I “Nostri” ci sono, manca qualcosa d'altro

Una recensione al libro di Clash City Workers “Dove sono i nostri”

Non vi sono due diverse lotte di classe della classe operaia, una economica ed una politica, ma vi è una sola lotta di classe, che in pari tempo è diretta a limitare lo sfruttamento all'interno della società borghese e a sopprimere questo sfruttamento insieme con la società borghese (1).

Introduzione

Nello scorso numero di Prometeo (2) avevamo accennato a un libro, uscito nella primavera, che ha suscitato grande interesse, tanto che nel giro di pochi mesi si è arrivati alla terza edizione, mentre quasi non si contano le recensioni, in genere positive, se non entusiastiche, pubblicate in rete o sulla carta stampata. Il libro, “Dove sono i nostri(3), scritto dal collettivo Clash City Workers (CCW), si propone di tracciare un quadro, nel modo più dettagliato possibile, della forza lavoro in Italia. L'intento, lodevole, non è quello di fare della semplice sociologia, men che meno dell'accademia, ma di fornire uno strumento militante, cioè che possa contribuire alla lotta contro il sistema capitalistico. Per questo, viene riportata una massa notevole di dati sui vari comparti in cui si colloca il lavoro dipendente, indipendente – compreso quello formalmente autonomo – e sulla disoccupazione. Sono numeri di per sé non nuovi, ma il libro ha il pregio di riunirli in un unico contenitore, pronti all'uso di chi, appunto, se ne voglia servire per la sua battaglia anticapitalistica, comunque venga intesa.

Non è il solo aspetto pregevole della ricerca: un altro, non secondario, è che i compagni e le compagne del collettivo intendono mettere al centro del discorso (e della prassi) il rapporto capitale-forza lavoro, in quanto punto di partenza obbligato per chiunque si ponga in maniera antagonistica nei confronti di questa società. La polemica, esplicita, è contro quelle teorie che, considerando superata la legge del valore marxianamente intesa (4), credono di aver individuato in nuove figure sociali dai contorni quanto meno confusi – le moltitudini, il lavoro autonomo di seconda generazione, il cognitariato ecc. - il soggetto portatore di un nuovo modo di vivere, oltre il capitalismo classicamente inteso, che invece sarebbe scomparso. Per capirci, l'area di quelli che una volta si chiamavano Disobbedienti e circonvicini, figli legittimi dei contorcimenti teorici di Toni Negri e di altri accademici di matrice operaista. Bene fa CCW a sottolineare, cifre alla mano, la scarsa legittimità – per non dire inconsistenza – delle teorizzazioni secondo le quali il mondo del lavoro autonomo (e precario) sarebbe popolato maggioritariamente da professionisti dell'high tech, dell'informazione, della “creatività” in generale, quando, invece, i lavori a bassa o nulla qualificazione, “brutti, sporchi e cattivi” pullulano anche nel terziario detto avanzato. Non è poco, per un collettivo che, se abbiamo capito bene, almeno in parte proviene dall'ambiente universitario, territorio molto insidioso, percorso in lungo e in largo dalle teorizzazioni più disparate, spesso all'apparenza interessanti, persino affascinanti ma, in genere, variazioni più o meno originali di un unico spartito, quello dell'ideologia borghese.

Non è poco, ma, dal nostro punto di vista, ancora largamente insufficiente, se si vuole costruire un percorso coerentemente anticapitalistico. Proprio perché riconosciamo il valore dello sforzo compiuto da CCW, di più, la sincerità del loro intento, di cui condividiamo il fine, non possiamo unirci acriticamente all'entusiasmo che quei compagni/e hanno suscitato con la loro pubblicazione. Infatti, in essa emergono delle debolezze politiche di fondo che rischiano di “declassare” il libro a mera sociologia – proprio ciò che CCW vuole evitare – di renderlo inutilizzabile, se non peggio, come supporto per la liberazione dalle catene della borghesia. Si tratta di limiti teorico-politici oggi, purtroppo, molto diffusi, anzi, imperanti quasi senza contrasti nell'area della sinistra extra-istituzionale, e non solo. Limiti espressione dell'arretramento che, per usare la felice espressione del titolo del libro, i “Nostri” hanno subito e stanno subendo da molti decenni a questa parte, espressione di sconfitte storiche, che hanno inevitabilmente segnato in profondità la vita politica della classe e di chi aspira a esserne l'avanguardia cosciente.

