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Home ›La crisi ucraina, le forze in campo e i giochi degli imperialismi
I rispettivi fronti interni e imperialistici che si scontrano su e per le vie della gestione del gas siberiano e per la superiorità geopolitica del centro Europa, hanno prodotto una preoccupante situazione di crisi che potrebbe ulteriormente degenerare da un momento all'altro. L'Ucraina è solo uno dei terreni di scontro. Il proletariato di Kiev e quello europeo le vittime predestinate.
Dietro i politicamente confusi avvenimenti dell'Euromaidan chiaro si staglia lo scenario imperialistico che domina tutta la crisi ucraina. Gli interpreti principali i soliti. La Russia che gioca in casa, gli Usa che sono da sempre in trasferta. I comprimari, come la Germania, che entra nei giochi non in nome dell'Ue ma di se stessa e la Cina, che, pur da lontano in termini di distanza geografica e di opportunità d'intervento, segue con interesse le mosse del teatro centro-asiatico. Al centro del contendere due questioni interconnesse, quella geopolitica e quella energetica.
Il primo degli attori è l'imperialismo USA. Dopo “l'annessione referendaria” della Crimea, il presidente Obama ha preteso l'emarginazione della Russia dal G8, ha minacciato in tre situazioni distinte di organizzare sanzioni economiche e finanziarie, nonché di ricorrere alla Nato, se Putin continuasse nella sua opera di annientamento dell'integrità nazionale ucraina. Da un punto di vista geopolitico, sin dagli anni immediatamente successivi al crollo dell'URSS l'obiettivo degli Usa era quello di portare a compimento la definitiva distruzione “dell'impero del male”. Non solo “Mosca delenda erat”, ma anche il suo vecchio impianto imperialistico, caratterizzato da una serie di paesi satelliti, doveva essere smantellato, favorendo l'inserimento di quei paesi nell'area occidentale, europea, sotto l'egida economica e politica degli Usa. In tempi più recenti, il programma della Casa Biancha è stato quello di isolare completamente l'ex nemico numero uno, sia per fare terra bruciata sulle macerie del suo ex impero, sia per impedirgli di ricostituirsi come forza egemone nell'area, grazie alle sue esportazioni di materie prime energetiche come petrolio e, sopratutto, gas. Sia dietro le “rivoluzioni arancioni” della metà degli anni duemila, che nei recenti fatti dell'Euromaidan a Kiev, la pressione dell'imperialismo americano ha fatto sentire il peso della sua operativa presenza. Forze politiche come “Patria”, della Timoshenko, dei dichiarati fascisti di Svoboda, con le loro strutture paramilitari C.14 e di “Pravyi Sektor”, non hanno soltanto ricevuto incitamenti e appoggi politici, ma anche qualcosa di più consistente. Il mancato presidente repubblicano Mc Cain ha intrapreso intensi contatti con queste forze a nome degli interessi americani con l'evidente lasciapassare del presidente Obama. Lo strumento inizialmente usato, frutto della “rivoluzione arancione” del 2006, è stato quello rappresentato da una fitta rete di ONG sorte sotto il controllo americano e facente riferimento a istituzioni legate al governo Usa o a personaggi della finanza americana. Tra le più conosciute, nonché efficienti nel tessuto sociale ucraino, si sono distinte la Open Society Foundations del solito magnate Soros che, dalla “rivoluzione arancione” in avanti, ha costruito un piccolo impero finanziario con consistenti addentellati politici. Solo nel 2012 la sua Organizzazione ha investito in varie attività ben 10 milioni di dollari. Altra ONG di rilevante ruolo è il National Democratic Institue for International Affairs e quella parzialmente finanziata da Bill Gate che è l'International Center of Jornalism. In aggiunta, l'Amministrazione americana ha mantenuto ottimi rapporti con alcuni oligarchi che osteggiavano il governo di Yanukovich, nella speranza di avere spazi operativi più ampi e aperture commerciali sul mercato Usa. Uno tra i non pochi che hanno aderito alle pressioni americane è il “re” dell'acciaio Victor Pincuk, più volte omaggiato dalla copia Bill e Hilary Clinton in occasioni pubbliche (Conferenza sull'acciaio, settembre 2013 a Yalta) che in sede privata. Contemporaneamente, il personale addetto all'ambasciata americana di Kiev è entrato in contatto con altri influenti oligarchi del rango di Pietro Poroshenko, “re” del cioccolato e nemico giurato di Yanukovich e di Mosca, nonché del finanziere Kostantin Zevago. A metà di dicembre 2013, quando la piazza si riempiva degli oppositori del governo, i senatori MCKain e Murphy sono sul posto ad arringare i manifestanti anti Yanukovich e anti Mosca. Allo stesso momento Victoria Nulan, esperta di questioni sovietiche prima e russe poi, nominata da Obama responsabile per gli Affari Eurasiatici, convince il potente oligarca Akhmetov, sino a quel momento legato al potere politico di Yanukovich, di passare dall'altra parte. La contropartita consisteva nella promessa che, a “rivoluzione” effettuata, per gli oligarchi legati al vecchio regime ci sarebbe stata una sorta di boicottaggio dei loro interessi economici a fronte di aiuti per quelli che si fossero distinti per un drastico “cambiamento democratico” e allineati con il nuovo corso. Sull'altro fronte, quello delle organizzazioni politiche che erano presenti all'Euromaidan si muove il solito MCKain. Mentre la Nula lavorava ai fianchi l'oligarca Akhmetov, il senatore repubblicano andava a cena dal fondatore della formazione fascista Svoboda, Oleh Tjahnybok. In conclusione da quel momento le televisioni private di Akhmetov iniziano a confezionare programmi, inchieste e notizie favorevoli ai manifestanti pro occidente, Euromaidan ribolle sino all'ignobile fuga a Mosca dell'inetto dell'inetto e ambiguo Yanukovich.
