L'Eurozona avanza verso la federazione

All'inizio della crisi dell'Eurozona nel 2010, abbiamo notato che l'Europa era a un bivio: poteva intraprendere la strada dell'integrazione politica ed economica, oppure andare verso il collasso dell'euro e con esso dell'intero progetto europeo (1). Le classi dominanti europee, in particolare quelle tedesche e francesi, avevano sempre saputo che la mossa giusta era questa, ma c'era stata sempre una certa riluttanza nell'intraprendere passi decisivi verso l'integrazione. Queste indecisioni erano dovute a residui di nazionalismo interni agli Stati membri e alla paura di un'Europa egemonizzata dalla Germania. Tuttavia, sotto i colpi impietosi della crisi, gran parte della borghesia europea è giunta alla conclusione che non c'è alternativa.

Gli ultimi mesi hanno visto una serie di passi decisivi verso l'integrazione politica. L'evento chiave è stata la decisione della Banca Centrale Europea (BCE) di comprare quantità illimitate di titoli statali per salvaguardare l'euro. I dettagli tecnici di tali operazioni d'acquisto, chiamate “Outright Monetary Transactions” (OMT), sono stati ultimati lo scorso settembre. Ovviamente tali acquisti si portano dietro molti oneri. Il paese che ne fa richiesta deve fare domanda per un prestito al Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM) (2) e poi sottomettersi alla supervisione fiscale e di budget nonché a un “programma macro-economico di stabilità”. Quest'ultima condizione suona molto come il programma di austerità imposto a Grecia, Irlanda e Portogallo.

Con l'intensificarsi della crisi sono stati prodotti una serie di documenti da parte della Commissione Europea (CE) e hanno avuto luogo diversi incontri fra leader europei, tutti con l'obiettivo di raggiungere una maggiore unione e integrazione. I documenti più significativi da parte della CE sono stati quelli relativi ai mesi di settembre e novembre. A settembre la CE richiese un'unione bancaria all'interno dell'Eurozona, e a novembre l'Eurozona si trovò a doversi organizzare per creare un tesoro comune, per tassare e produrre bond comuni a tutti gli stati membri, i cosiddetti Eurobond. A dicembre il primo passo verso l'implementazione delle proposte contenute in questi documenti fu un summit europeo dove si decise di creare un'unione bancaria, con lo scopo di supervisionare le 200 banche più grandi d'Europa.

Queste mosse hanno riacceso la fiducia verso l'euro e il progetto europeo. Indizi in tal senso sono i capitali che hanno iniziato a riversarsi verso gli stati periferici, i quali sono stati nuovamente in grado di acquistare nel mercato internazionale. Negli ultimi 4 mesi del 2012, gli stati in pericolo nella periferia dell'Eurozona, ossia Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna (i PIIGS) hanno visto un affluenza netta di capitali privati per 92.7 miliardi di euro. Ciò indica un grosso cambiamento negli assetti del capitale finanziario globale di questi paesi rispetto agli 8 mesi precedenti, nei quali c'era stata un'emorragia di 406.4 miliardi di euro netti. A partire dall'impegno della BCE a comprare titoli a breve termine, i tassi di interesse sui titoli di Stato si sono abbassati drasticamente per tutti i PIIGS. Negli ultimi 4 mesi dell'anno, tutti questi Stati, persino la Grecia, hanno venduto con successo i propri titoli sul mercato internazionale per coprire le spese statali.

Due studi recenti, uno della Allianz, la compagnia di servizi finanziari tedesca, e un altro della banca tedesca Berenberg assieme al think tank del Lisbon Council, lodano la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l'Irlanda per aver fatto progressi nei cambiamenti strutturali, notando che la loro competitività sta aumentando e che i loro deficit stanno scendendo, mentre addirittura quello irlandese è in surplus. Il documento finale di Berenberg ha concluso che l'Eurozona potrebbe emergere dalla crisi nel 2014 con una crescita maggiore rispetto ai principali concorrenti (3).

Olli Rehn, il vicepresidente della Commissione Europea, l'11 dicembre scorso scriveva sul Financial Times con gli stessi toni ottimistici:

L'austerità sta funzionando. L'Irlanda ha nuovamente accesso al credito, sta affluendo più capitale in Spagna di quanto ne stia uscendo, l'Italia ha venduto i titoli di stato a 10 anni al tasso di interesse più basso dal 2010. Gli squilibri sui conti sono caduti.

Molte delle misure che hanno riacceso la fiducia erano state precedentemente rifiutate dalla Germania e hanno rappresentato un apparente cambio di strategia.

Un ribaltamento di strategia o una strategia a lungo termine

A ottobre il FMI iniziò a porre in dubbio l'efficacia delle misure di austerità imposte alla Grecia, concludendo che il debito non sarebbe mai stato ripagato senza una crescita. A gennaio scorso, al summit di Davos, il presidente del FMI, Christine Lagarde, andò oltre dicendo che all'Europa serviva un piano per la crescita. Queste affermazioni rappresentano un apparente apertura nella falange della cosiddetta Troika (FMI, BCE e UE), preposta a supervisionare i bilanci dei paesi a rischio salvataggio.