Mettere a fuoco la fotografia della classe: d'accordo, ma con le lenti giuste

L'impressione generale che si riceve dalla lettura è che, dal punto di vista teorico-politico, il libro sia un condensato delle eredità che la controrivoluzione staliniana e la socialdemocrazia storicamente intesa hanno depositato nel movimento operaio, tanto che di fronte ad alcune affermazioni si potrebbe sentire il retrogusto di quell'economicismo contro cui l'ala rivoluzionaria della classe operaia russa, il bolscevismo, aveva lottato oltre cent'anni fa. Benché questo accostamento ci possa esporre alla facile, quanto inconsistente, accusa di “talmudismo leninista”, per così dire, non esitiamo a farlo, anche e non da ultimo perché gli autori sembrano alludere, tra le righe, al “Che fare?” di Lenin, sebbene, a nostro avviso, più nella sua volgarizzazione (“talmudica”) effettuata da un certo terzinternazionalismo decadente, che dallo “spirito”, cioè dalla sostanza reale della battaglia di Lenin contro l'economicismo del suo tempo, o di ogni tempo. Non solo, ma come avevamo già osservato (Prometeo n.11). L'analisi della “classe operaia” italiana (immigrati compresi, va da sé) non prende in considerazione le tendenze generali della forza lavoro in rapporto all'accumulazione del capitale e, nello specifico, della crisi, che sta colpendo il sistema economico mondiale. A nostro parere, è una mancanza grave, che CCW condivide con pressoché tutta l'area della “sinistra antagonista”, anzi, per certi aspetti, anche con la sinistra istituzionale. È grave perché, non riconoscendo le tendenze di fondo del capitalismo, viene meno quella base oggettiva sulla quale costruire strategia e tattica anticapitalistiche o, per meglio dire, rivoluzionarie. Si apre in tal modo la strada al soggettivismo, che facilmente può diventare velleitarismo: tradotto, nella credenza – per noi illusione – che bastino volontà (generosa) e organizzazione (di che tipo?) per contrastare il sistema. Volontà e organizzazione sono indubbiamente elementi indispensabili, ma se non fanno i conti con le condizioni in cui agiscono si rischia fortemente di pestare acqua nel mortaio, spalancando le porte a scoraggiamento e rassegnazione, sgraditi ma inevitabili compagni di ogni sconfitta, soprattutto se conseguenza di presupposti viziati alla radice. L'assenza di una presentazione complessiva dello stato odierno dell'economia (se non per rapidi cenni qui e là) e delle leggi generali dell'accumulazione colpisce tanto più perché “Dove sono i nostri” non vuole basarsi su vuote declamazioni, bensì su dati oggettivi: ma cosa c'è di più oggettivo delle strutture portanti di una determinata formazione sociale? È un modo di porsi non nuovo, nella storia del movimento operaio, che ha attraversato trasversalmente frange della sua ala rivoluzionaria – oltre che e soprattutto riformista – le quali, non cogliendo le implicazioni dialettiche crisi-rivoluzione, accusavano di determinismo economico deteriore chi, invece, riteneva che le possibilità di una trasformazione radicale dell'esistente non potessero (e non possono) prescindere da un inceppamento generalizzato del ciclo di accumulazione. Senza dilungarci su quelle posizioni (5), è significativo che CCW apra il suo lavoro con una considerazione che la dice lunga sulle basi teoriche da cui muove:

Ci sembra di averle provate tutte in questi anni di crisi […] Scioperi, volantinaggi, picchetti, occupazioni. Abbiamo tirato su comitati e coordinamenti... Qualcosa ha funzionato – siamo riusciti a impedire qualche licenziamento, ad avere la cassa integrazione, a rallentare i processi di “riforma” – ma complessivamente non siamo riusciti a invertire il segno di questa crisi: la stiamo ancora continuando a pagare (6).

