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Home ›Elezioni turche: battuta d'arresto per il “sultanato” imperialista?
Le elezioni politiche tenutesi in Turchia il 7 giugno hanno segnato una battuta d'arresto per le mire del presidente Erdogan, leader maximo del partito islamista “moderato” AKP, che governa il paese da oltre dieci anni. Forte di un consenso elettorale che sembrava inarrestabile – nel 2011 aveva sfiorato il 50% – Erdogan puntava a riformare la costituzione in senso fortemente autoritario, cioè ad accrescere i poteri del presidente, quindi a imbavagliare le opposizioni, di qualunque genere, accelerare l'islamizzazione della società, mettere fine (a suo modo) alla pluridecennale questione kurda e, soprattutto, rafforzare il ruolo di brigante imperialista d'area della Turchia, in una zona che occupa un posto di primo piano nello scacchiere dell'imperialismo mondiale, per ciò che riguarda gli snodi geografici del trasporto e della commercializzazione del petrolio.
Qualcosa, però, è andato storto e lo scenario politico turco si complica, poiché nessun partito può governare da solo e coalizioni eventuali risultano, allo stato attuale, molto problematiche. La cosa, però, era nell'aria, era prevista una prestazione meno brillante dell'AKP, così come ci si aspettava che il Partito democratico del popolo (HDP), di sinistra e filo-kurdo, superasse la soglia di sbarramento del 10%, ma i risultati hanno superato le previsioni. L'AKP è arretrato al 41% (che rimane comunque un livello elevato) e l'HDP è arrivato al 13,1%, rastrellando nelle città curde sino il 90% dei voti e piazzandosi al secondo posto a Istanbul.
Quali sono stati i fattori che hanno messo in pausa, per il momento, le ambizioni del presidente?Senza addentrarci in un'analisi approfondita, se ne possono ipotizzare alcune. Certamente, le proteste di Gezi Park di due anni fa e la violenta repressione che ne è seguita hanno tolto un po' di brillantezza all'immagine del regime, rendendo ancor più intollerabile, per una parte della popolazione, l'autoritarismo fascistoide (1) e bigotto del governo, che negli ultimi anni ha progressivamente ristretto od ostacolato i già problematici spazi di democrazia borghese e il laicismo, pilastro tradizionale dello stato turco moderno. Non per niente, tra i cavalli di battaglia dell'HDP c'è attenzione ai “diritti civili” di gay, lesbiche, tansgender, cose che, come si sa, fanno venire violenti attacchi di fegato al fondamentalismo religioso di qualunque specie. Se questo è un aspetto che ha giocato contro l'AKP e a favore dell'HDP, ce n'è un altro, più importante, crediamo, che può spiegare il successo di quest'ultimo e l'insuccesso, nei fatti, del primo: la svolta, se così si può dire, di Ocalan, capo del partito “marxista” (cioè stalinista) curdo PKK, in galera da molti anni, che si è “convertito” a una linea politica “libertaria”, “democratica”, oltre la lotta armata quale unica via per conquistare, se non l'indipendenza, almeno una forte autonomia dell'area curda. Da qui, una strategia evidentemente invisa all'AKP, se, come si sospetta, ha compiuto, tramite i servizi segreti, l'attentato dinamitardo del 5 giugno al comizio di Demirtas, capo dell'HDP, a Diyarbakir, provocando quattro morti e numerosi feriti. L'obiettivo, ipotizzato, era quello di provocare una reazione violenta del partito filo-kurdo, cosa che, almeno finora, non è avvenuta, anzi, il risultato è stato quello di accrescere i voti per l'HDP.
C'è poi un ennesimo elemento controverso, cioè la libertà di espressione. In pratica, il direttore di Chumurriyet, uno dei principali quotidiani turchi, rischia l'ergastolo perché ha pubblicato un video in cui si vedono uomini dello stato che vendono armi ai miliziani di al-Nusra – una delle formazioni islamiste che combattono Assad in Siria. Rispunta quindi la questione del rapporto della Turchia con la galassia dell'integralismo islamico e quindi, con l'ISIS, responsabile della morte di centinaia, se non migliaia, di curdi nell'offensiva condotta per impadronirsi dell'area kurda in Iraq, ricca di petrolio, e in Siria. E' anche grazie a quel petrolio, venduto sottobanco a clienti poco schizzinosi, che i tagliagole dell'ISIS possono comprare armi e rifornimenti di vario genere: tutto il petrolio commercializzato dall'Isis passa via camion dal compiacente territorio turco. Si sa, poi, che tra quei poco schizzinosi clienti c'è proprio Erdogan, il quale punta a costituire nelle regioni già appartenenti all'impero ottomano, un'area sotto il controllo di un rinascente e più moderno imperialismo turco. Da qui, il non intervento contro l'ISIS a Kobane, anzi, gli ostacoli frapposti all'invio di aiuti alla città assediata, quale manifestazione ulteriore, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto il regime di Erdogan cerchi di muovere le sue pedine per indebolire, oltre ai curdi, gli stati avversari della regione (Assad, l'Iran e i loro patrocinatori, Russia e Cina), ma persino, da un certo punto di vista, alleati storici come gli USA, sostenitori della borghesia curda: tra banditi, c'è sempre la tentazione di mettersi in proprio e pigliarsi tutto il bottino, senza spartirlo con nessuno. Per cui, fintanto che l'ISIS combatte contro Siria, Iran e contro i kurdi iracheni il governo di Ankara può chiudere anche due occhi, l'importante è che non si dia fiato alle ambizioni indipendentistiche, o soltanto autonomistiche, del Kurdistan turco che ne sconvolgerebbe i piani imperialistici dell'area.
Un altro elemento ancora che può spiegare l'arretramento dell'AKP, potrebbe essere, in una certa misura, la corruzione spudorata che pervade questo partito, il quale invece pretende di essere, secondo il più classico cliché dell'ipocrita puritanesimo religioso, il moralizzatore della vita pubblica e privata del popolo turco.
Accanto ai fattori elencati sinteticamente, probabilmente ha giocato un ruolo la frenata decisa dell'economia turca, cresciuta, fino a due-tre anni fa, a ritmi “cinesi” dell'8-9% annuo. La crescita è stata tanto sostenuta che oggi, quella turca, è la sedicesima economia mondiale (così dicono le statistiche ufficiali). Il tanto lodato sviluppo è basato su fattori speculativi (l'immobiliare, i giochi sui tassi di interesse praticati dalle banche centrali del pianeta, per esempio), sullo stimolo artificiale dei consumi (scenari già visti...), spettacoli di prestidigitazione economica molto in voga nel capitalismo “neoliberista”, oggi in affanno pure in Turchia, ma anche e non da ultimo sugli incentivi che lo stato ha messo a disposizione dei capitali esteri, da quelli fiscali a una legislazione sul lavoro che non trascura niente nel mettere i bastoni tra le ruote alle lotte dei lavoratori, benché ufficialmente la classe operaia (intesa in senso lato) possa godere (poco) di alcuni “diritti” in tal senso.
Il lavoro informale, cioè in nero, con scarsa o nulla copertura pensionistico-sanitaria, interessa, si dice, il 30% dell'economia (2); inoltre, le aziende – di cui molte appartenenti al capitale straniero, accorso in Anatolia attratto, appunto, da aiuti statali molto generosi – sono, in generale, posti molto pericolosi per la classe lavoratrice, tanto che la Turchia, con 1886 morti nel 2014, è al terzo posto nel mondo per “incidenti” sul lavoro. È banale ricordare che la sicurezza, per il padronato, costituisce un costo che evita volentieri, almeno fino a che la regolarità del processo di estorsione del plusvalore, cioè del processo produttivo, non rischia di essere compromessa. È un atteggiamento padronale per il quale Erdogan ha la massima comprensione, dato che se la cava, al massimo, con un po' di più di compassione – in questo caso islamica – verso le vittime del profitto. Giusto un anno fa, di fronte all'ennesima strage di minatori – circa trecento morti nella miniera di Soma – aveva suscitato rabbia dichiarando che la morte in miniera è una cosa normale, che i minatori devono accettare, ne consegue, come se fosse un evento naturale o una manifestazione dell'imperscrutabile volontà divina, ma, aggiungiamo noi, dell'unico vero dio che domina il mondo: il profitto.
CB(1) Che però è una caratteristica storica dello stato turco.
(2) Alberto Negri, Se svanisce il boom del Bosforo, Il Sole 24 ore, 10 giugno 2015.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #06-07
Giugno-luglio 2015
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