espansione, un po' di piedi ai suoi sponsor li aveva pestati. Formalmente tutti contro al Baghdadi, in realtà ognuno a difendere i propri interessi economici e strategici, la cui portata andava ben al di là delle ambizioni dell'aspirante califfo.
Oggi, dopo sei anni di guerra, di distruzione spaventosa, di massacri inauditi perpetrati da ambo le parti con centinaia di migliaia di morti civili, di ospedali distrutti, di intere città rase al suolo, di milioni di profughi costretti a bussare alla porte di quell'Occidente che, pur essendo la causa prima di una simile barbarie, non li vuole accogliere, si manifesta il risultato di tutto ciò. Il risultato è l'ingigantirsi di una tragedia “biblica”, imposta dall'imperialismo occidentale e dai suoi alleati medio orientali, che sta arrivando al suo tragico epilogo comunque vadano le cose.
Lo Stato Islamico è ormai ridotto al lumicino. Per il suo totale annientamento mancherebbe soltanto un paio di operazioni di “bonifica” negli ultimi, quanto precari, insediamenti attorno alla “capitale” Raqqa, ufficialmente già riconquistata dalle forze curde con il sostegno dell'aviazione americana, e di Mosoul, seconda “capitale” della versione irachena dello Stato Islamico. Ma pur senza l'IS, o nella sua probabile quanto imminente sparizione, la situazione rimane stazionaria per il motivo che le forze vincitrici si stanno ancora mettendo d'accordo su come dare soluzione alla “questione siro-irachena”, ricca di una serie di annessi e connessi che vanno dal problema dei curdi del Kurdistan iracheno, dopo la risposta plebiscitaria al referendum voluto da Barzani per la sua indipendenza, a quello dei curdi siriani (Rojava). Dalle richieste di “aree di sicurezza” da parte israeliana, al preteso ruolo della Turchia quale “fattore determinante” su tutte le questioni che riguardano l'area curda, alle più consistenti ambizioni di spartizione dei grandi imperialismi di Russia e Usa. Per non parlare dell'ex area Isis in territorio iracheno, con tutti i problemi energetici relativi al governo di Baghdad, ai suoi accordi petroliferi con l'Iran e, non da ultimo, di quale collocazione politica dare allo “Stato non Stato” curdo di Masoud Barzani e al suo eventuale ruolo catalizzatore del mondo curdo siriano (Rojava) sotto il patrocinio di Washington. Il referendum ( che ha avuto un risultato plebiscitario: 78% di partecipazione e 92% di voti a favore) voluto da Barzani rischia di creare intense e ulteriori tensioni con valenze interne e internazionali. Sullo scenario interno il referendum aveva due priorità da risolvere. La prima riguardava lo stato di tensione tra il governo di Erbil e la base della società. Gli ultimi anni di basso prezzo del greggio avevano determinato un quasi azzeramento dello stato sociale, una diminuzione degli stipendi dei dipendenti pubblici e un contenimento dei salari per i lavoratori petroliferi. Il ridimensionamento dei vantaggi della rendita petrolifera aveva consigliato la borghesia curda dello “Stato non Stato” di Erbil a porre in essere una sorta di politica dei sacrifici sfociata in tensioni, scioperi ed episodi di malessere sociale. Per cui un referendum che chiamasse il popolo a decidere se staccarsi definitivamente da Baghdad, per amministrare in proprio tutto quello che rimaneva della ricchezza fornita dalla rendita petrolifera, sembrava una buona panacea alla crisi interna, sollevando la borghesia curda dalle sue responsabilità di classe dirigente. La seconda si presentava come un mezzo per proporre alla Comunità internazionale e agli Stati Uniti, sponsor sin dal 1991 dell'autonomia curdo-irachena, la definitiva ufficializzazione della nascita dello Stato curdo di Iraq, uscendo così definitivamente dall'ambiguità tra autonomia e indipendenza. Il che avrebbe sancito anche la fine del contenzioso tra Erbil e Baghdad sulla gestione del petrolio in zona curda, sulle tasse da conferire allo Stato centrale di Baghdad e sulla gestione politica e amministrativa degli accordi petroliferi con altri stati. Anche se, va detto, data la complessità della materia e nonostante il risultato plebiscitario del referendum, Barzani non si è immediatamente pronunciato nel merito, lasciando un ampio spazio alla ritrattazione a seconda delle inevitabili reazioni. Sullo scenario internazionale le cose sono ancora più complesse. All'atto dei risultati del referendum, al Abadi, capo del governo iracheno, ha dichiarato nulla e priva di valore giuridico la tornata referendaria, considerandola una vera e propria provocazione. I primi atti formali del governo di Baghdad sono stati quelli di chiudere i confini, di cancellare i voli aerei verso l'aeroporto di Erbil e di “sigillare” le maggiori città del Kurdistan, di ammassare le sue truppe ai confini del “secessionista” iracheno. In aggiunta, al Abadi ha usato le truppe contro i peshmerga nelle zone da loro conquistate nella lotta contro lo Stato islamico, dando vita a scontri militari, non particolarmente cruenti, ma significativi della volontà di Baghdad di non concedere nulla alle forze curde. Di fronte all'avanzata delle truppe regolari, i peshmerga hanno abbandonato i territori conquistati lasciando campo libero senza opporre resistenza e ritirandosi all'interno dei vecchi confini. La stessa cosa è avvenuta quando le truppe di Baghdad sono intervenute per prendere la gestione della diga di Mosoul, “protetta” dalle milizie italiane che, anche a loro volta, hanno ceduto il passo. Se non un atto di guerra, quasi. Pochi giorni dopo, il presidente curdo ha dichiarato la sospensione dell'indipendenza, affermando di voler intavolare trattative con il governo iracheno. Ma la risposta di Baghdad è stata rabbiosa e netta: “Non accetteremo nient'altro che la cancellazione del voto e il rispetto della costituzione”. Forse da qui l'inaspettata decisione di Barzani di dichiararsi fuori dai giochi e di rinunciare alla carica di capo del governo a partire dal primo novembre. D'altra parte non era ammissibile che, nelle due contrapposizioni nazionalistiche, il governo di Baghdad accettasse le decisioni di Barzani senza colpo ferire. In palio non c'è soltanto la minaccia all'integrità politica e geografica del vecchio Iraq di Saddam Hussein, ma il controllo e lo sfruttamento di una zona petrolifera tra le più importati dell'area di cui Baghdad vuole ritornare in pieno possesso o, in via subordinata, in forma di cogestione federativa, ma le cui fila vengano saldamente impugnate del governo centrale. Iran e Turchia, nemici giurati, sono tuttavia uniti nel rifiutare i risultati del referendum. Il primo perché ritiene che un Kurdistan indipendente indebolirebbe il suo partner sciita e, di conseguenza, i rapporti commerciali e petroliferi già vigenti con Baghdad. Non solo, ma un Kurdistan iracheno libero e “indipendente” finirebbe per essere ancora di più una pedina americana, ovvero un ostacolo alle manovre gasso – petrolifere congiunte tra Teheran e Mosca.
Il secondo vede come il fumo negli occhi la possibilità della nascita di uno stato curdo perché ciò innescherebbe possibili recrudescenze secessionistiche alla sua parte di popolazione curda, già da decenni sul piede di guerra e con tanto di partito armato (PKK). La formalizzazione di una entità statuale curda in territorio iracheno, al pari di quella in territorio nord siriano (Rojava), altererebbe non solo gli equilibri politici di tutta l'area, ma sarebbe una spina nel fianco del Governo turco di Erdogan. Ankara ha minacciato di rompere qualsiasi contatto politico e commerciale con Erbil e di inviare truppe al confine con lo Stato curdo d'Iraq che, peraltro, non è formalmente nato né è stato riconosciuto da alcuno. Ankara ha pensato inoltre di penetrare con le sue truppe in territorio curdo siriano per tamponare, anche su quel fronte, una futura decisione di concedere quel territorio al movimento Rojava, con tutte le conseguenze negative che Erdogan paventa.
Sulla controversa questione Russia e Usa, come sempre, sono agli antipodi anche se le dichiarazioni ufficiali forniscono una “narrazione” conciliante. Trump, per bocca del suo portavoce, fa sapere di ritenere che l'indizione del referendum è stata inopportuna per gli equilibri generali di tutta l'area, ma che non si può negare alla popolazione curda il diritto all'autodeterminazione. Forse l'inopportunità sta nel fatto che Barzani ha fatto di testa sua per questioni interne senza consultare Washington e il richiamo all'autodeterminazione è una sorta di avallo implicito che serve anche per i curdi siriani attuali alleati nella lotta contro lo Stato islamico e futuri debitori nei confronti di chi ha favorito, anche se palesemente in termini di opportunismo, la loro autonomia e/o indipendenza nei confronti dei governi di Damasco e di Baghdad. La Russia da sempre reticente se non apertamente repressiva nei confronti di processi di secessione (vedi Cecenia ma non solo), in questo caso è costretta ad abbozzare in “favore” del ruolo curdo nelle guerra contro lo Stato Islamico e il jihadismo, nemici giurati di Assad, ma non sul ruolo di contrasto al suo alleato siriano. A complicare ulteriormente le cose c'è lo scontro, a volte aperto, altre volte sotto traccia ma sempre presente tra il Partito democratico del Kurdistan (PDK) del capo del governo Massoud Barzani e l'Unione patriottica curda (PUK) del recentemente defunto Jalal Talabani con in più il Gorran, organizzazione nata da una scissione nel 2009 dal PUK. Mentre il primo vorrebbe essere l'interprete principale e unico dell'iniziativa referendaria, con il chiaro intento di rafforzare il suo potere politico ed economico interno, passando alla storia come primo presidente di un Kurdistan libero e indipendente, e quale coerente interprete degli interessi di una borghesia petrolifera, gli altri due partiti hanno temporeggiato invocando una decisione (mandato) parlamentare che desse ufficialità e autorevolezza all'iniziativa. Nei fatti, sia il PUK che il Gorran avevano il fondato timore che lasciare nelle mani di Barzani tutto il merito dell'indizione del referendum, sapendo che l'esito favorevole sarebbe stato scontato, significava escludersi dal giochi di potere domestici e, quindi, da quelli internazionali basati entrambi sulla estrazione e vendita dell'oro nero.
Ma la questione curda non si limita alle vicende irachene, investe i destini di un possibile smembramento della Siria con tanto di possibile creazione di una zona libera curda ai confini della Turchia. Ci sono i rischi che il “sovranismo” esasperato di Erdogan nei confronti del PKK (peraltro accusato, oltre che di terrorismo, di avere contatti politici e militari con i peshmerga iraniani), si trasformi in una aperta guerra civile, che andrebbe ad aumentare il già grave scenario di scontro imperialistico. E, cosa peggiore, finirebbe per coinvolgere nelle spire degli interessi borghesi – nazionalistici, masse crescenti di proletari, chiamati a battersi e a morire per interessi che non sono i loro, ma solo ed esclusivamente appartenenti a quelli della classe dominante.
Ritornando alla Siria, potremmo dire che la fase attuale, così come è uscita dalla riunione dell'ultimo G20, è di assoluto stallo. Ciò che resta dello Stato Islamico rimane in piedi perché non tira più tanto vento contrario e perché i vari spezzoni dell'imperialismo concertano sul da farsi, come se la preda siriana fosse pronta per essere sezionata e che l'unico dubbio consistesse sul come spartire le sue membra tra i voraci cacciatori. Inizialmente, prima cioè dell'intervento armato russo, vigeva una sorta di programma massimo per il quale gli Usa perseguivano l'obiettivo totale, ovvero la distruzione del regime di Bashar el Assad, la sua sostituzione con un governo filo occidentale che eliminasse la presenza nel Mediterraneo della flotta russa, a compimento di un lungo processo di isolamento di Mosca a favore degli interessi strategici americani nel mare che bagna l'Africa, l'Europa e il Medio oriente, nonché la Turchia intesa come la “Sacra Porta” verso l'Asia. L'intervento russo ha cambiato le carte in tavola. Anche Putin aveva il suo programma massimo: quello di battere tutte le opposizioni al governo di Assad, quale condizione prima per il mantenimento della propria flotta militare nei porti strategici (Latakia e Tartus) della Siria, e di poter usufruire di eventuali gasdotti da accoppiare al South Pars, da cui, eventualmente, rifornire l'Europa attraverso una rotta meridionale. Le dinamiche imperialistiche hanno poi ridimensionato i due piani e proposto, nella logica delle cose, cioè dei reali rapporti di forza sul campo degli antagonismi imperialistici, dei programmi “minimi” ai quali si sta ancora lavorando. Putin e Trump pare siano sostanzialmente d'accordo nella “spartizione” della Siria, molto meno d'accordo sulle aree e sui gestori delle stesse. A latere del recente G20 i due leader pare abbiano trovato un punto d'incontro che soddisfacesse innanzitutto le loro priorità e, in via subordinata, quelle dei loro alleati, sempre che le due cose possano coincidere e non collidere, e sempre che l'attuale disputa sulla riconferma delle sanzioni Usa alla Russia non rimetta in discussione il tutto. L'accordo (versione Usa che rielabora il vecchio piano B, una sorta di smembramento della Siria) ruota attraverso una sorta, l'ennesima, di cessazione del fuoco tra tutte le parti, fatta eccezione per quella contro i terroristi dell'Isis ormai ridotti al lumicino. Poi si passerebbe alla creazione di “corridoi” umanitari che consentirebbero alla popolazione civile – che loro stessi hanno pesantemente contribuito a massacrare al pari, se non peggio, dei terroristi jihadisti – di potersi spostare liberamente sotto, ovviamente, il controllo delle forze militari legate al governo di Washington.
Terza e ultima parte degli accodi sarebbe la messa in atto di “aree di sicurezza”. In pratica saremmo in presenza del solito, vecchio e famigerato piano B che prevedeva la spartizione della Siria in quattro parti.
La prima area a nord est verrebbe affidata alla SDS (forze democratiche siriane) sotto l'egida militare e il controllo politico degli Usa. La vasta area va dalla città di Hasaka sino all'Eufrate, abitata da curdi siriani (Rojava) che spingono per una loro autonomia e/o indipendenza, sulla scorta dei loro cugini iracheni. Ma il progetto ovviamente non piace ad Ankara, che non vuole nemmeno sentire parlare di autonomie curde e, men che meno, di stati curdi che potrebbero mettere in forse l'integrità del suo territorio e ridare fiato alle rivendicazioni autonomistiche del Pkk. Su questo Ankara è decisa a non mollare, ma, se lo dovesse fare per cause di forza maggiore, pretende, in qualche modo, di essere consistentemente accontentata da qualche altra parte. La seconda area si svilupperebbe da Aleppo verso nord, dalla città di al Bab sino ai confini turchi. Sempre zona curda, che verrebbe data come contentino alla supervisione della Turchia, la quale amministrerebbe una porzione di territorio curdo profonda una novantina di chilometri; il tutto è ben lontano dalle richieste di Ankara, ma sufficiente a garantire un minimo di controllo su quella popolazione affinché rinunci alle sue ambizioni nazionalistiche che potrebbero inoculare lo stesso virus anche alle popolazioni curde di stanza nei territori della Turchia meridionale. La terza sarebbe affidata in maniera obliqua, diplomaticamente contorta, ma di fatto probabile, in parte alla Giordania, ma soprattutto a Israele, che ne ha sempre richiesto il controllo per questioni di “sicurezza”. Geograficamente l'area parte dalle alture del Golan, ai confini sud occidentali con la Siria, sale sino a Derna e alla città di Souweida. Regalo che Trump e i suoi collaboratori hanno pensato di fare all'alleato di sempre per rinforzare “un'amicizia” militare di cui, in questa delicata fase, entrambi hanno assoluto bisogno e che in precedenza aveva subito alcuni pesanti passaggi a vuoto. La quarta spetta “di diritto” alla Russia ed è quella che comprende tutta la costa parallela all'asse Aleppo-Homs-Damasco e che prevede, ovviamente, la gestione i porti strategici di Tartus e Latakhia, nonché i relativi terminali petroliferi sul Mediterraneo. La stessa Russia però, con Iran e Turchia, ha elaborato un piano di spartizione della Siria che va sotto il nome di “zone di de-escalation” non dissimile da quello americano sul concetto di spartizione, ma con alcune significative varianti sia territoriali sia dei soggetti che le devono amministrare. Le zone prescelte, per essere inserite nel piano di “de-escalation” elaborato negli accordi di Astana tra le tre potenze, devono rispecchiare i “desiderata” dei tre paesi firmatari degli accordi stessi. Intanto le aree sarebbero tre o quattro, a seconda del buon esito degli accordi sulle spartizioni, che i paesi contraenti si impegnano a gestire in termini di cooperazione se il tutto va per il verso giusto, ma in una inevitabile e aperta contrapposizione se le cose dovessero assumere contorni non graditi o poco soddisfacenti. Le aree in questione dove verranno costituite queste “zone sicure”, comprenderanno la provincia di Idlib, alcune consistenti parti delle province di Latakia, Aleppo, Hama e Homs, la zona cicostante di Ghouta a est di Damasco e parti delle province di Dara’a e Quneitra, a ridosso del confine con la Giordania. I tre paesi garanti, si legge nell'accordo, creeranno dei “check-point e punti di osservazione” ai limiti dei confini delle “zone a bassa tensione” o “zone di de-escalation”. I check-point dovrebbero altresì garantire il movimento dei civili disarmati.
Detto in altri termini, l'accordo di Astana tra Russia, Iran e Turchia segna un punto fermo sul processo di spartizione della Siria. In “primis” la Russia avanza la pretesa di gestire la “solita” parte mediterranea della Siria, ovvero l'asse Aleppo-Homs-Damasco con relativo contenuto economico, strategico e militare. L'Iran pretende il controllo dell'area al confine con il Libano, nel tentativo palese di avvicinarsi alle coste del Mediterraneo e di mantenere, anche geograficamente, più stretti contatti con gli Hezbollah libanesi. La Turchia, che non digerisce il poco che il piano Trump le attribuisce, mirerebbe ad entrare in “possesso” dell'amministrazione del nord della Siria, proprio quell'area che gli Usa darebbero in amministrazione alla SDS, sotto la sua attenta e irrinunciabile supervisione. Palesemente le doppie proposte di spartizione confliggono in più punti, tra i quali hanno particolarmente valenza quello relativo alla feroce opposizione turca al progetto americano di attribuire la zona curda all'amministrazione delle Forze Democratiche Siriane. Ci potrebbe essere il rischio che in Siria, prima o poi, si dia vita ad una “autonomia” curda che potrebbe allearsi o fondersi con quella irachena, creando un pericoloso precedente nazionalistico ai confini turchi, che galvanizzerebbe quello curdo turco del PKK. L'altra frizione è rappresentata da Israele e Iran ai confini meridionali. Mentre l'Iran aspirerebbe a collegarsi con il libano sciita degli Hezbollah, passando dagli alleati sciiti di Baghdad e Damasco, Israele intende considerare la stessa zona come area di sicurezza ai suoi confini a nord, contro la Siria di Assad e contro anche l'anti-sionismo degli stessi Hezbollah libanesi. Sono i problemi che quotidianamente, in questa fase storica, l'imperialismo si trova a dover affrontare. Li affronta a volte con la diplomazia aggressiva o con l'aperto uso della forza. Nel caso siriano sono entrate in azione tutte e due le linee, anche se la seconda ha avuto per ben sei anni il sopravvento e la prima stenta a decollare, a causa dei numerosi attori che ingombrano la scena con i loro “irrinunciabili” obiettivi. Il che non esclude che, nella prima delle vie percorribili, quella di un accordo di vertice tra Usa e Russia, tra le telefonate scambiate tra Trump e Putin a latere del Convegno di Astana, non ci sia stata la velata proposta degli Usa di non interferire più di tanto nelle complicate vicende siriane in cambio di una promessa di mano libera in Iraq. In questo, assolutamente ipotetico, caso, saremmo in presenza non dello smembramento di un paese Medio orientale, ma di una parte consistente del Medio oriente stesso. Anche se, va detto, un simile quadro, qualora avesse avuto una minima possibilità di essere pensato e proposto, dopo le recenti manovre americane di replica delle sanzioni contro la Russia e contro l'Iran, rimarrebbe sulla carta, aprendo contemporaneamente una porta all'intensificazione degli scontri armati che prolungherebbero di anni il calvario siriano e iracheno, con il probabile rischio di incendiare l'intera area, aumentando il massacro di proletari, di contadini, di inermi civili sempre più vittime della barbarie della crisi del capitalismo internazionale. Un capitalismo costretto sempre di più a distruggere per ricostruire, a uccidere per sopravvivere. Un capitalismo che ricorre alle devastazioni delle guerre più o meno generalizzate, alla ferocia dell'imperialismo per tentare di superare le sue insuperabili contraddizioni economiche e sociali. Il dopo Isis, se ci sarà, rischia di essere più devastante delle guerre fatte in nome della lotta allo Stato Islamico.
Fabio Damen, ottobre 2017Prometeo
Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
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