Ora, prescindendo dalla valutazione della cassa integrazione (7), quella riflessione tradisce, dal nostro punto di vista, un disorientamento, prodotto inevitabilmente dall'inadeguata strumentazione analitica con cui si guarda la crisi, le sue ricadute sulla classe e sullo “stato dell'arte politico” della classe stessa. Non è mai accaduto, mai, in due secoli abbondanti di capitalismo, che il proletariato sia riuscito a invertire il corso della crisi e a farla pagare alla borghesia, anche quando disponeva di organizzazioni e di “istituzioni” (Case del Popolo, Camere del Lavoro, circoli, ecc.) incomparabilmente più forti (8) di oggi. Per definizione, il capitale fa pagare la crisi al proletariato e i conti sono tanto più salati quanto più la crisi è profonda. Chi ha cercato di farla pagare al capitalismo stesso, non mettendo radicalmente in discussione la sua esistenza, ben che vada ha ottenuto successi, magari appariscenti ma passeggeri, scontati poi con interessi da usura subito dopo. Non c'è un solo esempio storico che dica il contrario e chi, per esempio, tira in ballo esperienze quali il New Deal rooseveltiano, non sa di cosa sta parlando: a parte il diverso contesto storico, a parte i limitati, benché reali, miglioramenti economici per un'area consistente della forza lavoro, nel “pacchetto welfare” e nel riassorbimento parziale della disoccupazione era compreso un biglietto per la guerra mondiale, con tutto quello che ciò ha voluto dire (spargimento di sangue al fronte, sfruttamento intensificato in patria). L'unico modo per far pagare il conto ai padroni è farla finita col loro sistema, non ci sono santi: pensare altrimenti è segno di ingenuità politica disarmante.

Chiunque abbia letto qualcosa del nostro materiale e non giudichi con malevolenza preconcetta (9) sa bene che non lo riteniamo un percorso facile, che abbia l'arrivo a portata di vista, né che possa saltare le “tappe di avvicinamento” politico al traguardo, vale a dire le necessarie lotte di difesa (e poi d'attacco) sul posto di lavoro e nel territorio. No, diciamo che fuori da quella strada ci si illude e illude di aver trovato una scorciatoia, una concretezza che invece portano al niente, neanche ai risultati immediati che i cosiddetti pratici e concreti inseguono. Noi non sosteniamo affatto che non valga la pena di lottare per obiettivi immediati, persino minimali, chi lo dice è in malafede o non ci conosce, ma che l'esprimersi della classe, a ogni livello, deve essere indirizzato coerentemente verso la prospettiva della rottamazione del capitalismo. Non altro. Lasciata momentaneamente in sospeso la questione di chi o che cosa debba dare quell'indirizzo, è forse utile ribadire, a costo di annoiare, che se il quadro teorico da cui si procede è confuso o parziale, poi risulta facile perdersi o finire fuori strada.

Rientra in quest'ultima ipotesi la valutazione complessiva sullo stato della lotta di classe di parte proletaria, che lascia quanto meno perplessi, per non dire disorientati. A più riprese, infatti, si afferma che, in Italia, sui posti di lavoro ci sarebbe una «conflittualità enorme, non solo latente, ma ormai manifesta» (10) e il concetto viene ribadito a più riprese, sottolineato con aggettivi quali “terribile”, “endemica”, “diffusa”, riferiti alla suddetta conflittualità (11). Ora, chiunque abbia o abbia avuto esperienze da lavoratore (lavoratrice) salariato-subordinato, sa che sul posto di lavoro spesso c'è una “guerriglia” continua con l'impresa e con i suoi capi per strappare un minuto di riposo qui, una pausa di pochi secondi là, per schivare incarichi sgraditi e così via. Si tratta di comportamenti diffusi, anche tra i ruffiani del padrone, ma una cosa è registrare questo atteggiamento, un altro scambiarlo per conflittualità “enorme” e “terribile”. Indubbiamente, ci sono diversi episodi che vedono i lavoratori lottare – guidati dal sindacato – per opporsi a licenziamenti, chiusure o delocalizzazioni aziendali (come rileva lo stesso CCW), ma da lì a dire che queste lotte difensive (12) siano in grado di impensierire, per la loro “terribilità”, la borghesia, ce ne corre parecchio. Forse non è un caso che in un libro così ricco di dati, manchino proprio quelli sull'andamento degli scioperi negli ultimi decenni, per altro facilmente reperibili in “rete”. Si vedrebbe immediatamente che gli scioperi, dopo il picco di fine anni '60-primi '70 del secolo scorso, cominciano una curva discendente per poi precipitare letteralmente dagli anni '80. Da notare che non è un fenomeno solo italiano, ma almeno “occidentale”. È vero che a pagina 169 si accenna a un «generale affievolimento del movimento operaio avuto negli ultimi decenni», ma si tratta appunto di un rapido accenno, che non viene approfondito come meriterebbe, anzi, di fatto negato, prima e dopo. Per noi, più che di “affievolimento”, si dovrebbe parlare, purtroppo, di mutismo quasi totale della classe, annichilita dal suo avversario.