L'inettitudine di Yanukovich è dovuta alla sua pressoché assoluta subordinazione politica nei confronti degli oligarchi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo sotto la sua amministrazione senza avere né il coraggio né la forza di agire con autonomia e autorevolezza. L'ambiguità perché il personaggio in questione, pur allineato alle esigenze geo politiche di Mosca sino a rifiutare la firma di un accordo con l'Ue voluto dai filo occidentali e “casus belli” della rivolta di Euromaidan, non ha mai rinunciato alla nazionale tradizione burocratica dell'inganno politico e della corruzione. Ha sempre tenuto il piede almeno in due scarpe, prendendo si ordini da Mosca, ma facendosi curare i suoi interessi privati da un consulente americano, John Podesta, consigliere personale del presidente Obama e avendo quale consulente politico un certo Paul Manafort, operatore nel settore elettorale, in collaborazione con quel Rick Davis che ha condiviso le vicende politiche del senatore McCain. In aggiunta, dopo la fuga di Yanukovich a Mosca, in territorio ucraino è rimasto l'ex capo della CIA John Brennan con il compito di proteggere e consigliare il nuovo governo transitorio e di portare a compimento il lavoro di preparazione alle elezioni politiche ucraine previste per il 25 maggio.
L'altra parte della strategia riguardava il tentativo di rendere più difficile, se non di spezzare, il cordone ombelicale che lega molti paesi dell'est europeo ed alcuni dell'ovest, come Italia e la Germania, ai rifornimenti energetici russi via Ucraina. In termini pratici gli Usa perseguirebbero la prospettiva di sottrarre l'Europa all'egemonia energetica russa quale condizione per una riconquista dell'est europeo e di contenimento, in quell'area, dello strapotere commerciale tedesco. La prospettiva, tutta ancora da realizzare e non senza problemi tecnici e politici, sarebbe di sostituirsi alla Russia attraverso la costruzione del gasdotto Nabucco che arrivando nel sud dell'Europa, rifornirebbe con una serie di “bretelle” buona parte del vecchio continente, demolendo quella sorta di monopolio energetico del nuovo “zar”. Altra ipotesi quella di fornire direttamente il gas americano in sostituzione di quello russo, ma la sua fattibilità sembra essere tramontata per una serie di difficoltà politiche, finanziarie e ambientali. Infatti il “Nabucco” che si sarebbe dovuto inaugurare entro la fine del 2015, è praticamente rimasto al palo. Il tanto decantato ritrovamento di vasti giacimenti di scisti bituminose in vari Stati americani che risolverebbe non solo le necessità energetiche interne degli Usa sino alla tanto agognata autosufficienza, ma sarebbero in grado di sostituirsi alle forniture russe verso l'Europa, sono ancora tutte da mettere in azione. I giacimenti ci sono, le tecniche di estrazione anche, ma i loro costi sono elevati così come altamente dispendiosi sono i procedimenti di liquefazione e di rigassificazione che necessitano. In più, anche se il tutto dovesse andare per il giusto verso, ci vorrebbero almeno cinque anni prima che il gas americano possa assere in grado di attraversare l'oceano per attraccare nei porti di Londra e Rotterdam, gli unici, al momento, in grado di svolgere la prima parte dell'ambizioso progetto. In virtù di questo l'Ucraina riveste una posizione geo strategica che la rende, per forza di cose, una pedina tra l'est e l'occidente europeo di vitale importanza nelle strategie contrapposte russe e degli stati Uniti.