Tutto ciò, unito alle misure summenzionate, non è stato rifiutato dalla Germania. In effetti i falchi tedeschi erano d'accordo circa l'acquisto da parte della BCE dei titoli e sull'allentamento dei regimi di austerità. Ciò è stato notevole per quanto riguarda il caso greco. A novembre la BCE si disse d'accordo a rinunciare a 15 miliardi di euro di interessi che la Grecia avrebbe dovuto pagare sui propri titoli di stato. Un'ulteriore mossa fu abbassare il tasso d'interesse dei prestiti concessi alla Grecia dallo 0,8% allo 0,5% sotto la media interbancaria, e facendo tornare indietro tutti gli interessi che la BCE aveva maturato sui titoli greci. Fu prorogato dal 2020 al 2022 il momento in cui si stima che il debito pubblico greco raggiungerà il 115%, il che provocherà ulteriori perdite per i creditori. A novembre la Grecia fu autorizzata a usare 10.5 miliardi di euro dell'ultimo pacchetto di salvataggio per ricomprare i propri debiti nel mercato aperto. Siccome il debito veniva scambiato al 30% del proprio valore, questo avrebbe dovuto permettere alla Grecia di cancellare 35 miliardi di debiti. Il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble ha ammesso che lui e le controparti dell'Eurozona erano d'accordo per un ulteriore aiuto nei confronti del debito quando il budget primario greco avrebbe raggiunto un surplus (4). Cosa ne è stato allora dei freddi finanzieri della Bundesbank? Si tratta di un rovesciamento di strategia oppure era già prevista una diminuzione del debito e una stimolazione verso la crescita, dopo aver rimesso in sesto gli stati incriminati? Per rispondere a questo, è necessario esaminare la posizione della Germania nel rapido trasformarsi dell'economia mondiale.

La Germania e l'Eurozona

La Germania è la più grande economia dell'UE e rappresenta più del 25% di tutto il debito pubblico europeo, ed è anche il maggiore contribuente del fondo europeo. Non deve sorprendere, dunque, che si tratti di una forza chiave per affrontare la crisi dell'euro e per guidare i processi verso un'integrazione europea.

La Germania è una delle più importanti nazioni dal punto di vista commerciale. Le sue esportazioni insieme alle importazioni formano il 90% del debito pubblico. È stata la nazione col più alto export tra il 2003 e il 2008 e ha perso il primato solo nei confronti della Cina, nel 2009. Le esportazioni hanno continuato comunque a salire e nel 2011 la Germania ha rappresentato il 7.5% delle esportazioni e importazioni mondiali. In quest'anno la Germania ha commerciato a livello mondiale generando un surplus di 158.2 miliardi di euro, per quanto l'importanza che la UE rappresenta per la Germania si evince dal fatto che 119.1 miliardi di euro, ossia il 75%, arriva grazie alla UE, e la maggior parte di questi (80.3 miliardi) dall'Eurozona (5). I paesi periferici che hanno forzatamente ricevuto dei salvataggi o stanno rischiando in tal senso, sono anch'essi importanti partner commerciali. La Tabella _1_ dimostra che di questi 80.3 miliardi di entrate che la Germania ha ottenuto nell'Eurozona, i PIIGS rappresentano il 28%, ossia 23.6 milardi. Per la Germania, oltre ad essere mercati, la Spagna, l'Italia e l'Irlanda sono anche le casseforti di 84 miliardi di dollari di investimenti (6).

Paese Esportazioni Importazioni Bilancio
Italia 62.12 48.31 13.80
Spagna 34.86 22.51 12.24
Portogallo 7.03 4.68 2.34
Grecia 5.09 1.95 3.13
Irlanda 4.34 11.73 -7.91
Totale PIIGS 113.44 89.18 23.60
Per confronto
Francia 101.50 66.46 35.00
Regno Unito 65.33 44.89 20.40
Cina 64.70 79.16 -14.40
Tabella 1. Scambi commerciali della Germania coi PIIGS nel 2011, dati in miliardi di € (1€ = 1.35$ circa).

Negli ultimi due decenni, il capitale tedesco si è anche globalizzato. Il 57% degli impiegati delle 30 società più grandi facenti parte del listino di borsa DAX 30, nel 2008 lavoravano all'estero, e 6115 compagnie tedesche presentano 29000 filiali estere che comprendono 2.8 miliardi di lavoratori. Il capitale tedesco si è anche radicato nei paesi dell'Europa Orientale, in particolare in Repubblica Ceca, in Ungheria e in Polonia. Il capitale tedesco in questi paesi nel 2007 era pari, rispettivamente, a 29.6, 23.6 e 25.9 miliardi di dollari e il 25% delle importazioni dall'Europa Orientale sono adesso provenienti da affiliati di compagnie tedesche. Secondo Olli Rehn, vice presidente della Commissione Europea:

I paesi centrali dell'Europa sono ora parte integrante della catena di distribuzione tedesca.

Il totale dell'Investimento Diretto Estero (IDE) tedesco è stato nel 2010 di 1.42 trilioni di dollari, ossia approssimativamente 3 volte quello del 2000, e più del 60% di esso è relativo alla UE (7).

Questi dettagli indicano la tensione all'internazionalizzazione del capitalismo tedesco, ma anche l'importante ruolo giocato dall'UE in esso. Ad ogni modo, gli equilibri del commercio mondiale stanno cambiando e il capitale tedesco deve modificarsi di conseguenza.

La Germania e l'ascesa delle economie asiatiche

Sin dai primi anni Novanta, la posizione della Germania nell'ambito del commercio globale ha subito un declino lento ma inarrestabile. Ciò per via dell'ascesa delle nazioni asiatiche, e in particolare della Cina. Ciò è visibile nella Figura 1.

Figura 1. Esportazioni di capitale.
Figura 1. Esportazioni di capitale.

La Cina è diventata una potenza chiave nell'ambito del capitalismo globale e il suo giro commerciale è oggi quasi uguale a quello degli USA. È uno dei paesi maggiormente scelti dagli investitori stranieri ma anche uno dei più grandi esportatori di capitale. Nel 2011 l'IDE affluito nelle casse cinesi ammontava a 111.9 miliardi di dollari, mentre il capitale esportato ammontava a 77.2 miliardi di dollari ossia circa il 70% del capitale giunto nel paese. Non deve dunque sorprendere il fatto che le nazioni capitaliste più antiche, in particolare USA e Germania, stiano provando a orientare il loro commercio verso la Cina e verso le altre potenze economiche asiatiche.

La Figura 2 mostra il netto aumento del commercio tedesco nei confronti di quelli cinese durante gli ultimi vent'anni.

Figura 2. Interscambio Germania-Cina.
Figura 2. Interscambio Germania-Cina.

Da circa 12 miliardi di euro nel 2000, il volume commerciale è cresciuto di 17 volte fino a toccare i 202 miliardi di dollari (150 miliardi di euro). Gli investimenti tedeschi in Cina ammontano adesso a 26 miliardi di euro, mentre quelli cinesi in Germania a 1.2 miliardi (8). Ad oggi esistono 1300 imprese cinesi fondate in Germania. L'ambasciatore cinese in Germania Wu Hangbo ha affermato:

Le strutture economiche dei due paesi sono reciprocamente complementari più che in competizione. La maggiore capacità manifatturiera cinese completerà la superiorità tecnologica tedesca (9).

Quando l'ambasciatore parla della grande capacità cinese in ambito manifatturiero si riferisce, ovviamente, ai minori costi della forza lavoro cinese che sono circa 1/20 di quelli europei. La Germania e la UE non possono competere abbassando le caratteristiche tecniche del manifatturiero e dovranno in futuro guardare a una complessità e sofisticazione maggiore in questo senso. Ciò può essere raggiunto incorporando manodopera di minor valore cinese all'interno di di quella tedesca ad alta tecnologia. La Germania sta tentando di incorporare la produzione cinese nella sua filiera di produzione e l'incremento del volume commerciale e del deficit cinese indica il sentiero percorso dalla borghesia tedesca.

Tale nuovo orientamento del commercio tedesco è stato illustrato dal Cancelliere tedesco Merkel in visita in Cina nel giugno 2011, visita durante la quale ha firmato un accordo di scambi commerciali per 10.6 miliardi di euro, coinvolgendo le maggiori aziende tedesche: Airbus, Volkswagen, Siemens e altre. Inoltre si è detta d'accordo col primo ministro cinese Wen Jiabao di aumentare il volume commerciale annuale di un terzo, toccando i 200 miliardi di euro.

Per il capitalismo tedesco sarebbe un disastro se, in questo mondo in via di cambiamento, crollasse l'Eurozona, l'euro e l'intero progetto europeo. Piuttosto che permettere la disintegrazione dell'Eurozona, la Germania deve mantenere la UE come un mercato casalingo e modellarlo in base alle necessità d'accumulazione del proprio capitale. Similmente, la moneta unica dev'essere mantenuta. Si stima che il solo uso dell'euro nell'Eurozona salvaguardi il capitalismo tedesco dalle spese di cambio per 10 miliardi di euro annui, e, ovviamente, stimoli lo scambio commerciale all'interno dell'Eurozona (10). L'euro oggi opera come una valuta globale di riserva ed è usato per lo scambio internazionale, cosa che conferisce al capitale situato all'interno dell'Eurozona un significativo vantaggio nell'ambito dello scambio internazionale. Esso inoltre abilita l'Eurozona a drenare una grossa fetta di plusvalore globale all'interno dell'area attraverso il controllo della moneta tramite la BCE, come discusso oltre. Mentre tutto ciò sembra del tutto ovvio, l'apparente ambiguità della Merkel e dei suoi scagnozzi nei confronti della crisi dell'euro deve essere spiegata.

La strategia della classe dominante tedesca si è basata sull'utilizzare la crisi come copertura per spingere i costi delle riforme che ribadiscono necessarie per gli Stati periferici dell'Eurozona verso quegli stessi Stati, attraverso draconiani programmi di austerità. Una volta che l'austerità ha fatto il suo corso, si può andare avanti con l'integrazione dell'Eurozona. Tuttavia, i programmi di austerità hanno prodotto dure cadute nel PIL dei PIIGS (13) e nei debiti sovrani, cadute così dure che altra austerità produrrebbe solo un avvitamento verso il collasso economico. Se l'Eurozona vuole sopravvivere, è necessaria un'integrazione economica e una condivisione dei debiti, ossia l'Eurozona deve diventare una “transfer union” come uno Stato federale vero e proprio (12). Se l'Eurozona fosse uno Stato singolo, il suo deficit e il debito pubblico sarebbe molto migliore rispetto a quello degli USA e del Regno Unito. Ciò significa, ovviamente, che l'enorme surplus commerciale della Germania dovrà in un certo qual modo venir redistribuito coi paesi in forte deficit. La classe dominante tedesca si è resa conta di questo, ma è comunque determinata a esigere il prezzo più alto possibile dagli Stati periferici.

L'implementazione dei regimi di austerità è stata accompagnata da una campagna ideologica contro quelli che, secondo la classe dominante tedesca, sono gli Stati “delinquenti”. Questi Stati vengono castigati in quanto ritenuti responsabili di ciò che sta a loro avvenendo, le rispettive borghesie vengono accusate pesantemente di disonestà e lassismo, e le classi lavoratrici di conseguenza sono ritenute pigre e allergiche al lavoro, nonché abituate a vivere al di sopra delle loro possibilità e sulle spalle dello Stato grazie alle pensioni anticipate. Tutto questo ha innescato la miccia delle ultime tracce di nazionalismo in questi paesi, cosa che ovviamente viene considerata come una minaccia per l'intero processo di integrazione. Eppure la drammaticità della loro situazione economica sta tirando fuori tutto ciò, costringendoli ad adeguarsi ai piani tedeschi. Le borghesie locali non vedono alternative.

Ristrutturando il capitale e riducendo la qualità di vita dei lavoratori

L'austerità ha rappresentato un attacco frontale al salario diretto dei lavoratori e una riduzione del salario indiretto che ricevono dallo Stato, un attacco che non ha precedenti dalla Seconda Guerra Mondiale. Questa macelleria ha prodotto un massiccio incremento della disoccupazione e un netto peggioramento delle condizioni di vita. La disoccupazione nell'Eurozona è, in media, pari all'11,7% della forza-lavoro, ossia 18.8 milioni di lavoratori, più o meno le popolazioni del Portogallo e dell'Austria messe assieme! Nei paesi sottoposti a procedure di salvataggio, la percentuale dei disoccupati è molto più alta: in Grecia il 26,8%, in Spagna il 25%, in Portogallo il 16,5%, in Irlanda il 14,6% e in Italia l'11,2% [percentuali ad oggi aumentate, N.d.T.], mentre la disoccupazione giovanile supera il 50% in Grecia e in Spagna. Gli impiegati statati hanno pagato lo scotto di quest'attacco con cassa integrazione e tagli dei salari (14). In Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna i tagli diretti dei salari degli statati sono stati, rispettivamente, del 5, 10, 5,8 e 8,5%, mentre in Italia gli stipendi sono stati congelati. Riduzioni del salario minimo sono state imposte all'Irlanda e alla Grecia rispettivamente dell'11,5% e del 22%. Le vacanze e i bonus sono stati tagliati, così come le pensioni mentre l'età in cui si va in pensione è salita. Allo stesso tempo sono state rimosse tutte quelle protezioni in dotazione ai lavoratori in merito ai licenziamenti, alla cassa integrazione ecc.

La classe lavoratrice europea ha dimostrato di non essere in grado di resistere a questo attacco frontale, e malgrado una dura resistenza in Grecia e in Spagna, la borghesia è riuscita a far passare tutte queste misure. Nei paesi maggiormente colpiti come la Grecia e la Spagna si sta assistendo a una totale pauperizzazione della classe lavoratrice, mentre in Irlanda i lavoratori stanno intraprendendo nuovamente la strada dell'emigrazione. Per la borghesia, comunque, queste misure hanno apportato una riduzione dei costi del lavoro. Dal 2008 i costi diretti del lavoro in Irlanda e Grecia sono crollati dal 6,3 al 4,4% rispettivamente, e negli ultimi due anni sono crollati anche in Spagna e Portogallo. Un report del Conference Board ha calcolato che da quando la riduzione dei costi indiretti del lavoro è stata avviata, tali costi in Irlanda dal 2008 sono crollati del 42%! (15)

Il regime di austerità ha anche portato una ristrutturazione dei capitali nazionali nei PIIGS, con lo scopo di rafforzare la competizione nell'Eurozona e di beneficiare di formazioni di capitali più forti. I beni di sono in via di privatizzazione e venduti al capitale internazionale. Le industrie a parziale controllo statale, come quelle riguardanti la produzione di energia e il settore della distribuzione, stanno subendo la rimozione delle protezioni. Le attività sotto la protezione dello Stato come quelle delle “utilities”, le farmaceutiche, i taxi e altre ancora stanno subendo rimozioni protettive per renderle più competitive. I sussidi di stato alle industrie, anch'essi, si stanno assottigliando. Un esempio di tutto ciò è l'abbassamento dei sussidi dello stato spagnolo verso le miniere di carbone che, in ultima analisi, finirà per farle chiudere. Il dominio dello stato si sta assottigliando e le stesse strutture statali sono in via di trasformazione. I dipartimenti del governo sono al centro di tagli, parte di un vasto e massiccio programma di esuberi, mentre gli statali stanno perdendo i benefit, come bonus e vacanze. Al tempo stesso la tassazione generale, come l'IVA, si sta alzando.

Quanto descritto sopra non è ovviamente circoscritto ai Paesi della periferia dell'Eurozona, ma è anche una descrizione di quanto sta avvenendo, in minor maniera, in molti altri Paesi dell'UE, come per esempio la Gran Bretagna. Tutto questo è parte di una strategia portata avanti dalla borghesia europea e volta a trasferire il fardello della crisi sulle spalle della classe lavoratrice. Tuttavia, le borghesie locali degli Stati “delinquenti” dell'Eurozona sono costrette a rinunciare ad alcuni privilegi nell'interesse dalla borghesia europea generale. Ciò cui stiamo assistendo è un incorporazione a suon di martellate di questi Paesi all'interno della grande federazione dell'Eurozona.

La Federazione dell'Eurozona

Alla fine di novembre scorso la Commissione Europea ha pubblicato un documento di 51 pagine che ha definito i passi necessari per la sopravvivenza della moneta unica. Tale documento ripete molto di quanto già presentato al summit europeo del mese precedente e rappresenta la futura strategia della borghesia dell'Eurozona. Il documento, presentato dal Presidente della Commissione Europea, Barroso, sostiene che l'Eurozona dovrebbe acquisire gli stessi poteri di un governo nazionale, incluso un Tesoro singolo, il potere di tassare e di immettere sul mercato bond comuni. Ci dovrebbe essere un ricambio al vertice, un budget integrato e un'unione fiscale.

Il summit europeo di metà dicembre scorso ha dato vita al primo vero passo in questo senso concordando sull'unione bancaria. In tal modo, un singolo meccanismo di supervisione sotto il controllo della BCE avrà la diretta responsabilità per le 200 maggiori banche europee e il diritto di supervisionare le riserve per eventuali emergenze. Ciò sarà a pieno regime nel marzo 2014. Questi poteri si aggiungono a quelli garantiti alla BCE nell'ambito del programma di acquisto dei bond, le cosiddette “Outright Monetary Transactions” (OMT) lanciate lo scorso agosto. I paesi che sottoscrivono questo programma dovranno sottostare a regimi di budget e di tassazione approvati dalla BCE, mentre la BCE avrà il potere di prestare denaro direttamente alle banche. Questo processo limita fortemente la responsabilità dei singoli Stati in merito al budget, alla tassazione e alla supervisione bancaria. Essa rappresenta una riduzione significativa del potere degli Stati nazionali e uno slittamento dei poteri verso la BCE e gli organi centrale dell'Eurozona.

Tale accordo, quando sarà giunto a termine, sarà la misura più significativa in ambito di integrazione politica a partire dalla creazione della valuta comune. Essa rappresenta un passo in avanti verso il sentiero delineato dal documento della Commissione Europea presentato a novembre, che alla fine vedrà quest'ultima assorbire gli stessi poteri di un governo federale, operando sul tesoro europeo, implementando la politica fiscale europea, gestendo le tassazioni, supervisionando i budget nazionali, emettendo bond e così via, mentre i governi nazionali si dovranno sottomettere al potere federale come se fossero autorità locali.

Stiamo assistendo al lento ma progressivo avanzare verso una federazione europea con la Germania al vertice. Le implicazioni di tutto ciò sono enormi. Si sta verificando uno spostamento significativo del capitalismo globale, cosa che porterà inevitabilmente verso uno spostamento del potere e dell'imperialismo globale. La domanda alla quale dobbiamo rispondere, comunque, è: riusciranno queste misure a risolvere la crisi del capitalismo europeo?

Le radici della crisi

L'economia borghese ha abbandonato da lungo tempo la classica teoria del valore, che basava le proprie analisi sulla premessa che il lavoro ne fosse l'unica fonte. Essa, invece, ha iniziato dalla premessa che il valore è un concetto soggettivo dipendente dall'“utilità marginale”. Mentre la teoria del valore è in grado di analizzare i processi produttivi e la generazione del plusvalore e conseguentemente del profitto per tutto il sistema, la teoria economica borghese avvia la sua analisi da una posizione soggettivista, tipica dell'utilità marginale, ed enfatizza il concetto di scambio e l'impresa personale. Paul Mattick scrisse:

L'utilità marginale è la costruzione di una concezione di valore che giustifica la classe dominante e le differenze di ricchezza. Le ineguaglianze esistenti basate sullo sfruttamento del lavoro si spiegano con l'indistruttibile legge naturale dell'utilità decrescente (16).

L'economia borghese è fondamentalmente una scienza che giustifica il sistema vigente ed è incapace di riconoscere qualsivoglia problema sistemico insito nel capitalismo. La crisi odierna viene inquadrata come un problema temporaneo in un sistema fondamentalmente sano, che può essere risolto aggiustando il tiro. Il fatto che le crisi siano ricorrenti e che crescano in durezza, viene addotto a problemi contingenti che, per qualche strana ragione, sembrano tornare sempre più frequentemente. Non deve dunque sorprendere che i teorici dell'economia borghese siano così divisi sulle radici della crisi e sulle sue soluzioni. Due grandi scuole di pensiero dominano l'analisi della crisi dell'Euro.

La prima vede la crisi come il risultato di prestiti senza controllo, inefficienze strutturali e condizioni di lavoro poco flessibili. La soluzione è: riforme strutturali, flessibilità del mercato del lavoro, contenimento delle spese statali e raggiungimento di un deficit minimo. Inutile dire che sono a favore dell'austerità.

La seconda, i cui fautori si autodefiniscono neo-keynesiani, vedono la crisi come una filiazione della mancanza di domanda. Auspicano lo stimolo efficace della domanda attraverso la spesa pubblica.

Ciascuna di queste soluzioni viene derisa dalla scuola avversa. Da un lato la fazione dell'austerità asserisce che i prestiti eccessivi hanno portato alla presente crisi e che altri prestiti semplicemente peggiorerebbero le cose. Dall'altro lato i keynesiani fanno notare che l'austerità sta causando la contrazione dell'economia, incrementando i deficit e la necessità per i governi di chiedere prestiti, ossia la ragione centrale della crisi per i fautori dell'austerità. Entrambi i gruppi sono d'accordo che l'unica via per uscire dalla crisi è attraverso la crescita. Per i neoliberisti, le riforme strutturali e la flessibilità del lavoro produrranno crescita attraendo investimenti di capitali. Per i keynesiani, lo stimolo della domanda servirà a produrre crescita innalzando l'attività economica.

Entrambe le scuole di pensiero hanno dimostrato nel corso della storia di essere errate, poiché le politiche da loro auspicate non hanno evitato le crisi. Il fatto che entrambe siano corrette nelle loro vicendevoli critiche è indice di come le teorie economiche borghesi siano finite in un vicolo cieco. La classe dominante non comprende né le cause della crisi, né come deve agire.

La critica marxista al capitalismo ha sempre tentato di mettere in relazione il mondo fenomenico del capitalismo con i sottostanti rapporti di produzione. Partendo da quest'analisi, le crisi sorgono dalle contraddizioni insite nei rapporti di produzione capitalistici, da cui si risale alla radice del problema, ossia allo sfruttamento della forza-lavoro salariata, e ciò si può comprendere solo attraverso la teoria del valore. Noi sosteniamo, e lo abbiamo spiegato in numerosi testi, che la presente crisi è l'espressione della caduta tendenziale del saggio del profitto per via della crescente composizione organica del capitale. La crisi finanziaria deriva da questo. Un quadro esplicativo che dimostri il collegamento tra la caduta del rendimento degli investimenti e la crisi finanziaria può essere abbozzata brevemente. Questo fenomeno è avvenuto perché il ridotto saggio di profitto ha allontanato gli investimenti dalla sfera produttiva, portando le banche e le finanziarie a usare i propri capitali per speculazioni edilizie, titoli di Stato, proprietà commerciali ecc., investimenti che avrebbero potuto invece rivolgersi nell'ambito industriale. Per quanto tali operazioni sembrino generare profitto, poiché il valore di tali asset è cresciuto, si tratta in realtà di un profitto apparente non basato direttamente sullo sfruttamento dei lavoratori nella sfera produttiva. Questo profitto apparente è basato su capitale nuovo di zecca immesso nel mercato e che fa innalzare i prezzi. Tutto ciò ha generato una bolla nel valore delle azioni.

In ultima analisi, comunque, tutto il profitto nel sistema capitalista deriva dallo sfruttamento dei lavoratori nel processo produttivo. L'analisi del valore mostra che, per l'economia nel suo complesso, “profitto totale = plusvalore totale” (17). Evidentemente, nel contesto finanziario, ciò non trovava apparente riscontro e, quando il flusso di capitale nei mercati si è prosciugato, la bolla è esplosa e i prezzi sono crollati. Molte di queste cosiddette azioni che le banche trattengono come “collateral” e sulle quali basano il loro potere di concedere prestiti sono, di colpo, diventate carta straccia; questo perché i profitti che loro pensavano di avere in tasca non erano fondati sullo sfruttamento diretto dei lavoratori nella sfera produttiva. Il risultato è stato l'esplosione della crisi nella sfera finanziaria. Questa esplosione è sorta, comunque, da problemi insiti nella stessa sfera produttiva, ascrivibili alla caduta tendenziale del saggio del profitto del capitale industriale.

La nostra tendenza ritiene che solo una massiccia svalutazione del capitale costante possa invertire la caduta tendenziale del saggio del profitto. Finora solo una minima quota di capitale è stata eliminata, e si trattava di una piccola parte del debito greco. È necessario cancellare una parte ben più grande di debito per ridare ossigeno al profitto. Ciò deve essere avviato non solo in Grecia ma per tutti i PIIGS. Le misure che sono state portate avanti, come i cambiamenti strutturali, l'assottigliamento dei poteri degli Stati e la riduzione del costo del lavoro hanno come scopo quello di migliorare il problema del profitto, ma non lo risolveranno. È necessaria la cancellazione di una parte massiccia del debito.

È possibile che la borghesia europea stia organizzando una mossa simile, una volta che il regime di austerità abbia fatto il proprio corso, siccome è ormai certo che i debiti non possono essere ripagati. La situazione è analoga a quella della crisi del debito dell'America Latina sul finire degli anni 1980, risolta attraverso un passaggio del debito verso i bond del tesoro USA, con la creazione dei cosiddetti Titoli Brady. Grazie a questo escamotage i creditori furono forzati a cancellare ingenti fette dei loro debiti, a volte fino al 70%. La centralizzazione del potere economico in senso federale darebbe alla BCE maggiore controllo sulla crisi europea, e la capacità di far rispettare una soluzione in tal senso. Genererebbe inoltre una svalutazione dell'euro ben più semplice e in grado di rendere le esportazioni più competitive e riesumerebbe la crescita. Mentre è possibile immaginare le forze economiche che guidano la borghesia, il sentiero che seguirà è pura speculazione. È comunque possibile predire che tutte le loro azioni non risolveranno alla base i problemi che hanno portato a questa crisi, in quanto nessuno Stato o insieme di Stati è preparato a svalutare sufficientemente il proprio capitale per far ripartire il saggio del profitto, mentre i capitali dei loro concorrenti rimangono intatti. Fare ciò significherebbe commettere un suicidio economico. È necessaria una svalutazione generale e globale del valore del capitale, e ciò è possibile solo attraverso una guerra mondiale.

Gli equilibrio imperialistici stanno cambiando

La creazione di una potenza europea di tipo federale cambierà l'equilibrio del potere imperialistico nel mondo. Tutta la UE ha un PIL più alto degli USA, ma finora non ha avuto la forza politica necessaria per lottare indipendentemente per i propri interessi. Non appena la UE si rivolgerà economicamente alle nascenti potenze asiatiche, la rivalità con gli USA diventerà ancora più scontata di quanto sembri ora, e gli interessi divergeranno ancor più nettamente. Con il rafforzamento politico, l'Eurozona è destinata a trasformarsi in un polo dell'imperialismo e di conseguenza a scontrarsi con gli USA e la Cina. Oggi, la UE agisce di concerto con gli USA e garantisce supporto ai loro interventi, per esempio nel Nord Africa e nell'Asia Occidentale. Gli interventi semi-autonomi, come in Libia e più recentemente in Mali, hanno il supporto degli USA. Nel futuro, comunque, la UE è destinata ad agire in maniera più indipendente per tutelare i propri interessi.

L'integrazione della UE è anche legata al rafforzamento dell'euro e, in particolare, al suo ruolo come valuta di riserva e di scambio mondiale. Entrambi questi ruoli rappresentano una sfida diretta per il dollaro (19). Sin dal 1971 il dollaro è stata una valuta “fiat”, ossia sostenuta solamente dalle promesse dei governi degli USA (20). Comunque, dato che il dollaro è rimasto la valuta più importante nel mercato globale, particolarmente per quanto riguarda quello del petrolio e del gas, e siccome gli USA hanno l'esclusivo controllo di questa valuta, ciò permette loro di aumentare il volume di dollari in circolazione per eguagliare l'aumentare degli scambi globali. Ciò conferisce agli USA diversi vantaggi, in particolare la capacità di finanziare il proprio deficit e di svalutare i propri debiti stampando dollari. È stato stimato che ogni anno gli USA guadagnino circa 500 miliardi di dollari attraverso queste operazioni. L'euro è una sfida diretta a tutto ciò. La sua creazione era tesa a deviare parte del plusvalore estorto tramite il dollaro verso l'Europa e da 13 anni a questa parte ha iniziato ad avere successo in tale compito (21). Gli USA non vogliono sicuramente cedere i privilegi che il dollaro gli conferisce senza lottare. Più l'euro aumenta la propria minaccia verso il dollaro, maggiormente cresce un'importante fonte per un futuro scontro imperialistico.

La posizione del Regno Unito in tutto ciò sta diventando sempre più difficile da difendere. Per decenni essi ha assunto una posizione di mezzo, mantenendo un piede nel blocco europeo e uno in quello statunitense. Per quanto i suoi interessi siano legati alla UE, il Regno Unito si è sempre sganciato da una collaborazione totale per via della debolezza politica dell'Unione. Ha trattato la UE come un semplice partner commerciale, cercando in ultima analisi di boicottarne l'unificazione politica, auspicando la più larga estensione possibile dell'unione. Gli sviluppi degli ultimi anni hanno gettato questa politica verso il binario opposto, e ora vediamo che il Regno Unito sta auspicando un'unione politica ed economica dell'Eurozona. Ma, comunque, chiede di restare fuori da tale unificazione. La classe dominante inglese è irrimediabilmente divisa sul da farsi. Lasciare la UE significherebbe il disastro economico, mentre entrare totalmente nel blocco europeo darebbe un serio colpo negativo al rinomato ottimo rapporto cogli USA.

Gli USA, comunque, sperano di avere l'Europa come alleato per i conflitti futuri e hanno chiaramente detto che preferirebbero il Regno Unito all'interno del blocco europeo. La loro strategia è quella di tenersi un forte alleato all'interno della UE in grado di agire in loro supporto, evitando al tempo stesso che la UE mini alla base l'equilibrio presente del potere e gli interessi degli USA.

Lo spostamento dell'equilibrio del potere imperialistico è un riflesso dello spostamento dell'equilibrio del potere economico. Per gli USA e per la UE l'ascesa del dragone cinese getta ombre all'orizzonte e minaccia l'equilibrio globale che è rimasto tale sin dal crollo del blocco russo nel 1989. È comunque una minaccia a lungo termine, più che immediata. Al momento un certo numero di poli imperialistici si stanno consolidando, ma la formazione di blocchi che potrebbero far precipitare il mondo in un altro conflitto globale è ancora ai primi vagiti.

CP

(1) Cfr. RP 54 “La crisi finanziaria ingolfa l'Eurozona”

(2) Il Meccanismo Europeo di Stabilità è stato messo in moto a settembre. Sostituisce l'EFSF.

(3) Tratto dal Financial Times del 30-11-2012

(4) Tratto dal Financial Times del 28-11-2012

(5) Cfr. Federal Ministry of Economics and Technology “Dettagli del commercio estero tedesco nel 2011”

(6) Cfr. il report centrale del Vale Columbia, 2010-04-09.

(7) Cfr. Il Libro dei Fatti. L'ammontare dell'Investimento Estero Diretto della germania è il quarto più grande dopo gli USA, il Regno Unito e la Francia.

(8) Cfr. il Financial Times del 2012-08-28.

(9) Riportato dal China Daily del 2011-10-22.

(10) Citazione dell'UBS riportata dal Financial Times, 2011-09-21.

(11) Cfr. per esempio RP 54 “La crisi finanziaria ingolfa l'Eurozona”.

(12) Cfr. “La Germania e la globalizzazione” di D. S. Hamilton e P. Quinlan: transatlantic.sais-jhu.edu

(13) Dallo scoppiare della crisi nel 2008, il PIL è crollato del 5,5% in Portogallo, del 5% in Irlanda, del 7% in Italia, del 25% in Grecia e del 4% in Spagna. A parte il caso greco, esso rappresenta solo un terzo di quanto accaduto nei paesi dell'Europa dell'Est. Nel periodo fra il 1989 e il 1994 il PIL crollò del 17,8% in Polonia, del 21,4% nella Repubblica Ceca, del 25,1% in Slovacchia e del 18,3% in Ungheria.

(14) I lavoratori del settore privato hanno ricevuto sconfitte strategiche negli anni 1980 e 1990 e la loro resistenza è stata minata alla base dalla globalizzazione e dallo spostamento della produzione verso le aree dove la forza-lavoro è più economica.

(15) Riportato nel Financial Times del 2012-07-31. Dovremmo fare attenzione al fatto che i costi derivanti dal sostentamento dei disoccupati ricadono sugli stati e non saranno inclusi in questo calcolo.

(16) Cfr. marxists.org

(17) Cfr. per esempio RP 62 “La tendenza alla caduta del saggio del profitto, la crisi e i suoi detrattori”.

(18) Marx, Il Capitale, terzo volume, capiolo X

(19) Nel 2011 il PIL della UE ammontava a 17,05 migliaia di miliardi di dollari (12.63 in euro), laddove l'ultimo riscontro per gli USA dava il PIL a 15.09 migliaia di miliardi di dollari.

(20) È stato il caso per tutte le valute a partire dal 1971 perché fino a quella data le altre valute erano sostenute dal dollaro che era a sua volta sostenuto dall'oro.

(21) Nel 2011 il 26% delle riserve mondiali erano in euro (tratto dal Frankfurter Allgemeine Sonntagszeiting 26-06-2011). Riportato in RP 59 “Il capitale tedesco e la crisi dell'euro, i limiti di un progetto espansionistico”.

Martedì, January 14, 2014

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.