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Home ›Appunti sulle persistenze del socialismo piccolo borghese e il marxismo novecentesco
Roman Rosdolsky, nella prefazione alla sua opera più conosciuta (1), sottolineava giustamente come, dopo gli anni Venti del secolo scorso, il dibattito teorico marxista (2) fosse andato pressoché scomparendo, spazzato via, con gli individui che lo animavano, dalla bufera controrivoluzionaria dello stalinismo, del nazifascismo, ma anche, aggiungiamo, e sia pure in forme diverse, dal versante democratico della borghesia e della sua ideologia, che, con la complicità oggettiva dei “totalitarismi” suddetti, ha pervaso in profondità il movimento operaio. Il crollo dell'Unione Sovietica, di quella che, a torto, era stata considerata la patria del socialismo, la realizzazione pratica delle idee di Marx (ed Engels), ha significato per milioni di proletari la fine di un sogno, l'eclissi della speranza in un mondo diverso e migliore. Al contrario, per gli ideologi della borghesia, per la vasta schiera di “opinionisti”, è stata la prova definitiva che il marxismo poteva essere, nel migliore dei casi, solo un'ingenua utopia, nei fatti nient'altro e necessariamente che un incubo orwelliano. Di colpo, dalle librerie sono quasi scomparsi i libri di e su Marx – per non parlare delle altre figure del movimento comunista – diventati merce a poco prezzo dei mercatini domenicali.
È vero, ultimamente sembra che ci sia un ritorno d'interesse per il “Moro” di Treviri, come parrebbe attestare, per esempio, la nuova traduzione del Libro primo del Capitale, ma l'impressione è che la “riscoperta” marxiana sia di tipo generalmente accademico-filosofico e, in ogni caso, profondamente segnata dalle eredità teoriche, per così dire, dell'epoca cui si è appena fatto cenno. In breve, ristabilire passi del Capitale sopprimendo gli interventi di Engels, ha senz'altro un suo interesse, ma non crediamo che questo possa modificare granché il senso (e i risultati) dell'analisi del capitalismo condotta da Marx, in quanto c'è una coerenza di fondo nei suoi lavori di critica dell'economia politica, dai Grundrisse alle Teorie sul plusvalore, passando appunto per il Capitale, che la filologia può, al massimo, certificare (3). Ma il punto, a nostro parere, non è tanto o solo questo, quanto un altro e che riguarda la natura stessa del marxismo: quali ricadute politiche hanno le recenti “riscoperte” di Marx? Che prospettive e che indicazioni offrono alla lotta di classe? Si tratta di questioni centrali, se non si vuol ridurre Marx a un filosofo, un economista, un politico, perché Marx era un rivoluzionario, un comunista e gli strumenti della filosofia, dell'economia ecc. gli servivano come armi critiche per preparare, quando le circostanze storiche lo avrebbero consentito, la “critica delle armi” proletarie al mondo borghese. A questo proposito, facciamo nostro il giudizio espresso da una delle più importanti figure del movimento comunista, da destra e da sinistra spesso indicata come la principale responsabile di quanto di negativo offre la tormentata storia del movimento operaio novecentesco, vale a dire Lenin. Giustamente, egli osservava come la teoria rivoluzionaria senza la conseguente prassi rivoluzionaria trasformi il marxismo in altra cosa, in un ibrido professorale buono solo per diatribe accademiche o per giustificare una condotta politica riformista. Nella famosa polemica con Kautsky – il “papa” della II Internazionale” - sferzante atto d'accusa verso uno dei massimi rappresentanti dell'opportunismo socialdemocratico, che citava Marx per renderlo inoffensivo - Lenin così si esprimeva:
del marxismo si riconosce tutto, fuorché i mezzi rivoluzionari di lotta, la propaganda e la preparazione di essi, l'educazione delle masse appunto in questa direzione (4).
Ci pare che il recente “ritrovamento” di Marx, quanto meno in Italia, sia per lo più collocabile dentro quell'atteggiamento aspramente criticato dal rivoluzionario bolscevico e porti l'impronta teorica di cui si parlava poco più indietro. In genere, il punto di riferimento è il pensiero di Antonio Gramsci, che, se ha avuto indubbiamente un posto importante in quello che, spesso impropriamente, viene chiamato “comunismo novecentesco”, col marxismo ha, a rigor di termini, poco a che fare, in bilico com'è tra idealismo e marxismo, dove però è il primo elemento a prevalere (5). Qui però ci si può solo limitare a un accenno rapidissimo, ma l'idealismo di fondo che accompagnò tutta la vita del pensatore sardo emerge fin dalle sue prime “prove” di militante socialista, per esempio dall'articolo, apparso sull'Avanti! del 24 dicembre 1917, intitolato La rivoluzione contro il “Capitale”, nel quale, elogiando i bolscevichi, giudicava la rivoluzione d'Ottobre una smentita del Capitale di Marx e delle (presunte) rigidità del materialismo storico. Infatti, così si esprimeva:
La rivoluzione dei bolsceviki è materiata di ideologie più che di fatti [le idee che muovono la storia?, ndr] (perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo) Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'èra capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolsceviki rinnegano Carlo Marx, affermano, e con la testimonianza dell'azione esplicita, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e come si è pensato [i bolscevichi] Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche (6).
Dimostrava in tal modo di non aver colto il metodo complessivo del marxismo, collocandosi sul terreno del soggettivismo, negatore dei meccanismi oggettivi del modo di produzione capitalistico, i cui sfracelli teorici hanno costellato il percorso politico del proletariato dalla fine degli anni Venti del secolo passato in poi. L'intenzione, in sé lodevole, di criticare il becero determinismo di stampo positivista del riformismo tradizionale, scadeva dunque in un antideterminismo volontaristico, che niente aveva a che fare col bolscevismo, il quale appunto considerava la propria azione come la conferma del materialismo storico nell'epoca dell'imperialismo, sviluppo pratico e non smentita del marxismo. A Gramsci rispondeva quello che sarebbe stato il principale animatore della corrente comunista dentro il PSI, Amadeo Bordiga, sempre dalle colonne dell'Avanti!, collocando correttamente la rivoluzione bolscevica dentro le direttrici metodologiche del marxismo medesimo (7).
Si potrebbe dire che Gramsci e Bordiga simboleggiano, in un certo qual modo, ciò che è stato del marxismo, o di quello chiamato tale, nel secolo scorso: quello vincente e quello perdente, per usare il frasario insulso del “neoliberismo” dominante, o l'ortodossia, creativa e feconda, contro l'eresia, sterile ripetitrice di formule condannate dalla storia e perciò stesso destinata a un minoritarismo impotente. Naturalmente, tutto questo non è stato il risultato di una battaglia di idee o, se lo è stato, quella battaglia è l'espressione di scontri ben più materiali (senza negare materialità alle idee) e drammatici: il 1917 russo, l'ondata di lotta di classe e i tentativi insurrezionali mossi dal proletariato mondiale, e in particolare europeo, contro le fortezze della borghesia negli anni immediatamente successivi, il riflusso del moto rivoluzionario, che cominciò a privare dell'ossigeno la prima esperienza di potere proletario (escludendo la Comune di Parigi del 1871) fino a soffocarla del tutto, ma conservando gli aspetti e i “rituali” esteriori, fonte di uno dei più tragici equivoci della storia dell'umanità. La controrivoluzione, che per comodità di sintesi chiamiamo stalinismo, avrebbe inciso profondamente nel corpo del marxismo, fino a renderlo irriconoscibile, a trasformarlo in un “qualcosa” che, al di là degli abiti di scena in cui si presentava (e si presenta) di volta in volta, non aveva e non ha niente a che spartire con Marx e nemmeno, naturalmente, con Engels.
Il peso della controrivoluzione è stato così schiacciante da segnare anche quelle correnti che, come il trotskismo, si erano opposte – sia pure con limiti teorici e politici significativi - al corso degenerativo della rivoluzione stessa, e di altre correnti che, nel Novecento, hanno inteso collocarsi in un percorso di critica radicale dell'esistente. La valutazione di ciò che stava accadendo in URSS, della sua natura sociale diventò uno dei principali elementi, se non il principale, caratterizzanti chi, a vario titolo, si richiamava al comunismo. Da una parte, la Terza Internazionale a guida russa che giustificava le proprie contraddittorie svolte politiche con la necessità di difendere e rafforzare la costruzione del socialismo dentro i confini di un paese solo, clamorosa, o sconcertante, novità teorica introdotta nel marxismo, che mai aveva ritenuto possibile edificare il socialismo a scala nazionale, ma sempre e solo internazionale. Dall'altra, minoranze e individualità le quali, invece, negando che il socialismo si stesse sviluppando nel nuovo stato sorto dalla rivoluzione, si sforzavano di analizzare un fenomeno che non aveva eguali nella storia (8). Naturalmente, l'analisi non era fine a se stessa, ma aveva immediate ricadute politiche e investiva tutto il percorso, dunque i protagonisti politici, che aveva portato al rovesciamento dello zar prima e di Kerensky poi. Più l'adesione al marxismo era stretta, più la critica era radicale, più gli interpreti di tale critica venivano posti ai margini, estirpati, anche fisicamente, dal movimento operaio. Con questo non si vuol sostenere che l'emarginazione delle minoranze rivoluzionarie sia stata dovuta unicamente a motivi “ideali”, per così dire, e nemmeno che loro analisi fossero lineari o esenti da errori, ma che il rullo compressore della controrivoluzione lasciava ben pochi spazi di visibilità, influenza e intervento. Alcuni, nel processo di revisione critica della rivoluzione bolscevica arrivarono, come Karl Korsch, a prendere le distanze dal marxismo stesso; altri, per esempio i consiliaristi, eredi diretti dell'«estremismo» tedesco-olandese, negarono il carattere proletario dell'Ottobre e giunsero a considerare Lenin un rivoluzionario, sì, ma democratico borghese. Altri ancora, al contrario, pur non trattenendosi dal criticare le insufficienze e i limiti della rivoluzione – anzi, proprio per questo – dell'azione politica svolta negli anni tremendi ad essa successivi dal partito comunista russo, cercarono, se non di raddrizzare il corso ormai palesemente degenerativo della Terza Internazionale (o Comintern), di mantenere integre le basi politiche per una futura ripresa rivoluzionaria, salvaguardando per quanto possibile il patrimonio teorico-pratico accumulato nel primo dopoguerra e nella lotta con la reazione fascista; non nel chiuso di qualche circolo culturale, naturalmente, ma nel vivo dello scontro di classe, nella classe e con la classe di cui, del resto, facevano per lo più parte anche fisicamente. Per essi, a differenza dei consiliaristi, il 1917 bolscevico si inscriveva pienamente nel quadro dell'esperienza proletaria e del marxismo, costituendone anzi una delle conferme più brillanti e, pur essendosi scontrati, sul piano politico, con Lenin, difendevano del rivoluzionario russo quanto di valido aveva espresso per il movimento comunista – ed era davvero tanto – a dispetto e contro un “leninismo” di maniera, maschera deforme del capo bolscevico, buona solo per i bassi usi dello stalinismo anticomunista. Si sta parlando della sinistra del Partito Comunista d'Italia, ampiamente maggioritaria dentro l'organizzazione fino a che per l'azione convergente del Comintern degenerante e del fascismo al potere non fu ridotta a una minoranza e infine espulsa. Ma dentro le patrie galere o nell'esilio continuò la sua battaglia rivoluzionaria (9), per proseguire in quella strada intrapresa dalla fine della guerra, se non prima. In questa lotta condotta tra difficoltà enormi, ancora una volta si dimostravano fondamentali le indicazioni metodologiche fornite dal marxismo per svelare il “mistero” dell'URSS: come si è detto, pur in un percorso non lineare, si arrivò a considerare che quella nuova formazione sociale e la sovrastruttura giuridico-statale da essa espressa rientravano pienamente nel capitalismo di stato di cui parlava Engels una sessantina di anni prima nell'Antiduhring, inteso quest'ultimo come “capitalista collettivo ideale” (10). Di capitalismo di stato, dunque, si trattava, non di socialismo, ma se così stavano le cose, ne discendeva che le strategie politiche promananti da Mosca sui partiti comunisti non avevano niente a che fare con gli interessi della rivoluzione proletaria, ma con quelli, se mai, dello stato sovietico (una contraddizione in termini), cioè di quella classe che pur non possedendo giuridicamente i mezzi di produzione, li controllava a proprio esclusivo vantaggio – sulla base di di un processo economico in cui le categorie fondamentali del capitale erano tutte presenti (merce, denaro, salario, profitto ecc.) - interpretando il ruolo che la borghesia svolgeva in “Occidente”.
Il proletariato mondiale era così chiamato a versare generosamente il suo sangue per cause in cui il linguaggio classista serviva da paravento a fini circoscrivibili nel quadro politico ed ideologico borghese, di cui l'antifascismo senz'altra connotazione, cioè senza la specificazione “di classe”, era diventato un elemento primario. In occasione della guerra di Spagna, solo pochi, pochissimi, a cominciare da quei militanti che si rifacevano metodologicamente alle posizioni originarie del Pcd'I, dentro (in tutti i sensi) e fuori dell'Italia, o i nuclei consiliaristi sulle due sponde dell'Atlantico, tra cui spiccava Paul Mattick, mentre salutavano la risposta spontanea al colpo di stato fascista nel luglio 1936 del proletariato spagnolo, denunciavano invece le sue organizzazioni politico-sindacali – nelle vesti “comunista”, socialista e anarchica – per aver soffocato o non aver saputo sviluppare il carattere classista dell'insurrezione di luglio, incanalandola dentro una guerra di tipo tradizionale in cui ogni connotazione di classe sarebbe stata rapidamente cancellata, compromettendo in tal modo l'unica vera possibilità di battere il franchismo (11).
La guerra civile spagnola, compresa la repressione del maggio 1937, operata dal governo repubblicano con “l'assistenza tecnica”, per così dire, dell'NKVD staliniana contro quei miliziani che si ostinavano a rimanere fedeli alle loro motivazioni di classe nel combattere il fascismo, anticipò fin quasi nei dettagli ciò che sarebbe accaduto pochi anni dopo durante il secondo conflitto mondiale. Anche in questo caso, va da sé, nessuno dei partiti a base operaia “ufficiali” denunciò il carattere imperialista della guerra, a maggior ragione i partiti “comunisti” legati al Comintern, che prima avallarono il patto Molotov – Ribbentrop, in quanto risposta ai maneggi dell'imperialismo anglo-francese (il che è anche vero, ma in una logica sempre borghese), poi, in seguito all'invasione nazista dell'URSS, riscoprirono la connotazione imperialista del nazionalsocialismo e dimenticarono quella alleata. L'implicazione era che il proletariato europeo, anzi mondiale, dovesse scendere sul terreno della lotta armata contro il nazifascismo a fianco della democrazia anglo-americana e della “patria socialista”, non per spianare la strada alla rivoluzione anticapitalista, ma per raccogliere dal fango le bandiere che la stessa borghesia aveva abbandonato dell'indipendenza nazionale e della democrazia. Al solito, si prendeva a pretesto la posizione dei comunisti del 1848, forzandole fino alla distorsione più completa, per imporre, appunto, in piena epoca imperialista, una strategia che comunque, quando fu elaborata, poneva come irrinunciabile la completa indipendenza operaia dalla democrazia borghese e che aveva un senso politico nel momento in cui la borghesia doveva liberarsi degli ultimi residuati del mondo precapitalistico. Chi denunciava lo stravolgimento del marxismo, chi indicava al proletariato non un codardo indifferentismo nei confronti della tragedia bellica, ma l'opposizione attiva, di classe ai due schieramenti militari sulla base di una stretta aderenza al marxismo, veniva presentato come complice della Gestapo, meritevole dunque di subire la sorte di tutti i collaboratori del nazifascismo (12). Cosa che accadde a due nostri compagni assassinati nella primavera-estate del 1945 (13). Esecutori e mandanti non furono mai individuati, ma i nostri compagni di allora non avevano dubbi sul fatto che dovessero essere cercati tra le fila del partito di Togliatti.
Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano dalla fine degli anni Venti fino alla morte, nel 1964, potrebbe sintetizzare, per così dire, i fraintendimenti che, dall'affermazione dello stalinismo in poi, hanno ricoperto il marxismo, fino a renderlo irriconoscibile.
Tra i massimi interpreti della controrivoluzione staliniana, si è costantemente adoperato affinché la lotta di classe fosse mantenuta dentro le compatibilità – economiche, sociali, politiche – borghesi, piegando la classe operaia italiana (intesa in senso lato) ai bisogni della Ricostruzione capitalistica del secondo dopoguerra, sia in campo economico che statale. Il bello è – si fa per dire – che mentre da uomo di governo negli esecutivi De Gasperi partecipava in prima persona a quanto appena detto, allo stesso tempo traduceva opere fondamentali di Marx ed Engels, documenti in cui, con diversi decenni d'anticipo, si condannavano posizioni politiche che prefiguravano - al millimetro, verrebbe da dire - la condotta del PCI, dello stalinismo tutto e del riformismo in generale. Ci riferiamo alla raccolta Il Partito e l'Internazionale, uscita per le edizioni Rinascita nel 1948, contenente, tra gli altri, il Manifesto del partito comunista e la Critica al programma di Gotha. Il contrasto tra ciò che scrivono i due rivoluzionari tedeschi e la prassi togliattiana – per semplificare – è stridente, eppure Togliatti (assieme a molti altri della stessa “famiglia allargata”) è considerato a pieno titolo esponente del marxismo e come tale inserito, per esempio, nella Storia del marxismo dell'Annale Feltrinelli uscito nel 1974. Non è possibile, qui, una disamina particolareggiata del pensiero e della prassi togliattiane, ma, a titolo esemplificativo, è utile riportare quanto Marx ed Engels scrivevano a Bebel, Liebcknecht, Bracke e altri socialisti tedeschi nel settembre 1879, a proposito della tattica legalitaria proposta dal futuro (?) revisionista Eduard Bernstein (14) e due suoi compagni di partito, da Zurigo, lì riparati in seguito alle leggi antisocialiste di Bismarck:
Se Berlino dovesse di nuovo mostrarsi screanzata da fare un 18 marzo [la rivoluzione del 1848, ndr] i socialdemocratici, invece di prendere parte alla lotta come “canaglia barricadiera” […] dovranno piuttosto “percorrere le vie della legalità”, predicare la calma, demolire le barricate, e in caso di necessità marciare insieme con il magnifico esercito contro le masse unilaterali, rozze, incolte. E se i signori [Bernstein e gli altri due] affermano che il loro pensiero non è questo, quale è dunque il loro pensiero? (15).
Sarebbe molto interessante proseguire nella lettura della “lettera circolare”, perché si calano fendenti sulla tattica (o strategia?) che di fatto si imporrà nella II Internazionale, volta a
quelle riforme di rabbercio piccolo borghesi che offrono alla vecchia società nuovi sostegni e perciò potrebbero forse trasformare la catastrofe finale in un processo di dissoluzione graduale, a pezzi e possibilmente pacifico (16)
ma per non allargare troppo il discorso, è forse più utile confrontarla con una circolare inviata da Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia. Nei confronti dei moti proletari-popolari contro il carovita e le difficili condizioni di esistenza, di fronte alle «manifestazioni di protesta da parte di reduci e di disoccupati, culminate in gravissimi episodi di devastazione e di saccheggio», il ministro “comunista” invitava la magistratura a procedere con decisione
affinché contro le persone denunciate si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore […] onde assicurare una pronta ed esemplare repressione (17).
Non meno stridente è il contrasto tra l'azione di governo – e poi di opposizione – del PCI con un altro documento redatto da Marx ed Engels, ugualmente inserito nella raccolta sopra citata, vale a dire l'Indirizzo del comitato centrale della Lega dei comunisti, del 1851, dove si passa nel tritacarne il riformismo piccolo borghese dei democratici tedeschi di quegli anni, ripreso, nelle linee generali ma sostanziali, da ogni prassi riformista, non ultima quella perseguita da Togliatti e successori: repubblica democratica fine a se stessa, riforme “di struttura” da parte dello stato, intervento di quest'ultimo nell'economia, miglioramento della condizione dei salariati dentro la società borghese.
C'è anche un'indicazione politica di stretta attualità, vale a dire rispetto al debito pubblico, già qualificato come brutale grassazione ai danni del “popolo” a opera degli squali della finanza con la complicità del personale politico statale (18). Quale doveva essere l'atteggiamento degli operai? Risposta: «se i democratici reclameranno che si regolino i debiti dello stato, i proletari reclameranno che lo stato faccia bancarotta» (19). Ben lontani, dunque, da quella sinistra, come Syriza, che alla fine si è prostrata ai diktat dell'Unione Europea, intensificando il salasso nel confronti del proletariato e di ampi strati di piccola borghesia, rimangiandosi le promesse elettorali. Ma ben lontani anche dai movimenti riassumibili nello slogan “Noi il debito non lo paghiamo” (il che equivarrebbe alla bancarotta dello stato), in quanto quei movimenti non offrono nessuna indicazione pratica, ma soprattutto classista, per dare corso alla loro dichiarazione, se non appelli generici di buona volontà alla cittadinanza e l'aspirazione a una finanza diversa, cioè a un altro capitalismo, la cui ipotetica esistenza lascia il tempo che trova (zero). Marx ed Engels, infatti, dicono chiaramente quale deve essere la via per non pagare il debito, il grido di battaglia della classe operaia e degli strati sociali contigui: «La rivoluzione in permanenza!».
Naturalmente, la prospettiva rivoluzionaria è assente dall'orizzonte dei movimenti odierni, così come , del resto, lo era da quella dei partiti comunisti “ufficiali”, collocabile solo in altre aree geografiche – in una specie di “delocalizzazione” politica – ma diluita nell'acqua di altre prospettive che col marxismo c'entravano ben poco, almeno così com'erano disegnate, quali, per esempio, le lotte di liberazione nazionale, il che però, in fin dei conti, voleva dire appoggiare uno degli schieramenti capitanati dalle due superpotenze imperialistiche. Il “marxismo” del secondo dopoguerra, molto spesso, per usare un eufemismo, aveva solo lontane parentele con Marx, ridotto quest'ultimo, parafrasando un altro rivoluzionario comunista cui è toccata la stessa sorte, a “icona inoffensiva”, «a “consolazione” e a mistificazione delle classi oppresse» (20). Quando, in buona fede, se ne voleva utilizzare l'opera per una critica radicale dello stato di cose presente (in polemica col comunismo “ufficiale”) essa veniva - e viene - mischiata con approcci teorici la cui compatibilità col marxismo era assai dubbia o, nel migliore dei casi, molto limitata.
Per rimanere in Italia, basterebbe dare un occhio più attento di quanto non siamo costretti a farlo in questa sede, alla produzione teorica dell'operaismo o almeno di alcuni suoi esponenti più in vista, e confrontarla con quella di Marx: le discrepanze, persino le opposizioni sono notevoli. Verrebbe da dire che quei teorici-militanti sono marxisti solo in quanto hanno inteso fare delle loro teorie una guida per l'azione “sovversiva”, nello spirito della famosa undicesima tesi su Feuerbach di Marx, secondo la quale non ci si può più limitare a riflettere sul mondo, ma bisogna darsi da fare per cambiarlo. Per questo loro atteggiamento, molti hanno pagato un conto salato, forse sottovalutando l'avversario, di certo sottovalutando e allo stesso tempo fraintendendo clamorosamente sia la fase storica che i meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Per esempio, basta leggere il saggio Partito operaio contro il lavoro, di Antonio Negri, uno dei punti di riferimento teorico-politici dell'Autonomia operaia, per vedere come venga tirata una riga sopra alcune delle principali categorie marxiane, in primis la legge del valore. Secondo Negri – in numerosa compagnia – tale legge si sarebbe estinta nel capitalismo contemporaneo sotto l'assalto dell'operaio-massa, per cui il capitale regnerebbe, se così si vuol dire, sulla spinta di una specie di volontà di potenza niciana, di “comando”:
Produzione di merci a mezzo di comando, si è detto, significando con ciò che ogni rapporto tra valore e prezzo, fra produzione e circolazione vien meno (21).
Con la fine della legge del valore scompare il carattere oggettivo delle leggi di funzionamento del capitale e si spalancano così le porte a ogni sorta di soggettivismo – e velleitarismo – estremamente deleterio, dato che induce i suoi interpreti-militanti, non di rado impegnatisi generosamente, a una serie di inevitabili sconfitte di cui però non si può fare un bilancio critico, poiché gli unici strumenti adatti allo scopo sono stati portati dal rigattiere, condannandosi in tal modo a sbattere ogni volta la testa contro muri che non si possono, perché che non si sanno, scavalcare. La cosa è tanto più grave, in termini marxisti, perché Negri e altri suoi compagni dello stesso versante teorico curavano per la Feltrinelli collane editoriali molto fortunate, “guida per l'azione” di migliaia e migliaia di giovani (almeno, se non altro presenti nelle loro biblioteche), intitolate Materiali marxisti e Opuscoli marxisti, le quali però, dal punto di vista della teoria marxista e non solo, hanno provocato danni che non è esagerato definire incalcolabili (22).
Allora, per ritornare all'inizio del nostro discorso, dove si può trovare aderenza all'impianto teorico-metodologico marxiano? Come si diceva, in sparute minoranze politiche, in singole individualità, a volte appartenenti al mondo dell'Accademia (soprattutto fuori dell'Italia, a nostra conoscenza), che “contro venti e maree” ritengono il marxismo l'unico strumento abilitato a cambiare il mondo. Ed è proprio in quelle minoranze, di solito etichettate con sufficienza come sopravvivenze archeologiche, che la teoria marxiana viene “aggiornata” e sviluppata sulla base delle trasformazioni del modo di produzione capitalistico: in breve, continua a vivere. Prendendo per esempio in considerazione uno degli elementi tradizionalmente centrali della lotta salariale, vale a dire il sindacato, pochi hanno saputo legarne l'evoluzione con le mutazioni subite dal capitalismo in oltre un secolo e mezzo, rimanendo attaccati – ma a ben vedere neanche tanto – più alla “lettera” che allo “spirito” del marxismo, riproponendo dunque, rispetto a un sindacato giudicato troppo arrendevole verso l'impresa, strategie diverse – dalla riconquista alla fondazione ex novo – ma che vedono sempre il sindacato stesso strumento irrinunciabile della lotta sul terreno economico. Al contrario, una di quelle minoranze in precedenza citate, cioè il nostro partito, già nell'immediato secondo dopoguerra, sulla base di un'analisi marxista del capitalismo contemporaneo, definiva il sindacato come un organismo ormai integrato nei meccanismi capitalistici di gestione della forza lavoro e dunque, come tale, inservibile ai fini della difesa classista delle condizioni di lavoro, così come non era più possibile considerarlo – ammesso che lo fosse mai stato – cinghia di trasmissione del partito rivoluzionario. La lotta economica rimaneva – e rimane – fondamentale, oltre che banalmente necessaria, ma gli strumenti diventano altri rispetto alla tradizione sindacale, quelli prodotti dalla spontaneità della lotta sorta direttamente dai problemi immediati della classe, magari sfuggita al controllo dell'apparato sindacale, strumenti innervati dalla presenza politica delle minoranze sopracitate (23).
Due parole, infine, su quelle interpretazioni dei cicli economici e, in particolare, della crisi. Anche e non da ultimo per questo aspetto, il marxismo, in quanto critica dell'economia politica, per lunghi decenni è stato abbondantemente contaminato con teorie di stampo borghese, una fra tutte il keynesismo. Dunque, molti, che in qualche modo si richiamano a Marx, non sanno spiegare o non fino in fondo, l'origine della crisi che morde l'economia mondiale né tanto meno sono in grado di suggerire “cure” che non siano la riproposizione delle vecchie ricette keynesiane. A questo proposito, dal nostro punto di vista il libro del consiliarista tedesco-americano Paul Mattick, Marx e Keynes (24), rimane una pietra miliare della critica dell'economia politica del capitalismo contemporaneo - nonostante alcuni aspetti quanto meno discutibili (la definizione dell'URSS, per esempio) - e delle ricette economiche di stampo riformista che additano nell'intervento dello stato la via d'uscita dalla crisi, come se i problemi strutturali in cui è caduto il processo di accumulazione potessero essere risolti con la buona volontà della politica democratica. In realtà, è proprio ricorrendo agli strumenti dell'analisi marxiana, senza “aiutini” esterni, che è possibile capire come, da qualche decennio a questa parte, l'economia mondiale sia alle prese con quella che Marx definiva la legge più importante del modo di produzione capitalistico, vale a dire la caduta del saggio medio di profitto (25).
Le grandi trasformazioni cui assistiamo da una quarantina d'anni in qua, di cui la svalorizzazione della forza lavoro e l'ipertrofia della speculazione finanziaria sono tra le componenti principali, rappresentano la risposta che il capitale sta dando alla propria crisi, nel tentativo di rianimare un tasso di profitto insufficiente a rilanciare, a livello globale, un nuovo e reale processo di accumulazione, dopo la fine dei “trenta gloriosi”, vale a dire il boom capitalistico post-bellico, nei primi anni Settanta del secolo passato. La degradazione delle condizioni di esistenza della forza lavoro, sottomessa in forme diverse al capitale (per esempio, il finto lavoro autonomo) è la conferma, una volta di più, della
legge assoluta, generale dell'accumulazione capitalistica [ossia] che nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell'operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare (26).
Allo stesso modo, il ruolo abnorme assunto oggi dal parassitismo finanziario, vero direttore d'orchestra dell'economia planetaria, è la riprova che il capitalismo cerca di superare le proprie difficoltà saltando il processo produttivo, là dove viene estorto il plusvalore, unico carburante del modo di produzione capitalistico, illudendosi e illudendo che il denaro possa creare denaro, ricchezza, senza fare i conti con quella che viene definita l'economia reale.
Prendere atto dell'oggettività delle leggi di funzionamento del capitalismo non significa accettarle come se fossero leggi fisiche, e non umane, rinchiudersi in una qualche “biblioteca” dalle cui finestre osservare con distacco le convulsioni di quanto succede “là fuori”, ma solamente, per chi voglia cambiare il mondo in meglio, adattare i mezzi ai fini, dotarsi di una cassetta degli attrezzi adeguata senza scadere, da un lato, in un rassegnato fatalismo o, dall'altro, in un attivismo non di rado generoso, ma votato alla sconfitta. Solamente con quell'attrezzatura si potrà fermare la barbarie che un modo di produzione antistorico sta riversando sull'umanità e su ogni essere vivente, per passare finalmente dalla preistoria alla storia.
Celso Beltrami(1) Roman Rosdolsky, Genesi e struttura del Capitale di Marx, Bari, Laterza, 1971.
(2) Usiamo questo termine, “marxismo”, per comodità di sintesi, memori che Marx rifiutava le personalizzazioni e, dunque, il termine stesso.
(3) Naturalmente, Engels, quale “esecutore testamentario” dei lavori incompiuti di Marx, può aver commesso degli errori, ma è altrettanto vero che nessuno è in grado di ricostruire fino in fondo “l'atmosfera” di un rapporto strettissimo pluridecennale, dove una sola espressione, uno scambio di poche parole su questa o quella questione potevano essere più esplicativi di un discorso: sono “sfumature” che nessuna ricerca filologica, anche la più rigorosa, potrà mai stabilire.
(4) Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Roma, Newton Compton, 1973, p. 28.
(5) Per un'analisi del pensiero gramsciano che si discosta notevolmente dalle interpretazioni correnti, vedi Onorato Damen, Gramsci tra marxismo e idealismo, Milano, Edizioni Prometeo, 1989 e Christian Riechers, Gramsci e le ideologie del suo tempo, Genova, Graphos, 1993.
(6) Antonio Gramsci, La rivoluzione contro il Capitale, Avanti!, 24 dicembre 1917, in La Città futura. 1917 - 1918, Torino, Einaudi, 1982, pp. 513-514. Non sappiamo se Gramsci conoscesse la prefazione di Marx ed Engels all'edizione russa del Manifesto del partito comunista, 1882 (seguiamo l'edizione Einaudi, 1974, p. 311), dove si dice esplicitamente, a proposito di presunti schematismi naturalistici: «Si affaccia ora il problema: la comunità rurale russa, questa forma in gran parte disciolta, è vero, della originaria proprietà comune della terra, potrà essa passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera, o dovrà attraversare prima lo stesso processo di dissoluzione che trova la sua espressione nella evoluzione storica dell'occidente? La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino, allora l'odierna proprietà comune russa potrà servire di punto di partenza per una evoluzione comunista». Nel frattempo, erano passati altri trentacinque anni, durante i quali la penetrazione del capitalismo nell'impero zarista era andata molto avanti e aveva inglobato il paese in quella catena imperialistica mondiale che trovò proprio in Russia il suo punto di rottura.
(7) Amadeo Bordiga, Gli insegnamenti della nuova storia, Avanti!, 16 febbraio 1918, ma incompleto a causa della censura, e, integrale, su Stato Operaio, del 27 marzo e 3 aprile 1924; ora in Storia della sinistra comunista, volume 1 bis, Milano, Edizioni il programma comunista, 1966.
(8) Per una rassegna del dibattito sull'URSS, vedi Arturo Peregalli e Riccardo Tacchinardi, L'URSS e i teorici del capitalismo di stato, Manduria – Roma – Bari, Lacaita, 1990, ristampato con un'antologia di testi dalle edizioni Pantarei, Milano, nel 2011. Opera pregevole per molti aspetti, anche se la “Sinistra italiana” è di fatto ridotta al solo Amadeo Bordiga e al bordighismo. Interessante, ma vale il discorso appena fatto, anche Bruno Bongiovanni (a cura di), L'antistalinismo di sinistra e la natura sociale dell'URSS, Milano, Feltrinelli, 1975. Per quanto ci riguarda, la critica alla degenerazione staliniana della rivoluzione bolscevica è uno dei principali elementi caratterizzanti il nostro partito e rimandiamo dunque all'abbondantissima pubblicistica, in parte presente anche sul sito, oltre che nel libro Contro venti e maree. Valga, uno per tutti, l'articolo pubblicato su Prometeo (clandestino) n. 2, 1943, di Onorato Damen, La Russia che amiamo e difendiamo, sul nostro sito.
(9) Nel 1928, a Pantin, sobborgo di Parigi, gli esuli della sinistra del Pcd'I fondarono la Frazione di sinistra del partito, con lo scopo di continuare la lotta contro l'involuzione staliniana dentro e fuori l'Internazionale.
(10) Friedrich Engels, Antiduhring, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 297.
(11) In effetti, anarchici e poumisti (militanti del POUM, Partido obrero de unificaciòn marxista) non lo svilupparono fino in fondo, anzi, lo bloccarono, coerentemente con la loro impostazione politica, dunque pratica, sulla e nella guerra civile. Gli anarchici, che non mancano mai di impugnare la rivolta di Kronstadt del 1921 come prova (presunta) dell'autoritarismo congenito nel marxismo, quasi mai si guardano allo specchio, a proposito del ruolo controrivoluzionario assunto da gran parte dell'anarchismo spagnolo (almeno, quello prevalente) nella Spagna del 1936-1939. Su Kronstadt e il 1921, vedi leftcom.org
(12) Vedi l'articolo di Pietro Secchia, dirigente del PCI, “Il sinistrismo maschera della Gestapo”, in La nostra lotta, n. 6, dicembre 1943.
(13) SI chiamavano Fausto Atti e Mario Acquaviva, operanti rispettivamente nel bolognese e a Casale Monferrato, in Piemonte. Per informazioni più dettagliate vedi leftcom.org
(14) Bernstein può essere considerato il progenitore teorico di gran parte del riformismo novecentesco, anche di chi esibiva un linguaggio apparentemente rivoluzionario. La frase “il fine è nulla, il movimento è tutto” si adatta come un guanto, per esempio, a uno dei massimi teorici dell'operaismo italiano, corrente generalmente considerata, del tutto a torto, come una delle più geniali e feconde riscoperte del marxismo avvenute nella seconda metà del secolo scorso. Nello specifico, ci si riferisce a Mario Tronti, esponente della rivista Classe operaia e maitre à penser dell'operaismo suddetto (benché mai abbia abbandonato il PCI), che, in un libro ai tempi famoso (Operai e capitale, Einaudi, 1971, p.288), scriveva, riferendosi alla classe operaia statunitense durante la seconda guerra mondiale: «Si arriva alla guerra con un rapporto di forze violentemente spostato a vantaggio della classe operaia [?!] la soluzione alla crisi ha dato potere agli operai, ne ha tolto ai capitalisti. La mossa che segue, la richiesta che allora si impone è anch'essa logica e coerente. Non più la parola d'ordine antiquata e socialista della lotta alla guerra, ma la rivendicazione di classe più moderna e sovversiva che si potesse concepire: partecipazione operaia ai profitti di guerra». Non guerra alla guerra, atteggiamento terribilmente fuori moda, ma partecipazione operaia al massacro capitalista, in veste di avvoltoio che si ciba delle carni dei suoi fratelli di classe, annientati sui e dietro i fronti del mondo interno: questo è l ruolo che veniva assegnato, esaltandolo, alla classe operaia!
(15) In Marx ed Engels, Il Partito e l'Internazionale, Roma, Edizioni Rinascita, 1948, p. 256, riprodotta anche in Karl Marx, Critica al programma di Gotha, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 60. Quanto fosse profetica, drammaticamente, questa ironia, lo si vedrà nel gennaio del 1919, quando il partito socialdemocratico tedesco istigherà apertamente all'assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, scatenando contro gli operai rivoluzionari i protonazisti Freikorps, che stroncarono nel sangue l'insurrezione spartachista, provocata ad arte dal governo socialdemocratico per avere così il pretesto della sua repressione.
(16) Marx, Critica... cit., p. 64. Notare che si parla di fine catastrofica del capitalismo, certamente con l'apporto determinante del proletariato rivoluzionario.
(17) Circolare n. 3179 del 29 aprile 1946, citata in Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia, Piacenza, edizioni “quaderni piacentini”, 1976, p. 98.
(18) Sul debito pubblico, vedi anche, tra i numerosi scritti di Marx, Le lotte di classe in Francia e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.
(19) Marx ed Engels, Indirizzo..., cit, ne Il Partito e l'Internazionale, cit., p. 98, oppure in Marx – Engels, Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 372.
(20) Lenin, Stato e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 59.
(21) Negri, cit., p. 120; ma tutto il saggio è costellato di passi del genere. Per una critica più generale a Negri, vedi Mauro Stefanini, Criticando Negri. Per una critica marxista del pensiero di Antonio Negri, Milano Edizioni Prometeo, 2006, in www.leftcom.org e Anonimo Milanese, Due note su Antonio Negri, Milano, Edizioni Varani, 1985.
(22) Giusto per citare solo alcuni aspetti, secondo gli autori che compaiono nelle collane suddette, non solo l'URSS era un paese socialista, ma per alcuni di essi lo stesso movimento cooperativo - le Coop “rosse”, per intenderci - sarebbe un'espressione del modo di produzione socialista. Infatti, Sergio Bologna così scriveva: «L'esperienza italiana nella crisi è trasparente: si è affermato un modo di produzione socialista, a maggior livello di cooperazione sociale, che ha dato spessore produttivo all'erogazione di credito. Se la Lega nazionale delle cooperative è oggi il terzo gruppo italiano per fatturato...», da Amo il rosso e il nero, odio il rosa e il viola, in Collettivo di “Primo Maggio”, a cura di Sergio Bologna, La tribù delle talpe, Milano, Feltrinelli, 1978, p.150. Che cosa c'entri il socialismo col denaro e le funzioni ad esso connesse è un mistero.
(23) Vedi L'evoluzione del sindacato e i compiti della Frazione sindacale comunista internazionalista, Relazione del C.E del Partito comunista internazionalista in vista del congresso nazionale, in Battaglia comunista, n. 6, 1948, ora anche in 1943 – 2013. Settant'anni contro venti e maree. Storia documentaria del partito Comunista Internazionalista dalle origini ai nostri giorni, Milano, Edizioni Prometeo, 2014, www.leftcom.org In questo libro sono raccolti documenti tra i più importanti sulla questione sindacale e le lotte rivendicative, questione rispetto alla quale i nostri critici male informati, e spesso in malafede, ci attribuiscono posizioni che non solo non abbiamo mai sostenuto, ma che riteniamo sbagliate. Per non appesantire la lettura di questo articolo, rimandiamo dunque alla sezione “sindacale” del libro o al nostro sito, dove possono essere reperiti.
(24) Paul Mattick, Marx e Keynes, Bari, De Donato, 1972.
(25) Su questa questione, centrale dal punto di vista teorico-politico, abbiamo prodotto molti lavori, pubblicati anche sul sito; qui, a titolo d'esempio, rimandiamo all'ultimo articolo organico uscito sull'argomento: leftcom.org
(26) Karl Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica, Libro I, VII sezione, capitolo 23°, Torino, Einaudi, 1975, pp. 794- -795.
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