Per la Russia vale lo stesso discorso ma in termini rovesciati. L'ambizione imperialistica di Putin è palesemente quella di riconquistare buona parte delle ex Repubbliche sovietiche giocando su più piani ma soprattutto sullla carta della ricattabilità energetica. Questo vale per l'Ucraina, dal cui territorio passano tutti i gasdotti che riforniscono Kiev, per la Romania, la Bulgaria, la Moldova e alcuni paesi occidentali. Inevitabile lo scontro con le strategie americane che vorrebbero invece che questi paesi passassero sotto il suo controllo tramite il solito strumento militare della Nato. Il ricatto energetico accompagnato da una discreta disponibilità di capitali provenienti dello steso settore, ha fatto sì che il colosso Gazprom potesse ergersi a unico grande distributore di energia nei confronti dei paesi ex satelliti, sino a creare proprie infrastrutture, oltre che in Ucraina, anche in Moldova, dove la compagnia petrolifera nazionale vede la compartecipazione al 51% della stessa Gazprom. Nel 2013 il volume di gas esportato è arrivato a 200 miliardi di metri cubi all'anno, di cui 86 in Europa e, in prospettiva, dopo il fallimento del progetto “Nabucco”, le aspettative di Mosca si sono moltiplicate. Con l'annessione della Crimea il colosso energetico russo ha potuto mettere le mani anche su importanti riserve offshore nelle acque antistanti la penisola che, in precedenza, fornivano un discreto patrimonio energetico per il governo di Kiev. Il colpo di mano di Putin ha avuto il doppio successo di amministrare in proprio i giacimenti di gas della Crimea e di escludere da un giorno all'altro le interferenze della Exxon e della Shell che, attraverso la nascita di un consorzio internazionale, erano riuscite ad avere agibilità in loco e a estromettere la russa Lukoil. Dopo l'annessione le suddette compagnie petrolifere americane hanno alzato bandiera bianca e hanno rinunciato completamente al loro progetto. Il tutto in risposta anche alle concessioni avute nell'occidente ucraino da parte della Chevron e a est del paese da parte della Shell per lo sfruttamento di shale gas.
In questo quadro va letto inoltre il tentativo della Transnistria, regione filo russa ai confini meridionali dell'Ucraina e della Gagauzia, nel cuore meridionale della Moldova, di inscenare propositi di annessione alla Russia nel tentativo di ricavarne un vantaggio economico, sotto forma di tasse per i diritto di transito dei gasdotti, o soltanto perché si sentono più tutelati sotto le sottane della "vecchia mamma Russia" che dalle promesse europee, scarse di finanziamenti, ma piene di "sacrifici sociali" e tagli alla già misera spesa pubblica. Va da sé che Mosca sostenga con discrezione questi movimenti separatisti con il doppio scopo di indebolire gli avversari e di costruirsi delle basi strategiche di appoggio sia nell'ovest che nell'est ucraino. Ben conscio del pericolo americano, in tempi già ampiamente sospetti, Putin ha pensato alle contromosse con largo anticipo. Se l'Ucraina, per qualsiasi motivo, venisse meno al suo ruolo di area di transito del gas siberiano verso l'Europa, o se il monopolio russo venisse intaccato da contro misure tecniche come i “reverse flow”, ovvero la possibilità di riciclare verso oriente il gas arrivato in occidente dal Turkmenistan, usando vecchi gasdotti momentaneamente in disuso ma facilmente recuperabili, le “soluzioni” di Mosca sarebbero già pronte. La prima è stata la messa in funzione (2011) del North Stream che evita il territorio ucraino e con esso tutti i rischi del caso. Il N.S. rifornisce direttamente la Germania tramite un percorso sottomarino nel Mar Baltico, e da lì il resto del nord Europa. La seconda come si diceva poc'anzi è quella di sostenere, più o meno palesemente, tutte le istanze autonomistiche delle regioni filo russe. La terza quella di operare, anche in termini militari più o meno occulti, a sostegno della popolazione ucraina di lingua russa, contro il governo filo occidentale ispirato dalle manovre americane, come la nascita della Repubblica autonoma di Donetsk in base la referendum dell'11 maggio. Il tutto ovviamente è ancora in “fieri”ma le premesse di una ulteriore accelerazione della crisi Ucraina ci sono tutte.