Se le cose, dunque, stanno così, perché presentare un quadro della situazione opposto a quello reale? Non ci sfiora nemmeno l'idea che gli autori siano stati spinti a un simile falso dalla disonestà intellettuale, no: il punto è che essi utilizzano uno strumentario ideologico in senso marxiano, vale a dire che dà una rappresentazione rovesciata del mondo. È un lascito dell'ideologia operaista, secondo la quale la classe operaia assumerebbe una “postura” permanentemente e, soprattutto, attivamente antagonista al capitale, tanto da provocarne la crisi, salvo poi l'incapacità di spiegare come la classe stessa non sappia, appunto, rispondere in maniera adeguata all'offensiva borghese, quale risposta alle difficoltà di accumulazione, subendo rovesci drammatici.

In questo quadro teorico-analitico non è quindi sorprendente che i compagni e le compagne di CCW cadano pesantemente nel riformismo più tradizionale, senza accorgersi delle contraddizioni in cui s'impiglia il loro discorso. Per esempio, anche sulla base di un malinteso rapporto – su cui ritorneremo – tra forza lavoro e avanguardie politiche, affermano che queste ultime devono sostenere la richiesta di un piano di edilizia pubblica avanzata, dicono, dagli operai edili (13), per riassorbire la disoccupazione che si è abbattuta sulla categoria dal 2008, o, per quanto riguarda i lavoratori delle telecomunicazioni, appoggiare la ri-pubblicizzazione della Telecom, per lo stesso motivo. Siamo sempre lì: la tendenza generale del capitalismo di questi anni è stata quella di cementificare in maniera sfrenata, ma a scopo per lo più speculativo, una tendenza assecondata in maniera decisiva dagli Stati, in cui si è ridotto ai minimi termini il ruolo di imprenditore edile, a differenza dell'epoca del “Piano Casa” di Fanfani (1949-63), tanto per citare un intervento riformista concreto da parte della borghesia. Erano altri tempi, non per niente, quando il capitale si poteva permettere e incoraggiava il riformismo, almeno fino a un certo punto, perché funzionale per diversi motivi al ciclo di accumulazione ascendente allora in corso. CCW, invece e in numerosa compagnia, ritiene possibile imporre allo Stato una politica economica riformista (perfettamente borghese, per altro) che va in direzione contraria a quella da esso imboccata, senza indicare con quali mezzi, per quali vie il proletariato edile potrebbe conseguire un risultato di tale portata. La borghesia dovrebbe avere, metaforicamente parlando, il coltello puntato alla gola per invertire le sue priorità: ma se il proletariato avesse une simile forza, varrebbe la pena di farla finita con il modo di produzione capitalistico, invece di accontentarsi delle briciole. A volte, CCW sembra avvicinarsi all'individuazione dei meccanismi del capitale, ma quando pare cogliere il senso delle tendenze alla base della fase storica presente, invece di compiere il salto teorico-politico ricade nel keynesismo, come s'è visto, e nel soggettivismo più vieti. Giustamente, riferendosi al declino della tanto decantata economia dei distretti, del “piccolo è bello”, dei padroncini e alle difficoltà crescenti del movimento dei disoccupati organizzati, dice che «Sono le stesse dinamiche dell'accumulazione capitalista a a mettere in crisi questo blocco sociale [i padroncini, ndr]» (14), che hanno tolto ossigeno in particolare alla piccola impresa e, contemporaneamente, ristretto le possibilità di soddisfare in qualche modo le rivendicazioni dei senza lavoro (15). Vero, ma allora perché quei compagni credono che il riformismo sia praticabile per il lavoro dipendente? Per quale motivo, sulla base di cosa la borghesia dovrebbe prendere in considerazione un «generale ripensamento e incremento dell'intervento pubblico»? (16) Di abbagli simili ce ne sono altri nel libro, abbagli che nascono, secondo noi, da una comprensione parziale e non conseguente della natura dello Stato borghese, nonché, ancora una volta, della fase storica in cui viviamo. Per esempio, quasi tutte le considerazioni sul lavoro nero sono ovviamente condivisibili, ma molto “quasi”:

Attaccare collettivamente il lavoro nero non vuol solo dire liberare lavoratori da regimi spesso di vera e propria schiavitù, ma recuperare, attraverso la tassazione, profitti che possono essere messi a disposizione della classe nel suo complesso sotto forma di abbassamento del carico fiscale o di implementazione dei servizi sociali (17).

Davvero i compagni di CCW ritengono possibile che la borghesia italiana (così dipendente da lavoro nero ed evasione fiscale, come giustamente sottolineano) possa accettare di amputare una parte consistente del proprio corpo per beneficiare il proletariato? Certo, in assoluto non si può escludere che di fronte a sommovimenti sociali profondi, di portata ben più vasta delle “lotte” di cui si parla, che rischiano di mettere in pericolo il sistema nel suo complesso, la borghesia possa prendere misure di quel tipo, ma, a parte che all'orizzonte non c'è niente di tutto questo, vale lo stesso discorso fatto per l'ipotetico piano di edilizia popolare.

I soliti scogli: sindacato e partito

Ma le debolezze più vistose, dal nostro punto di vista, del discorso di CCW riguardano due questioni fondamentali della lotta di classe proletaria, vale a dire quella del sindacato e del partito. Qui emergono contraddizioni e persino reticenze che spiegano perché le indicazioni politiche del collettivo rimangano nell'indeterminatezza.

Intanto, gli autori ripropongono lo schema classico fatto proprio, con rare eccezioni, dalla totalità della sinistra extra e anti-istituzionale, il quale prevede la separazione tra lotta sindacale e lotta politica, intese come momenti cooperanti ma distinti del movimento operaio. Tale impostazione, però, pone diversi problemi, anche perché le cose sono molto cambiate dall'epoca in cui quella formula era stata elaborata nonché praticata, indipendentemente dalla sua validità politica e dal suo effettivo funzionamento. Non c'è un'analisi del sindacato che ne spieghi la natura e, dunque, il suo agire nella pratica. Così, si critica il sindacalismo “ufficiale” (quello numericamente maggioritario), se ne denuncia correttamente il ruolo di controllore ed estintore della conflittualità operaia (sempre intesa in senso lato), di cogestore della forza lavoro con il padronato, ma contemporaneamente si parla della sua «incapacità di condurre lotte e ottenere vittorie» (18). Lasciando da parte la faccenda delle mancate vittorie (perfettamente coerente con le debolezze teoriche), l'incapacità è cosa diversa dalla volontà di circoscrivere prima e soffocare poi il muoversi potenzialmente antagonistico della classe – per quanto solo sul piano economico – dietro i reticolati delle compatibilità capitalistiche. Chi legge fatica a capire, allora, che cosa determini la prassi del sindacalismo confederale, dunque, quale atteggiamento assumere nei suoi confronti e diventa quindi ancor meno chiaro, secondo noi, come sia possibile «“recuperare” un'azione sindacale soddisfacente contro i processi di ristrutturazione e contro la flessibilità» (19) nonché contro l'attacco complessivo del capitale, aggiungiamo. L'eclettismo degli autori li porta a considerare possibile una specie di “uso operaio del sindacato”, non solo di quello “di base”, giudicato in blocco positivamente, ma anche di quello confederale e autonomo (vogliono alludere a quello apertamente corporativo?) (20). È un eclettismo, se così si può chiamare, che nasce però da una valutazione precisa del ruolo del sindacato, valutazione che, per noi, si fonda su di un equivoco radicale:

il ruolo del sindacato è fondamentale per la forza lavoro, in quanto esso va a incidere direttamente e sin da subito nella contraddizione capitale/forza lavoro (21).

Non è il ruolo del sindacato a essere fondamentale, ma la contraddizione capitale-forza lavoro: il sindacato, coerentemente con la sua propria natura, non solo l'accetta, ma non può fare a meno di preservarla - la contraddizione - perché se essa venisse cancellata, verrebbe meno la sua funzione di mediatore nella compravendita della forza lavoro (funzione riconosciuta dal collettivo stesso), verrebbe meno la sua esistenza. Come tutti o quasi, CCW ripropone l'equazione sbagliata lotta economica=sindacato, non facendosi sfiorare dall'idea che la lotta economica – questa sì fondamentale – possa esprimersi in altre forme che quelle sindacali. L'esperienza storica ha dimostrato abbondantemente che, in determinate circostanze, la lotta sindacale (e ancor più il sindacalismo), senza implicazioni politiche anticapitalistiche, può essere non solo tollerata, ma addirittura incoraggiata, se non dai singoli capitalisti, dal capitalista collettivo ossia dallo Stato. Che la lotta sindacale (cioè economica) di per sé non abbia necessariamente un significato anticapitalista, che per assumere tale significato occorre che qualcuno glielo dia, facendole fare il salto politico, è patrimonio consolidato del movimento comunista, oggi, però, largamente dimenticato, assieme all'identità dell'operatore di quel salto, cioè il partito rivoluzionario. Questo vale anche per CCW e l'assenza di un discorso chiaro sul partito e sul fine cui devono tendere, a nostro parere, le tanto evocate lotte sul terreno economico, è forse l'elemento più debole dell'analisi. Infatti, come abbiamo detto più indietro, nel libro viene applicato, in qualche maniera, lo schema storico che prevedeva la separazione dei due ambiti di azione, la cui implicazione, valida tanto per la II che per la III Internazionale, prevedeva che il sindacato facesse da cinghia di trasmissione da e per il partito, al quale spettava il compito di inquadrare la lotta economica nella prospettiva del socialismo. Ma se il partito non c'è, se di quest'ultimo non si parla – se non in forme elusive e sfuggenti – a che cosa si agganciano i conflitti “del lavoro” per elevarsi dal contingente, dall'azienda alle prospettive generali di superamento del capitalismo? CCW gira attorno alla questione senza mai affrontarla di petto, forse per non compromettere il proprio “ecumenismo” o forse perché non ha chiaro il rapporto che intercorre tra partito e classe. Nel libro ne parla, sempre di corsa, una o due volte e in termini, a nostro giudizio, sbagliati. Così come non compare mai un accenno a che cosa debba tendere l'antagonismo proletario, quale senso abbia il passaggio, per il collettivo necessario, dal piano sindacale a quello politico, che cosa voglia significare con la parola “politico”. C'è un solo accenno esplicito al percorso rivoluzionario (22) che la classe deve intraprendere, percorso ritenuto maturo già adesso, per quanto riguarda i presupposti oggettivi, enormemente in ritardo, invece, per ciò che concerne la soggettività, la coscienza di classe, ritenute dai compagni, e giustamente, i presupposti, le dotazioni preliminari di cui la classe oggi è sprovvista:

la coscienza di classe è ai minimi storici, la soggettività rivoluzionaria è dispersa; quando esiste non ha consapevolezza di sé, non sa che fare. Questo è il vero scandalo (23).

Sulla prima parte della considerazione niente da dire, sulla seconda parecchio. Così come abbiamo parecchio da eccepire sul modo in cui CCW pensa di andare eventualmente a dare corpo (sempre che ne abbia l'intenzione) al fantasma-partito che aleggia tra le pagine del libro. Perché i compagni del collettivo non hanno affrontato la questione? Per i motivi già accennati e per altri ancora. Uno è che, contrariamente a quanto detto su di una conflittualità diffusa e terribile, la classe sarebbe muta:

D'altronde, per poter rappresentare qualcosa, bisogna che questa si presenti, che compaia sulla scena pubblica, ci dica il suo nome, cosa fa e cosa intende fare (24).

A parte il fatto che il partito, più che rappresentante è strumento politico della lotta di classe proletaria, formato dagli elementi più avanzati del proletariato e dai transfughi delle altre classi, si equivoca, a causa di un'impostazione teorica codista e allo stesso tempo meccanicista-idealista. La classe, anche quando parla poco e male, ci dice sempre qualcosa, perché è espressione materiale di un rapporto sociale antagonistico ininterrotto (finché dura questa società), dunque di uno stato di lotta di classe permanente, solo che in questi decenni “i nostri” le stanno prendendo, senza avere la forza di reagire o di reagire a un livello adeguato alla violenza dell'avversario. Inoltre, il partito non vuole “rappresentare” solo questo o quel segmento di classe, i suoi interessi contingenti, ma quelli generali, dà loro un fine politico proiettato oltre gli aspetti settoriali, diretto al superamento rivoluzionario della presente formazione sociale. Per questo, diciamo che così come la lotta di classe esiste sempre, allo stesso modo deve esistere il partito, indipendentemente dagli alti e bassi della lotta medesima. Se mai, questo condiziona la consistenza numerica dell'avanguardia organizzata, le sue possibilità di intervento, ma è un'altra cosa, sebbene, va da sé, di importanza primaria. Non solo. È scontato che il partito sia espressione del proletariato, delle sue aspirazioni, di “cosa intende fare”, ma non immediatamente. Il partito, che non è un corpo estraneo alla classe, né il burattinaio politico di una marionetta sociale (il proletariato), da essa è alimentato, ma in maniera dialettica ossia rende cosciente in senso coerentemente anticapitalistico ciò che in essa vive e si agita sul piano materiale e ideologico. Credere che i rivoluzionari siano semplicemente i notai di ciò che pensa (e agisce) il proletariato è un errore grave, che ci riporta agli albori del movimento operaio:

Se l'azione deve ispirarsi a ciò che nel momento attuale è al massimo grado accessibile alle masse più larghe, allora dobbiamo predicare l'antisemitismo (25).

Allo stesso modo, per fare breccia tra le “masse più larghe”, dovremmo adottare, per esempio, il linguaggio del Front National francese o di formazioni simili, che, purtroppo, raccolgono consensi in settori consistenti del proletariato. La classe, attraverso il voto alla destra estrema, ci dice che è molto arrabbiata col sistema, ma ci dice anche che non sa dove sbattere la testa e la sbatte contro un muro, saltando dalla padella alla brace: sta al partito farle fare un salto diverso. Deve però esistere, il partito, deve essere materialmente un punto di riferimento della classe, a cominciare dai suoi elementi più sensibili, che possono essere sensibilizzati solo se si parla loro in modo chiaro immediatamente, senza adottare una “politica dei due tempi”, alla lunga (ma anche alla corta) disastrosa. È vero che la coscienza è a livelli rasoterra, ma questo non significa che si debba separare artificialmente il piano “economico-sindacale” da quello politico, perché altrimenti gli operai non capirebbero: chi la pensa così, vale a dire la stragrande maggioranza della sinistra extra-istituzionale, in fondo considera gli operai degli eterni minorenni, incapaci di diventare “grandi”, dei “bamboccioni”, insomma. Un conto è la necessità-capacità di tradurre in maniera comprensibile i concetti, un altro la chiarezza politica dei concetti medesimi. A questo proposito, fa una certa impressione ritrovare tra “vecchie carte”, ritenute dai più “talmudiche” (26), analogie con un atteggiamento oggi molto diffuso, assunto, quando è assunto consapevolmente, proprio in considerazione del basso livello politico del proletariato:

l'estendersi dell'agitazione ha portato i socialdemocratici a contatto con gli strati più bassi, meno evoluti del proletariato; per attivare questi strati l'agitatore doveva sapersi adeguare al più basso livello ideologico, e ci si è abituati a porre in primo piano “rivendicazioni e interessi contingenti”, accantonando i grandi ideali del socialismo e della lotta politica (27).

Con questo atteggiamento, CCW e “l'antagonismo” (28) in generale ripescano la vecchia teoria-prassi del riformismo della II Internazionale, per il quale si doveva innanzi tutto parlare (e praticare) del “programma minimo”, relegando quello “massimo” - la rivoluzione, il socialismo – a un futuro non meglio precisato. Nel frattempo, per la vecchia (?) socialdemocrazia, bisognava accumulare forze, occupando posizioni di potere dentro la società borghese, in attesa della “grande giornata” sovvertitrice. Ancora una volta, registriamo somiglianze “inquietanti” con quanto si teorizza in “Dove sono i nostri”.. A pagina 201, infatti, si afferma che non bisogna star fermi aspettando la occasione rivoluzionaria, ma che occorre

preparare il terreno, disporci e disporre le forze. Questo accumulo può avvenire in tanti modi: prendendoci le case, le merci, i trasporti, il denaro e tutto ciò che abbiamo prodotto e di cui la borghesia si appropria.

Sorvolando sul senso criptico di certe affermazioni (29), una volta di più si deve prendere atto che per CCW l'accumulo di forze, così come la ricomposizione (o composizione) della classe avviene di fatto solo sul terreno economicistico, su obiettivi di carattere economico, il cui conseguimento generalizzato richiederebbe, per altro, una dotazione di forze prossima o pari a quella dell'assalto rivoluzionario. Anche per noi è scontato che ci debba essere un accumulo di forze - che non si possa arrivare dall'oggi al domani a porre la prospettiva “qui e ora” della rivoluzione - ma sul terreno politico. In altre parole, è ovvio che la classe debba fare una serie crescente di esperienze di lotta – sul piano economico, certo, ma non solo – però quelle esperienze devono essere metabolizzate, sedimentate e rielaborate criticamente dal punto di vista politico dall'avanguardia comunista, il partito, per dare fiato e gambe al partito stesso. Questi deve poter diventare una presenza reale nel corpo proletario, un punto di riferimento che orienti, diriga politicamente il conflitto sociale e gli organismi di massa di cui si doterà la classe nello scontro generalizzato con la borghesia e sui quali baserà il proprio potere. In questa fase, anche quelle forme di riappropriazione della ricchezza estorta al proletariato potranno, certo, avere un ruolo, ma se non verranno organizzate e convogliate nella lotta per l'alternativa sociale, saranno necessariamente destinate a essere soffocate in breve tempo.

Infine, c'è un altro aspetto ricorrente nel libro, che spiega implicitamente (ma non tanto) perché non venga presa per le corna la questione-partito, cioè, a dire degli autori, il rifiuto di ogni ideologismo e «rifugio identitario» (30). Se questo significa il rifiuto delle liti da pollaio, così frequenti nella “sinistra”, della chiusura settaria e autoconsolatoria, è un dato positivo. Non lo è se questo equivale, come di fatto quasi sempre avviene, all'imposizione di una ben precisa ideologia, quella di chi avanza il discorso “anti-ideologico”. Non lo è nemmeno se si tratta di un modo – anche involontario: ammettiamo la buona fede – per evitare di prendere posizione su problematiche fondamentali per il “movimento operaio”. Si tratta di nodi teorico-politici che abbiamo sciolto da gran tempo, ma nei quali si trovano ancora impigliati tantissimi compagni/e, tra costoro quelli di CCW, che definiscono socialisti (pagina 126) i regimi del fu blocco sovietico e la Cina di Mao, dove di socialismo non c'era nemmeno l'ombra, bensì capitalismo di stato. Questioni sorpassate? Mica tanto, se vogliamo dire ai “nostri” per che cosa lottiamo, in quale mondo speriamo, se non vogliamo limitarci, beninteso, alla difesa dei “diritti” o al “lavorare meno, lavorare tutti a salario aumentato”. Se non vogliamo, cioè, rimanere imprigionati dentro l'orizzonte borghese, sia pure deformato dall'acido lisergico del radical-riformismo, dove, per esempio, le “primavere arabe” diventano rivoluzioni, benché mai – purtroppo ma inevitabilmente – sia stata posta dalle masse e alle masse proletarie la prospettiva della dismissione del capitalismo.

Si potrebbe continuare a esaminare altri punti politicamente deboli, molto deboli del libro (31), ma preferiamo fermarci qui. Benché la lettura integrale del libro abbia confermato le prime impressioni ricevute, siamo disponibili, come sempre, al confronto con chi, veramente libero da ideologismi e interessi di bottega, abbia a cuore gli interessi immediati e storici dei “Nostri”.

CB

(1) Rosa Luxemburg, Sciopero generale, partito e sindacati, in Scritti politici, Editori Riuniti, 1974, pag. 356.

(2) Brevi considerazioni sul proletariato, la crisi e il riformismo oggi, Prometeo n. 11, giugno 2014.

(3) Clash City Workers, Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell'Italia della crisi, La casa Usher, 2014.

(4) In sintesi, il valore della merce è dato dal lavoro, dal tempo di lavoro, che nel modo di produzione capitalistico significa sfruttamento della forza lavoro nella forma del lavoro salariato.

(5) Per citare alcuni esempi, l'austromarxista Otto Bauer e il rivoluzionario, idealista, Anton Pannekoek.

(6) Dove sono..., pag. 9.

(7) Certamente, non mettendo in discussione il lavoro salariato, è meno peggio del licenziamento nudo e crudo, anche se comporta una perdita secca di salario.

(8) E classiste: anche l'ala riformista aveva un'impronta classista ben più netta di tanta sinistra “antagonista” odierna.

(9) Come ogni tanto succede nel mare sconfinato della “rete”, dove certi imbecilli, coraggiosamente nascosti dietro una tastiera, galoppano a briglia sciolta.

(10) Dove sono..., pag. 15.

(11) Dove sono..., pag. 76 e pag. 178.

(12) Lotte destinate per lo più a una sconfitta sul terreno immediato, dato il contesto della crisi capitalistica, e a una sconfitta politicamente sterile o peggio, per il modo – scontato - in cui il sindacato ha diretto e controllato il confronto/scontro col padronato.

(13) Dove sono..., pag. 85.

(14) _Dove sono...,
pag. 155.

(15) Dove sono..., pag. 169.

(16) Dove sono..., pag. 145.

(17) Dove sono..., pag. 190.

(18) Dove sono..., pag. 57.

(19) Dove sono..., pag. 106.

(20) Dove sono..., pag. 198.

(21) Dove sono..., pag. 198.

(22) Dove sono..., pag. 192.

(23) Dove sono..., pag. 192.

(24) Dove sono..., pag. 197.

(25) Lenin, A proposito della “Profession de foi”, fine 1899, in Opere Complete, vol. IV, Editori Riuniti, pag. 294.

(26) Detto proprio da chi, spesso, leggeva in maniera “talmudica” le “carte” suddette.

(27) Lenin, Una tendenza retrograda della socialdemocrazia russa, fine 1899, in Opere Complete, vol. IV, Editori Riuniti, pag. 282.

(28) Usiamo questo termine per comodità di sintesi, anche se nella sua indeterminatezza, e insulsaggine giornalistica, in sé vuol dire poco.

Mercoledì, November 26, 2014