Il terzo attore nella vicenda imperialistica che ruota attorno alla questione Ucraina è l'Ue. Apparentemente l'Unione Europea si è accodata alle posizioni intransigenti degli Usa appoggiandone le critiche nei confronti della Russia e assecondandone la richiesta di sanzioni, facendo quadrato attorno al blocco occidentale. È pur vero che molti paesi europei vedono con preoccupazione la gestione monopolistica russa per il loro fabbisogni energetici, e di conseguenza, vorrebbero diversificare le fonti di approvvigionamento e renderle più sicure, ma è altrettanto vero che al momento, per alcuni di essi, il rapporto con la Russia rimane unico e irrinunciabile. Questo è il caso di Germania e dell'Italia. Per la potenza tedesca il gas e il petrolio proveniente dalla Russia, via Ucraina, copre il 40% (gas) e il 35% (petrolio) del suo intero fabbisogno. In aggiunta l'economia tedesca ha un volume di investimenti con il paese di Putin pari a 22 miliardi di euro all'anno a cui non può rinunciare tranquillamente. Non a caso la signora Merkel, pur facendo parte del coro occidentale contro l'arroganza di Putin, ha insistito perché non si abbandonassero le vie negoziali e non si arrivasse a una rottura totale con la Russia. Concetto (sanzioni ma non rottura) ribadito nei colloqui di Washington con Obama alla fine del mese di aprile. La logica della Merkel è molto semplice e pragmatica. La materia prima energetica che arriva in Germania dalla Russia, a partire dal 2011 non passa più dall'Ucraina, ma attraverso il North Stream evitando ogni rischio di chiusura e di boicottaggio. In secondo luogo il gasdotto è stato prodotto da un consorzio russo-tedesco che garantisce alla Germania la cogestione della continuità dei flussi e delle quantità di transito. Ciò le consente di operare, in caso di necessità, come hub di riciclaggio del gas (reverse flow) a favore di alcuni paesi dell'est europeo e come cofornitore per i paesi del nord come Danimarca, Svezia, Belgio e Olanda in concorrenza con il gas norvegese. Terza, ma non ultima, la necessità di continuare una Ostpolitik non soltanto con la Russia, ma anche con gli altri paesi dell'Est. Per cui l'imperialismo tedesco non è caduto nel tranello tesogli da quello americano sotto forma di ricatto morale verso la “fedeltà atlantica” contro l'espansionismo russo in Crimea e, per l'aggravamento della crisi, nella stessa Ucraina e nei paesi limitrofi. La signora Merkel ha giocato le sue carte su più tavoli. Si è accodata al coro di condanna del comportamento russo mostrando di essere la paladina degli interessi occidentali. Contemporaneamente ha continuato l'opera di penetrazione economica all'est in concorrenza con gli stessi Stati Uniti. Non a caso nella vicenda ucraina, durante le manifestazioni di Euromaidan non si è schierata con il fronte della destra fascista sostenuta dagli Usa, ma ha scelto un proprio candidato nella figura di Vitali Klitschko e del suo partito Udar (Colpo) di destra democratica. Non si è scontrata con le velleitarie mosse americane. Si è espressa a favore delle sanzioni, minime per il momento, senza chiudere la porta a soluzioni negoziali, ovvero senza rompere i rapporti economici e politici con la Russia. Opportunità questa che Putin ha sfruttato, subito dopo i fatti di Odessa, nel bel mezzo delle proposte americane finalizzate a rendere più severe le sanzioni contro Mosca, con le dichiarazioni del 7 maggio. Dichiarazioni, al momento distensive, sull'assenso allo svolgimento delle elezioni presidenziali del 25 maggio, sul ritiro delle truppe dai confini con l'Ucraina e, cosa più strumentalmente rilevante, la pressione sui filo russi per spostare nel tempo la richiesta di referendum sulla secessione dall'Ucraina per una probabile richiesta di adesione alla Federazione russa. Referendum che, ovviamente, si è tenuto lo stesso (11 maggio) come era nei programmi dei secessionisti e di Mosca, con una partecipazione e un voto quasi plebiscitari e che ha reso le relazioni ancora più tese sia all'interno dell'Ucraina che sullo scenario internazionale.
Fatte le debite proporzioni e con i dovuti distinguo, lo stesso atteggiamento vale per l'Italia. L'economia italiana dipende dal petrolio e dal gas russo per il 35% del suo fabbisogno e, a parte i rifornimenti che arrivano dalla Tunisia e dalla Libia, questi ultimi oltretutto precari data la fragilità della situazione politica interna al paese che fu di Gheddafi, all'orizzonte non ci sono altre prospettive immediate. Non solo ma l'Eni, colosso italiano dell'energia, è compartecipe con Gazprom del progetto South Stream e quindi doppiamente legata ai destini energetici gestiti da Putin. Anche se il progetto South Stream è destinato al fallimento o a un suo vistoso ridimensionamento con il più modesto gasdotto TAP, resta comunque per l'Eni la necessità di rimanere attaccato ai giochi energetici del centro Asia che, volenti o nolenti, continuano ad essere nelle mani della Russia.
Con il crollo dell'Urss l'imperialismo occidentale ha cantato vittoria recitando la favola che, venuto meno “l'Impero del male” per l'intera umanità si sarebbero aperti orizzonti di pace, prosperità e di progresso. La favola, falsa quanto ipocrita, artatamente confezionata dall'ideologia dominante dell'imperialismo vincitore, oltre a svolgere una profonda opera di condizionante disinformazione tra le masse proletarie di mezzo mondo, ha volutamente dissimulato come le contraddizioni del capitalismo avrebbero prodotto, di li a poco più di un decennio, la più grave crisi mondiale dell'ultimo secolo. Ha nascosto che questa avrebbe riproposto le medesime tensioni imperialistiche con gli stessi attori ai quali si sarebbero soltanto cambiati i costumi e i teatri di scena, lasciando inalterate la basi economiche capitalistiche che di tutte le crisi sono la causa prima. Crisi, tensioni, rischi di conflitti e aggressioni al tenore di vita e ai livelli di occupazione del proletariato internazionale sono la cornice che inquadra la complessa faccenda ucraina.
L'ultimo attore di questa esplosiva vicenda imperialistica è la Cina. Dagli inizi della crisi in Ucraina sino ai tragici avvenimenti di Odessa la Cina ha sempre mantenuto un basso profilo. Non si è mai allineata alle critiche americane, non ha mai sottoscritto la necessità delle sanzioni nei confronti della Russia, è praticamente rimasta in silenzio a guardare, limitandosi a sperare che la crisi rientrasse grazie a soluzioni negoziali. Come dire che la cosa non la riguardasse, meglio stare a guardare senza entrare nel merito della crisi in atto che era, e doveva rimanere, una questione tra Russia e Stati Uniti. In realtà le cose non stanno in questi termini. Il comportamento cinese è e resterà a favore della Russia per una serie di motivi che vanno dalla sua sicurezza politica a quella energetica. Sono anni che le varie Amministrazioni americane, quella di Obama compresa, vendono armi al Giappone e alla Corea del Sud. Lo scopo non è soltanto quello di produrre un deterrente politico nei confronti della Cina ma, soprattutto, di organizzare un cordone militare di alto livello attorno ai confini occidentali dell'avversario N° 1 nel settore asiatico. Il che ha costretto il governo di Pechino a stanziare nuovi fondi per il riarmo militare che, nell'anno 2013, è arrivato alla cifra di 95 miliardi di euro, ed è destinato ad aumentare progressivamente in ragione dell'intensificazione dell'accerchiamento nei suoi confronti. La fame energetica stimolata dal convulso sviluppo economico cinese, anche se rallentato dalla recente crisi, impone al governo di Pechino la spasmodica ricerca di fonti di approvvigionamento energetico. Inizialmente il suo fabbisogno di gas è stato parzialmente soddisfatto dal Turkmenistan (quarto produttore al mondo e sufficientemente vicino ai suoi confini) e dal Kazakistan. Poi ha giocato la carta domestica del shale gas che, al momento, grazie alle nuove tecniche di fracking usate nel Nord America, possono essergli garantite dalla compagnie occidentali come la Shell e la Exxon Mobil, ma con una serie di rischi di continuità e invadenze politico-distributive di cui il governo cinese vorrebbe, molto volentieri, fare a meno. Per cui la strada maestra è ancora quella degli accordi con la Russia per forniture fisse, abbondanti e di sicuro affidamento per i prossimi decenni. In una recente riunione all'interno della Commissione di Cooperazione tra Cina e Russia, i rispettivi rappresentanti, Arkady Dvorkovic e Wang Qishan, hanno firmato lo storico accordo che prevede l'esportazione dalla Siberia verso la Cina del gas russo attraverso il prolungamento del gasdotto “Siberia Oceano Pacifico” sino al porto cinese di Kozmino. La formalizzazione dell'accordo tra Gazprom e la cinese CNPC (China National Petroleum Corporation) comprende anche l'esportazione di gas liquefatto dal rigassificatore di Vladivostok in fase di ultimazione e, non secondaria questione, l'abbattimento di una serie di intralci che avevano rallentato i tempi dell'accordo stesso, quali il costo del gas e l'esborso finanziario cinese per il completamento delle opere strutturali. L'accordo formalizzato il 21 maggio scorso consiste in due cifre estremamente significative. Per trent'anni la Russia si impegna a rifornire di gas la Cina per un volume di affari pari a 400 miliardi di dollari. Il che non può far altro che spingere la Cina, se non a sostenere la Russia nel “big game” in Ucraina contro gli Usa, ad assumere un atteggiamento di non intralcio ai disegni di Mosca che, in larga parte, sono anche i suoi.
In conclusione, siamo in presenza dei soliti giochi imperialistici, giochi di potere e di interessi economici che la crisi, data frettolosamente per superata, rende sempre più violenti e portatori di aggressioni militari e di barbarie sociale che, inevitabilmente, si scaricano sulle popolazioni, sulle masse proletarie direttamente o indirettamente coinvolte. Come in qualunque scenario di crisi che non venga rotto da un evento rivoluzionario, anche in Ucraina le ideologie dominanti continuano ad essere quelle degli imperialismi dominanti. L'imperialismo occidentale capeggiato dagli Usa mobilita le masse, sotto le bandiere nazionalistiche, fasciste per l'integrità nazionale contro i “terroristi” finanziati dal Kremlino. Quello russo mobilita le “sue” masse russofile e russofone in chiave di difesa delle minoranze linguistiche e rispolverando un antifascismo di comodo. Ma in gioco ci sono solo obiettivi borghesi, capitalistici e imperialistici che nulla hanno a che vedere con gli interessi di classe che, strumentalmente, vengono incanalati sul terreno nazionalistico, su quello dell'antifascismo e della difesa della democrazia a seconda degli interessi di parte. L'esempio referendario dell'11 maggio, con la nascita della Repubblica di Donetsk, ne è una chiara dimostrazione. Da una parte, quella del governo di Kiev, si denuncia come “criminale” il referendum stesso. Si definiscono terroristi tutti coloro che attentano all'unità nazionale, giustificando così ogni forma di repressione contro i secessionisti. Dall'altra, quella dei referendari, che peraltro hanno stravinto la consultazione con un 70% di affluenze alle urne e oltre il 95% dei consensi, invocano che la Repubblica autonoma di Donetsk venga riconosciuta in nome dell'autodeterminazione dei popoli come atto politico contro il nuovo governo fascista del presidente Turchinov. I primi appaiono sulla scena come “rivoluzionari” di una destra “democratica (?)” non meglio identificata, che combattevano contro la corruzione e il totalitarismo del governo di Yanukovich, in realtà come diretta emanazione dell'imperialismo occidentale e di quello americano in particolare. I secondi alzano le bandiere dell'antifascismo, qua e là anche quelle rosse del “comunismo imperiale” di storica matrice stalinista, entrambi politicamente manovrati e soggiogati dagli interessi economici e strategici di Mosca. Nei fatti, in entrambi gli schieramenti nazionalistici, è presente la componente di destra, fascista. Quella tradizionale di Pravyi Sektor e di Svoboda, sotto le spinte imperialistiche di Washington e quella nazi fascista di “Giovane Russia” e “Immagine Russia” che sono state alla base della nascita della Repubblica di Donetsk con l'avallo di Mosca, sotto le improbabili bandiere di una non meglio identificabile sinistra.
Crisi, tensioni, rischi di conflitti e aggressioni al già basso tenore di vita e ai miseri livelli di occupazione del proletariato sono la cornice che inquadra la complessa faccenda Ucraina che, lungi dall'essere risolta, potrebbe portare a più serie conseguenze all'interno degli equilibri imperialistici sempre più precari e sull'orlo di un collasso collettivo. Come sempre il proletariato indigeno sarà, ancora una volta, la vittima principale di questa crisi economica, politica e istituzionale, se non riuscirà ad imboccare la pur difficile strada che lo porterà allo scontro con il capitalismo e con tutte le forze politiche che, a diverso titolo, ne sono l'involucro ideologico che lo riveste, lo difende e lo fa sopravvivere alle sue devastanti contraddizioni.
Le sparute avanguardie comuniste e rivoluzionarie, qualora esistessero e fossero minimamente operanti, non dovrebbero mai commettere l'errore di essere trascinate all'interno del perverso meccanismo che le contrapposte borghesie e i “belligeranti” imperialismi hanno messo in atto. Non c'è nessuna presunta democrazia da difendere, non c'è nessuna autodeterminazione dei popoli da invocare e nessun nazionalismo da sostenere. Tutte quante sono solo soluzioni borghesi che vanno frontalmente combattute, come vanno strenuamente combattute le varianti fasciste che rappresentano, da una parte e dall'altra, il solito cane da guardia a cui il capitale toglie il guinzaglio quando i giochi si fanno più duri. Democrazia e fascismo, pluralismo e totalitarismo, nazionalismo e federalismo, in salsa europeista o russo-slava, altro non sono che le variegate sfaccettature di un meccanismo di conservazione del capitalismo e della sua arrogante manifestazione imperialistica, da cui il proletariato deve prendere le distanze se vuole smettere di essere la solita massa di manovra degli interessi dell'avversario di classe interno e internazionale. La trappola che inevitabilmente scatta in situazioni come questa è quella della lotta al fascismo e all'imperialismo sotto le bandiere mistificanti del sempiterno Fronte unito politico immancabilmente ricomparso per l'occasione. Nella fattispecie, in nome di tutte quelle sfaccettature che assume la conservazione, l' autoproclamatasi sinistra interna (?), sorretta idealmente dalle solite formazioni vetero staliniste, ma con pesanti infiltrazioni nazionalistiche della destra fascista volutamente nascosta all'opinione pubblica, predica la necessità da fare fronte comune contro il nemico di sempre, l'imperialismo americano e il suo alleato nazional-fascista, questo evidente e palese, per appoggiare l'altra faccia della medaglia, altrettanto nazionalista e imperialista, rappresentata dal fronte filorusso che ci si ostina a considerare pacifico, democratico e progressista. La vera questione è che le squadracce militarizzate di organizzazioni come Pravyi Sektor e Svoboda, al servizio del nazionalismo ucraino e al traino dell'imperialismo americano, vanno combattute al pari delle milizie secessioniste dell'est dell'Ucraina, filorusse e pilotate dall'imperialismo di Mosca. Per le masse proletarie ucraine, strette nella devastante morsa della crisi economica che le ha ridotte alla fame e alla miseria come dopo la fine della seconda guerra mondiale, la scelta non è se stare con il “cioccolataio” Poroshenko, che ha vinto le elezioni presidenziali del 25 maggio o sperare nell'impossibile ritorno di un sosia di Yanukovich, se seguire le sirene degli aiuti dell'Ue e americani o correre sotto le “rassicuranti” gonne di mamma Russia. Non devono scegliere tra due diversi tipi di oligarchie nel corrotto scenario interno, come non possono distinguere tra le rapacità imperiali di Obama e di Putin su quello internazionale. Devono iniziare a combattere i rapporti di produzione capitalistici, i loro effetti economici, le forme politiche che li sostengono e, soprattutto, devono temere tutto ciò che sotto il nome di tattica, finisce per far confluire la rabbia e la disperazione sulla sponda di questo o quello schieramento borghese. Il Fronte unico, quell'insieme di forze politiche che si uniscono allo scopo di ingrandire un fronte dello scontro borghese trascinandosi dietro larghe frange di proletariato, invece, è proprio il contrario. Contiene la rabbia delle masse all'interno di una guerra civile senza che rischi di diventare una lotta di classe contro il capitale. Identifica l'avversario in una delle componenti della guerra civile stessa e in uno solo degli schieramenti imperialistici che la fomentano dall'esterno. Fa in modo che il sistema nel suo complesso rimanga inalterato, cambiandone soltanto i direttori della gestione politica del capitalismo domestico, in nome dell'antifascismo, della democrazia o di un nazionalismo piuttosto che di un altro. Ma lascia inalterato l'impianto economico di sfruttamento con i suoi corollari di crisi, di maggiore impoverimento, di guerre combattute per interposti interessi.
Da sempre la soluzione tattica del Fronte unito politico, meglio dire delle ammucchiate politiche e ideologiche è stata, è e sarà, la tomba della ripresa della lotta di classe e, di conseguenza, uno dei migliori strumenti di conservazione di questo capitalismo contemporaneo decadente, violento e portatore di barbarie economiche e sociali, come lo scenario ucraino sta dimostrando.
Fabio Damen, 21 maggio 2014Prometeo
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- 1989: Tiananmen Square Protests
- 1990s
- 1991: Breakup of Yugoslavia
- 1991: Dissolution of Soviet Union
- 1991: First Gulf War
- 1992-95: UN intervention in Somalia
- 1994-96: First Chechen War
- 1994: Genocide in Rwanda
- 1999-2000: Second Chechen War
- 1999: Introduction of euro
- 1999: Kosovo War
- 1999: WTO conference in Seattle
- 1995: NATO Bombing in Bosnia
- 2000s
- 2000: Second intifada
- 2001: September 11 attacks
- 2001: Piqueteros Movement in Argentina
- 2001: War in Afghanistan
- 2001: G8 Summit in Genoa
- 2003: Second Gulf War
- 2004: Asian Tsunami
- 2004: Madrid train bombings
- 2005: Banlieue riots in France
- 2005: Hurricane Katrina
- 2005: London bombings
- 2006: Anti-CPE movement in France
- 2006: Comuna de Oaxaca
- 2006: Second Lebanon War
- 2007: Subprime Crisis
- 2008: Onda movement in Italy
- 2008: War in Georgia
- 2008: Riots in Greece
- 2008: Pomigliano Struggle
- 2008: Global Crisis
- 2008: Automotive Crisis
- 2009: Post-election crisis in Iran
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- 1921-28: New Economic Policy
- 1921: Communist Party of Italy
- 1921: Kronstadt Rebellion
- 1922-45: Fascism
- 1922-52: Stalin is General Secretary of PCUS
- 1925-27: Canton and Shanghai revolt
- 1925: Comitato d'Intesa
- 1926: General strike in Britain
- 1926: Lyons Congress of PCd’I
- 1927: Vienna revolt
- 1928: First five-year plan
- 1928: Left Fraction of the PCd'I
- 1929: Great Depression
- 1950s
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- 1971: End of the Bretton Woods System
- 1971: Microprocessor
- 1973: Pinochet's military junta in Chile
- 1975: Toyotism (just-in-time)
- 1977-81: International Conferences Convoked by PCInt
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Comments
Caro compagno Damen, ma davvero uno come te non ha ancora capito la differenza tra fronte popolare e fronte unico? Davvero vogliamo continuare a spararle grosse a tal punto da far coincidere l'interclassismo delle "ammucchiate" con la lotta di classe (e l'antifascismo, per dei comunisti, E' SEMPRE lotta di classe. E' questa la differenza fra antifascismo di classe e cosiddetto antifascismo borghese).
Sergio,
ti è stato già risposto politicamente un migliaio di volte, forse chi non capisce le risposte e continua a ripetere a memoria il talmud trotskista (Amen), sei proprio tu.
questi commenti lasciano il tempo che trovano e non hanno alcun interesse politico.
ti invito a rileggere alcuni testi base sul tema, non perchè tu li debba condividere, ma perchè almeno tu li conosca, poi se vuoi continuare con le tue (e di trotski) fantasie sul fronte unico, fai pure. ma non qui, per favore:
I punti della sinistra, comitato d'intesa, 1925
tesi della sinistra al congresso di lione, 1926.
inoltre
se, sulla base di questi documenti, vuoi davvero avviare un confronto serio, scrivi pure alla mail centrale del partito, altrimenti, questi tuoi intereventi sanno solo di spam.
ciao
lotusflower, ma quale talmud? Io ho sollevato questioni ben precise contenute nell'articolo, cioè la differenza fra fronte unico e fronte popolare e la visione di classe dell'antifascismo. Se volete cavarvela semplicemente dandomi da leggere i vostri pur interessanti documenti, vuol dire che forse non avete altro con cui argomentare e rispondere. Ti posso assicurare che i vostri "testi base" degli anni Venti li conosco benissimo (semmai mi chiedo quanto voi conosciate i testi altrui), ma non mi pare affatto un buon metodo quello di aggrapparsi a finte soluzioni "di principio", per così dire, e negare la realtà.
Ciao.
1) i testi che ti ho inviato (manco i link hai guardato!) partono dagli anni 20 ed arrivano agli anni 2000 (la nostra storia è lunghetta).
2) la critica della sinistra comunista è stata fin dalle origini sempre rivolta al fronte unico. La distinzione con il fronte popolare che fate voi è successiva. Noi critichiamo il fronte unico, per come lo intende la III int. dal IV congresso. Quindi nell'economia del discorso il "fronte popolare" non c'entra proprio nulla.
3) sei un trotskista, quindi uno che si appella a "finte soluzioni di principio" etc. per definizione. inutile tentare di rovesciare la critica su di noi.
4) per me la discussione è chiusa. se vuoi continuare in un soliloquio... accomodati pure.
1) perdonami, ma mi rifiuto di prendere in considerazione testi come quello della CWO, talmente zeppi di strafalcioni e cose inventate di sana pianta (non saprei da dove cominciare ad elencarli) da rendere impossibile qualsiasi serio confronto.
2) lo so. Ma il punto è che voi continuate, non so quanto intenzionalmente, a confondere il fronte unico con tattiche interclassiste e/o riformiste e/o opportuniste che mai e poi mai sono state fatte proprie della III Internazionale, neanche con il IV congresso.
3) le finte soluzioni di principio sono quelle che fanno sì che voi non riusciate ad elaborare e mettere in atto nemmeno un'ombra di articolazione pratica (= della prassi) relativa all'intervento, al rapporto con la classe e alla costruzione. La recente pesante crisi della vostra organizzazione a Roma e Bologna è lì a dimostrarlo. Ma evidentemente, proprio perché non vedete l'errore e i suoi presupposti, non siete in grado di ricavarne nessuna lezione.
4) peccato, è sempre un piacere discutere con voi. Buona declamazione del comunismo per i prossimi quindicimiladuecentosettantuno anni.
Come si nota dallo "spessore" delle risposte la discussione è proprio chiusa.
In ogni caso, chiunque volesse avere un confronto serio con l'organizzazione su questo o su altri temi è caldamente invitato ad usare la mail centrale del partito, strumento sicuramente migliore di un commento ad un articolo, per impostare una discussione positiva su questo o altri temi.
Due parole invece dobbiamo aggiungerle per l'ennesima calunnia che il povero Sergio ha ascoltato e riportato fedelmente, senza peritarsi di verificarne la consistenza. La presunta "recente pesante crisi della vostra organizzazione a Roma e Bologna" a cui fa riferimento, in realtà non è altro che l'uscita dal partito di due compagni (uno Roma e uno a Bologna), i quali ad un certo punto si sono resi conto di non essere in accordo - o forse non lo erano mai stati, chissa? - con la piattaforma teorico-politica dell'organizzazione.
Qualunque comunista con un po' di esperienza sa che i compagni si avvicinano, i compagni - specie quelli più instabili - si allontanano (sopratutto di questi tempi), ciò che resta è lo zoccolo duro, che lentamente si inspessisce: quello sul quale è e sarà possibile costruire l'ossatura del partito del proletariato di domani.
A tal proposito sembra opportuno chiudere con Brecht, in morte di Lenin, che tanti anni fa aveva già compreso e ben collocato il problema, oltre i pettegolezzi e le esagerazioni: