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Home ›Brevi note su “beni comuni”, espropriazione, accumulazione
Introduzione
È passato quasi un quarto di secolo dal crollo dei regimi dell'est europeo, ma, come abbiamo spesso sottolineato, il polverone alzatosi dalle macerie dello stalinismo è ancora in circolazione a confondere le cose. L'implosione dell'URSS ha ucciso nella mente e nel cuore del proletariato (almeno, di strati significativi) la speranza in un'alternativa al capitalismo, indipendentemente dal fatto che quella speranza – che è anche la nostra – fosse molto mal riposta, poiché il famigerato “socialismo reale” era solo una variante statalista del capitalismo.
La borghesia, con l'enorme potenza di fuoco dei suoi mass media, ha avuto buon gioco a presentare il disfacimento repentino dell'ex “impero del male” come la prova provata del fallimento stesso del marxismo, considerato questo, nella migliore delle ipotesi, una generosa utopia o, più spesso, un'ideologia autoritaria, incubatrice di regimi forzatamente oppressivi. Che fossero oppressivi, nessun dubbio (in ogni caso, erano in numerosa compagnia), che avessero qualcosa a che fare con Marx, parecchi... Effetto collaterale, ma non tanto, di quel cataclisma è stata la diserzione in massa del personale politico che nei decenni precedenti aveva occupato da protagonista la scena movimentata della “sinistra”, avendo ricevuto, appunto, la conferma che l'armamentario teorico di cui si era servito – non da ultimo, per costruire brillanti carriere universitarie – era inutilizzabile o, meglio, che in fondo non era mai stato utilizzabile per trasformare la società. Marx è così solo un filosofo con una spiccata propensione allo schematismo, Engels un'anticaglia del positivismo ottocentesco, per non dire di Lenin, al cui confronto un ottuso mastino con la bava alla bocca sembra un mite chihuahua.
Rimaneva e rimane, però, il fatto che la “libertà” assaporata dalle “genti” dell'Europa centro-orientale ha un sapore amaro, spesso disgustoso, che non solo quella regione, ma il resto del mondo è attraversato da ineguaglianze sempre più profonde, così come rimane, e si aggrava, quella crisi mondiale del capitalismo – all'origine degli avvenimenti del 1989 – a cui si devono le suddette ineguaglianze, l'impoverimento del proletariato e di settori crescenti del cosiddetto ceto medio, la rapina universale a danno dei “popoli” da parte della finanza internazionale, la devastazione ambientale ecc.; in breve, il degrado delle condizioni complessive di esistenza.
Si tratta, dunque, di mutamenti drammatici, a cui la piccola borghesia cerca di dare una risposta facendo ricorso a uno strumentario ideologico vecchio quanto il capitalismo, ma che essa, dopo il fallimento di quello che credeva essere il “marxismo”, ritiene il non plus ultra della modernità. È il socialismo reazionario e piccolo borghese di cui parlava il Manifesto del Partito Comunista, che rinasce riadattando ai nostri tempi l'abito di sempre. In fondo, è un'operazione ideologica uguale e contraria a quella del pensiero dominante della borghesia, che ha rigettato (a parole) il keynesismo, per riscoprire il liberismo delle origini, come se bastasse il linguaggio dell'adolescenza del capitalismo per fargli acquistare il vigore della giovinezza. Ammesso e non concesso, naturalmente, che il liberismo di una Tatcher o di un Monti sia lo stesso liberismo di Adam Smith.
“Beni comuni” e riformismo fuori tempo massimo
Oggi, tra il disorientato “popolo della sinistra”, a cui decenni di propaganda martellante hanno estirpato quasi completamente ogni riferimento classista, va per la maggiore un concetto che è diventato la bandiera di un movimento di massa (relativamente parlando) ossia la difesa dei cosiddetti beni comuni dalla rapacità di un capitalismo incapace di controllare i propri istinti predatorii, che si manifestano nel rullo compressore delle privatizzazioni. La preservazione dei beni comuni diventa in tal modo il nucleo attorno a cui coagulare coloro che, in un modo o nell'altro, sono travolti dallo tsunami del neoliberismo.
Che cosa si intende con il concetto di “beni comuni”? Intanto, nella letteratura corrente c'è un riferimento esplicito alle recinzioni delle terre collettive, fenomeno che cominciò ad apparire nell'Inghilterra del XV-XVI secolo, quando settori della borghesia e della nobiltà presero a impadronirsi con la violenza – benedetta dallo Stato – delle proprietà di villaggio. Nel ricorso a quel concetto c'è, dunque, l'idea di un insieme di beni che interessano tutti – o quasi – al di là delle divisioni di classe, che i “benecomunisti” non riconoscono o riconoscono come secondarie. Giusto per dare qualche punto d'orientamento sulla categoria “bene comune”, vale la pena richiamare questo elenco:
E ormai non si tratta solo di terre o risorse naturali, ma di un'amplissima gamma di beni e servizi necessari alla sussistenza degli umani e al loro benessere collettivo […] l'acqua, la terra, le foreste e la pesca navale […] i saperi locali, i semi selezionati, il patrimonio genetico […] la biodiversità […] l'atmosfera, il clima […] la pace, ma anche la conoscenza, i brevetti, Internet, cioè tutti quei beni che sono frutto della creazione collettiva [e poi] i servizi pubblici […] quali: erogazione dell'acqua, della luce, il sistema dei trasporti, la sanità, la sicurezza alimentare e sociale, l'amministrazione della giustizia, la previdenza sociale... (1).
Come recita un noto spot televisivo, “di tutto, di più” o, detto in altri termini, una bella confusione, dato che nei “beni” soggetto a privatizzazione ci sono cose molto diverse e che solo in parte, se non in piccolissima parte, possono essere considerate collettive. Tolte l'atmosfera, la Terra, il clima (ma...), un conto sono i residui delle antiche comunità contadine-indigene di quello che era chiamato il Terzo Mondo (2), un altro i servizi sociali e i servizi pubblici in generale, da decenni sottoposti a privatizzazione, per non dire smantellamento puro e semplice. Nel primo caso, delle antiche comunità è rimasto ben poco, dopo secoli di inserimento delle loro regioni nel capitalismo, prima commerciale e poi industriale. Ciò non toglie, naturalmente, che il processo di spossessamento e disgregazione di quelle comunità, condotto con la violenza impersonale del mercato e con quella delle formazioni armate (statali o meno) della borghesia, non abbia subito un'accelerazione in questi ultimi decenni, né che la causa di quelle popolazioni debba essere guardata con sufficienza dai comunisti: non è così. Il punto è che, mentre occorre inquadrare il fenomeno, per molti aspetti drammatico, nelle convulsioni di un sistema economico corroso dalla crisi, allo stesso tempo bisogna indicare delle prospettive politiche che non mirino al rabberciamento di situazioni storicamente compromesse, ma che inseriscano la resistenza, non di rado eroica, di quei gruppi umani nel solco di una più generale e coerente risposta di classe al capitale. Giustissimo lottare contro l'abbattimento delle foreste o lo sgombero di interi villaggi per far posto alla grande azienda agricola o a giganteschi complessi industriali, tuttavia rimangono battaglie di retroguardia, che, al massimo, possono rallentare il processo, ma non fermarlo. Lottare, sì, dunque, ma non per sognare la restaurazione di un modo di vivere che non si innalza al di sopra di una stentata sopravvivenza (3), bensì per farne una leva volta allo scardinamento di quei rapporti sociali che hanno la distruzione e la violenza inscritte nel loro DNA. Idealizzare il “locale” così com'è non porta da nessuna parte, se non nel mondo dei sogni che causa, quando e se ci si sveglia, amari risvegli, vale a dire disillusione, anticamera alla resa senza condizioni nei confronti del capitalismo.
Lo smantellamento, la privatizzazione e la conseguente monetizzazione dei servizi sociali, pur esprimendo la stessa logica predatoria del capitale, non ha niente a che fare, neppure apparentemente, coi “beni comuni”, perché la sanità, le pensioni, la scuola e l'erogazione di determinati servizi a prezzi calmierati non sono mai state beni “collettivi”, ma forme del salario indiretto e differito o, per quanto riguarda l'energia elettrica, l'acqua, i trasporti pubblici, prestazioni finanziate con le imposte generali, versate, com'è noto, per lo più dal mondo del lavoro salariato e dipendente. Volendo fare una battuta, beni comuni, sì, ma a vantaggio della borghesia, che, usufruendo della scuola detta pubblica, della sanità, ecc., si appropria di una parte del reddito proletario e piccolo borghese, rastrellato dallo stato con l'imposizione fiscale. L'accostamento alle “enclosures”, le recinzioni delle terre comuni in Inghilterra, è pertinente solo perché, allora come oggi, si tratta di rapina condotta con la copertura dello Stato, quando non sia lo stato medesimo a promuoverla. Le conseguenze sulle vittime non cambiano – forse, solo la violenza dell'impatto – ossia un impoverimento più o meno drammatico e un peggioramento delle condizioni di vita. Per esempio, le prestazioni sanitarie a pagamento sono sempre più numerose, ma la qualità delle stesse non per questo è migliorata, anzi, né i bilanci degli enti pubblici sono stati risanati, visto che questi ultimi versano i “ticket” estorti ai pazienti a voracissime società private e alla torma di faccendieri – non da ultimi politicanti – che si affollano attorno al sistema sanitario. Altro esempio macroscopico è quello della privatizzazione delle reti idriche, che ha comportato l'aumento delle bollette e, in molti casi, un peggioramento notevole, addirittura “scandaloso”, del servizio. A parte tutto questo, un'altra differenza fondamentale con le enclosures, è che queste erano il presupposto dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, erano dirette, cioè, a un processo di accumulazione vero, mentre le attuali “recinzioni” vanno a incrementare non l'economia comunemente detta reale, ma la speculazione e il parassitismo esasperati, figli, a loro volta, della crisi capitalistica internazionale. I capitali risucchiati dalle privatizzazioni sono appropriati oltre che dai parassiti in piccolo, per così dire, che pascolano in branchi fitti sui servizi pubblici, da parassiti ben più grandi ossia il circuito parossistico della finanza internazionale, mandante e beneficiario principale delle privatizzazioni medesime. Figlio della caduta del saggio del profitto (4), esprime un capitalismo che, parafrasando Marx (5), ha sostituito il guadagno al guadagnare, la “fatica” dell'estorsione diretta del plusvalore nel processo produttivo con il tocco leggero sulla tastiera delle operazioni speculative. Questo è il punto centrale della fase storica in cui viviamo e il non comprenderlo o il non comprenderlo fino in fondo porta a risultati anche patetici, indipendentemente dalle buone intenzioni personali. E' il caso di A.L.B.A (Alleanza per il lavoro, i beni comuni e l'ambiente) pullulante di ex “marxisti”, che si propone di salvare i “beni comuni” dalla spietatezza neoliberista, recuperando in chiave moderna il bagaglio teorico del riformismo dalle origini a oggi. Cooperativismo, socialismo (si fa per dire) municipale, ecologismo a-classista, integrazione moralizzatrice del capitalismo privato con quello statale, commercio equo e solidale, pacifismo, ecc. Insomma, non manca niente, nemmeno il riferimento teorico al riformismo socialdemocratico in voga tra le due guerre mondiali, che tanta parte ha avuto nel soffocare i tentativi rivoluzionari della classe operaia, aprendo così le porte, oggettivamente, al nazismo e alla guerra. Giusto per fare un esempio dell'incapacità del riformismo, quasi sconcertante, di prendere atto della realtà, ci si rifà a Karl Polanyi, socialdemocratico kantiano ungherese degli anni Trenta, per dire che
La circolazione e la distribuzione del denaro devono essere incluse, almeno parzialmente, tra i beni comuni di cui rivendicare una gestione più equilibrata. (Era quello che sosteneva Polanyi: “terra, lavoro e denaro non sono merci...” (6).
Che terra, lavoro e denaro non siano merci sarà vero nel giardino dell'Eden della socialdemocrazia vecchia e nuova; certamente, terra e lavoro (meglio: forza lavoro) non sempre sono state merci, ma in altri contesti storico-sociali, invece il denaro è nato come “merce universale” (7) e scomparirà con la scomparsa delle categorie economiche capitalistico-mercantili. Non stupisce, quindi, che per fermare la potenza della finanza, A.L.B.A. proponga l'istituzione di
monete locali, non convertibili, e con una circolazione parallela a quella della valuta ufficiale, per sostenere le attività economiche di prossimità, ma anche la riconversione ecologica dei territori e l'avvio delle imprese “recuperate” [occupate e gestite in maniera cooperativa, ndr] (8).
Ammesso che esperienze di questo tipo possano mai superare i limiti del localismo e della piccola borghesia (magari in via di declassamento), da cui, in genere, sono animate, non si riesce a capire che il denaro è espressione di determinati rapporti sociali (il famoso feticismo delle merci) e che per sterilizzare il potere della moneta – ma noi diremmo per sopprimerla – occorre il superamento rivoluzionario di quei rapporti sociali.
Espropriazione e processo di accumulazione
Fin qui le posizioni di chi ha buttato nel fosso l'arma del marxismo (qualunque cosa volesse dire) o non l'ha mai imbracciata. Ma quell'impianto analitico ha elementi di contatto con altri punti di vista teorici che, invece, vogliono utilizzare, in tutto o in parte, la strumentazione messa a punto dal rivoluzionario di Treviri. Ciò che unisce le diverse scuole di pensiero è il recupero del concetto di accumulazione per espropriazione, di cui, probabilmente, lo studioso David Harvey è il sostenitore più conosciuto. In sintesi, secondo Harvey, Marx avrebbe erroneamente relegato i processi di espropriazione violenta dei beni comuni e di separazione della forza lavoro dalla proprietà dei mezzi di produzione solo all'alba del capitalismo, appunto durante il periodo di quella che nel capitalismo ventiquattresimo del Capitale viene chiamato di “accumulazione originaria” o “primitiva” del capitale, anche se Marx si premura di chiamarla “cosiddetta”, il che, come vedremo, non è secondario. Invece, secondo il geografo-economista inglese, non solo i metodi dell'accumulazione primitiva non avrebbero mai abbandonato il corso storico del capitalismo, ma da una quarantina d'anni avrebbero assunto un ruolo centrale nel processo di accumulazione, a causa delle grosse difficoltà emerse nella “riproduzione allargata”, cioè nella produzione di merci. La privatizzazione massiccia di risorse “comuni” (vedi elenco più su), la finanziarizzazione esasperata dell'economia, col deliberato trasferimento di colossali ricchezze dai poveri ai ricchi (per usare un linguaggio semplificato), a cominciare dalle crisi del debito degli anni ottanta e novanta del secolo scorso, rappresentano la risposta del capitale ai problemi di sovraccumulazione emersi nei primi anni settanta. In breve, la predazione avrebbe messo in ombra la produzione di plusvalore.
È una tesi indubbiamente suggestiva, che si richiama neanche tanto implicitamente – dal punto di vista economico – alla Luxemburg (9), anche perché pone, in parte, come punto d'avvio della sua analisi ciò che, come partito, avevamo individuato una quarantina d'anni fa, vale a dire il manifestarsi di un grave problema di sovraccumulazione ossia la fine del lungo periodo ascendente, dopo l'ultimo conflitto generalizzato, nell'economia mondiale e l'inversione “ufficiale” della tendenza. Harvey non ha la nostra stessa visione dei cicli storici di accumulazione del capitale, anche se individua – fino a un certo punto, come s'è detto – nei saggi di profitto calanti l'origine della sovrabbondanza di capitali in cerca di investimenti redditizi, fuori dal circuito produttivo. Per dargli la parola:
Particolarmente dopo la crisi del 1973-1982, si è posto il grave problema di come assorbire un'eccedenza di capitale sempre maggiore nella produzione di beni e servizi […] La quantità di capitale eccedente assorbita nella produzione è diminuita progressivamente (nonostante tutto ciò che è accaduto in Cina), perché dopo un breve rimbalzo negli anni ottanta, i margini di profitto a livello globale hanno cominciato a diminuire. Nel tentativo disperato di trovare nuovi impieghi per questa eccedenza di capitale, una vasta ondata di privatizzazioni è dilagata per il mondo... (10).
L'agente e il beneficiario di questo processo è stata, come abbiamo detto più indietro, la finanza internazionale, principalmente quella domiciliata a New York e a Londra, che attraverso le già citate privatizzazioni e gli attacchi speculativi alle monete e ai bilanci statali, ha provocato svalorizzazioni massicce degli “assets”, cioè dei capitali locali, premessa di acquisizioni a buon mercato degli stessi (11). Fin qui, tutto bene, diceva il tale, ma oltre non è possibile seguire Harvey neanche coi distinguo, perché si inoltra in un terreno simil-luxemburghiano che fa a cazzotti sia con l'analisi economica che con il punto di vista di classe, ammesso che si possa separare in compartimenti stagni le due cose (12). Infatti, in un altro scritto, dice, a proposito della cosiddetta accumulazione per espropriazione dopo il 1973:
Ma un altro ruolo l'ha avuto anche l'apertura di nuovi territori allo sviluppo capitalistico e alle forme capitalistiche di mercato come pure l'accumulazione primitiva compiuta nei paesi (come la Corea del Sud, Taiwan e oggi, anche drammaticamente, la Cina) che cercavano di inserirsi nel capitalismo globale come partner attivi (13).
Ora, un conto è dire che il capitale ha riportato in auge i metodi dell'accumulazione originaria, un altro che al mondo esistono o siano esistiti fino a pochi decenni fa paesi estranei al modo di produzione capitalistico. Il concetto è ribadito più volte:
il crollo del comunismo, avvenuto bruscamente nell'ex blocco sovietico e gradualmente in Cina, ha poi aggiunto circa due miliardi di persone alla forza lavoro salariata globale (14).
Che dopo il 1989 ci sia stato un rimescolamento radicale nella composizione della forza lavoro globale è ampiamente scontato, che in quei paesi ci fosse il comunismo o un sistema economico-sociale non capitalistico è la falsità che combattiamo da sempre, ma è quella falsità che per decenni ha ingannato generazioni di proletari e che oggi, come s'è visto nella prima parte dell'articolo, contribuisce a imbottire di confusione la mente di chi, nonostante tutto, non si rassegna allo stato di cose presenti. Al solito, lo schema è sempre quello: se “là” c'era il comunismo e si è rivelato un'alternativa che rifiutiamo, come del resto il capitalismo, bisogna trovare un'altra strada, nel solco, certamente, dei valori universali della sinistra. Da qui, la ricerca di vie nuove, da qui la messa in discussione delle [presunte] insufficienze di Marx, per non dire dei suoi errori metodologici, che il dogmatismo [sempre presunto, naturalmente] di Lenin avrebbe rafforzato. Insomma, ancora una volta questo è l'ostacolo su cui casca l'asino, anche se, ovviamente, Harvey è ben lungi dall'essere un asino e la sua ricerca di “altri mondi possibili” è senz'altro sincera, come, del resto, quella di milioni di persone impigliate nell'ideologia borghese in versione riformista. Ma l'incomprensione teorica dell'enigma Unione Sovietica è inevitabilmente fatale. Non a caso, Harvey, di fronte ai cataclismi provocati dalla finanziarizzazione dell'economia e della “accumulazione per espropriazione” (15), imputa al “marxismo” un atteggiamento monomaniacale nei confronti della lotta di classe proletaria e invita a cercare fuori del rapporto capitale-forza lavoro il perno su cui costruire l'alternativa. Dunque, contadini espropriati, ceto medio impoverito, fruitori dei servizi sociali ridotti al lumicino, fino ad arrivare, certamente, alla classe operaia intesa in senso lato, dovrebbero unirsi, dando per acquisito il
ruolo politico fondamentale dell'accumulazione per espropriazione come il fulcro di ciò intorno a cui la lotta di classe è o dovrebbe essere costruita (16).
Lotta di classe, d'accordo – anche se assomiglia tanto a una lotta interclassista – ma per fare che cosa? La risposta, a dispetto delle categorie marxiane maneggiate da Harvey, scade nel più vieto keynesismo, eterno faro di tanta intellettualità “di sinistra”. Benché il geografo lo ponga come una specie di fase di transizione verso mete più alte, un New Deal si potrebbe costituire se non altro come un modo per prendere tempo e tamponare la furia devastatrice del neoliberismo. Vediamo:
Esistono, ovviamente, soluzioni di gran lunga più radicali “in agguato” tra le quinte, ma la costruzione di un nuovo New Deal guidato da Stati Uniti ed Europa e rivolto sia all'interno che all'esterno, a fronte delle oppressive forze di classe e degli interessi particolari schierati contro di esso, nella crescente congiuntura è sicuramente qualcosa per cui valga la pena battersi. E il pensiero […] che possa alleviare realmente i problemi della sovraccumulazione per almeno alcuni anni e diminuire la necessità di accumulare mediante espropriazione, potrebbe incoraggiare le forze democratiche, progressiste e umane ad allinearsi dietro di esso e trasformarlo in qualche forma di realtà pratica. Questa soluzione sembra proporre una traiettoria imperiale di gran lunga meno violenta e più benevola del rozzo imperialismo militaristico attualmente offerto dai neoconservatori degli Stati Uniti [il libro fu scritto all'epoca di Bush jr, ndr] (17).
È quasi incredibile trovare “gente” che dopo aver descritto le nefandezze passate e presenti dell'imperialismo, continua a sperare in un ultraimperialismo di kautskyana memoria, benevolo e riformista, in grado di mettere la museruola alla belva neoliberista. Per noi, invece, “l'accumulazione per espropriazione” è una prova in più che si è chiuso il periodo del riformismo (quando la borghesia, poteva concedere e non solo prendere, come oggi), senza contare che se i soggetti sociali cui fa riferimento Harvey avessero mai la forza di imporre riforme alla borghesia, tanto varrebbe buttarla nella spazzatura. Ma non sarebbe certamente il guazzabuglio di forze sociali, in cui il proletariato avrebbe un ruolo di comprimario, schierate sotto le bandiere di un capitalismo più buono, a mettere in discussione il capitalismo reale. Per noi i termini della questione vanno esattamente rovesciati o, meglio, lasciati così come sono nell'ambito della società borghese. Centrale, nel processo di accumulazione reale, rimane la “riproduzione allargata” ossia la creazione di plusvalore primario e non di plusvalenze, i guadagni anche astronomici ottenuti nel circuito del capitale fittizio. Centrale, dunque, il rapporto antagonistico capitale – forza lavoro, attorno al quale, se mai, devono unirsi gli strati di popolazione macinati dal tritacarne della crisi capitalistica mondiale, che nel suo procedere ha affondato ancor più in profondità gli artigli in settori della vita sociale e biologica già sottomessi alla dittatura del capitale, ma, da un certo punto di vista, con meno intensità ed estensione. È il proletariato rivoluzionario il polo d'attrazione per le vittime dell'«espropriazione» nonché, ovviamente, il suo partito che, per forza di cose, dovrà essere internazionale ancor più di un tempo, perché di aree precapitalistiche non ne esistono più da un pezzo e ciò che si identificava con “comunismo” e partito “comunista” erano solo tragiche contraffazioni nazionalistiche degli originali. Tanto più che “l'espropriazione” si abbatte, sì, su popolazioni indigene e contadine – per altro, come abbiamo detto, già coinvolte, quest'ultime, nel modo di produzione capitalistico – ma rapina – altro aspetto ricordato in precedenza – il salario indiretto e differito, i risparmi proletari assieme, in parte, a quelli piccolo borghesi, e soprattutto o non certamente da ultimo il salario diretto.
La discussione sul se, come e fino a che punto il saccheggio della “periferia” del capitale abbia contribuito al processo di accumulazione è sempre stato vivace, ma, a parte il fatto che anche nella “periferia” esiste una classe salariata oltre alle masse diseredate, oscillanti tra un'agricoltura di sopravvivenza precaria, il lavoro “informale” e la miseria pura e semplice (18), è un fatto inequivocabile che a livello mondiale (Cina compresa) i redditi da lavoro da più di trent'anni abbiano cominciato una discesa che non si è ancora arrestata, a favore di profitti e rendita parassitaria. È utile riportare un dato, per altro ampiamente conosciuto:
Nel periodo 1976-2006 la quota salari, cioè l'incidenza sul Pil dei redditi da lavoro (ivi compreso il reddito da lavoro autonomo, il quale viene calcolato [dall'OCSE, ndr] come se gli autonomi ricevessero la stessa paga dei salariati) si è abbassata di molto. Facendo riferimento ai 15 paesi più ricchi dell'OCSE detta quota è calata in media di 10 punti, passando dal 68% al 58% del Pil. In Italia il calo ha toccato 15 punti, precipitando al 53%. Per i lavoratori equivale a una colossale perdita di reddito [pari a] 240 miliardi di euro (19).
Si tratta di un fenomeno che alle sue prime manifestazioni evidenti avevamo chiamato “manchesterizzazione” del lavoro salariato, intendendo il ritorno massiccio a forme di sfruttamento e di dispotismo padronale “ottocentesche”, caratterizzato dalla messa in concorrenza verso il basso della forza lavoro a scala mondiale (20). Questo, però, c'entra molto poco con l'accumulazione originaria, visto che siamo nell'epoca del capitalismo imperialista stramaturo, in cui, se mai, si sono “semplicemente” esasperati i caratteri genetici del capitalismo medesimo. Di fronte al manifestarsi della tendenza al calo del saggio di profitto, da sempre il capitalismo ha cercato “paradisi artificiali” nella speculazione finanziaria o ha tentato di riportare su livelli accettabili la valorizzazione del capitale intensificando lo sfruttamento dentro, in primo luogo, ma anche fuori il posto di lavoro; la predazione, il saccheggio rientrano in quest'ultimo caso, ma sono complementari, dal nostro punto di vista, al processo di estorsione di plusvalore primario che avviene nella produzione di merci. Il punto, dunque – lo ribadiamo – è ristabilire un saggio di sfruttamento all'altezza della composizione organica del capitale, perché, com'è noto, il saggio del profitto è cosa diversa del saggio del plusvalore, sia questo espressione di uno sfruttamento esercitato con modi brutalmente “ottocenteschi” o con “l'asetticità” della tecnologia più avanzata o tutte e due le cose assieme. Infatti, il saggio di sfruttamento (plusvalore) può anche aumentare, ma essere insufficiente per contrastare la caduta del saggio di profitto dovuta all'aumento della composizione organica del capitale. Anzi, è proprio questo che avviene nel corso del processo di accumulazione. Così come non è detto che uno sfruttamento brutale (le tredici o quattordici ore) produca più plusvalore di uno sfruttamento apparentemente morbido: come notava Marx, l'operaio inglese, che lavorava dieci ore su di un macchinario avanzato tecnologicamente, era più produttivo di plusvalore dell'operaio tedesco che ne lavorava quattordici con una tecnologia più arretrata. Non è vero, quindi, che
si possono nuovamente vedere spossessamento ed espropriazione come mezzi per superare le crisi ricorrenti della riproduzione capitalistica... (21).
e non perché lo neghi il Capitale, ma perché è la storia del capitale a dirlo. La corsa coloniale di fine Ottocento – inizio Novecento, espressione del capitalismo divenuto imperialista, fu sì il tentativo di rispondere anche col saccheggio ai bassi saggi di profitto della “metropoli” (22), ma non risolse i problemi del capitalismo internazionale che portarono alla Grande Guerra. Così come l'orgia finanziaria degli anni Venti, sostenuta da micidiali giri di vite al lavoro salariato, non poté impedire la crisi esplosa nel 1929 e finita con la Seconda guerra mondiale. Tanti, però, sono così innamorati delle proprie teorizzazioni da perdere di vista i termini delle questioni, rimproverando agli altri, a cominciare da Marx, insufficienze teoriche spesso inventate di sana pianta. È tipico di chi fa accademia fine a se stessa o è rimasto sotto le macerie di mille “marxismi” l'interessarsi a schematizzazioni che con Marx hanno poco a che fare. Ma è un vezzo antico di intellettuali e “pensatori” che disertano la lotta politica rivoluzionaria perché troppo occupati a confezionare nuove (?!) teorie all'altezza dei tempi.
Storia vecchia, dunque, testimoniata anche dalla polemica di Lenin – il dogmatico per eccellenza … – contro gli “accumulatori primitivi”, per così dire, del suo tempo:
Certo, sono possibili combinazioni infinitamente varie degli elementi dell'uno e dell'altro tipo di evoluzione capitalistica, e solo dei pedanti incalliti potrebbero risolvere i molteplici e complessi problemi che ne scaturiscono per mezzo di pure e semplici citazioni tratte da questo o quel giudizio di Marx relativo ad un'altra epoca storica (23).
Se poi le citazioni sono omesse – anche in buona fede, perché no? - è chiaro che nel fare «insieme troppo onore e troppo torto» (24) a Marx, lo si mutila e lo si fraintende. La sua posizione, nei confronti dell'accumulazione originaria, era già stata espressa chiaramente quando diceva che:
Nell'Europa occidentale, patria dell'economia politica, il processo dell'accumulazione originaria è più o meno compiuto. Quivi il regime capitalistico o si è assoggettato direttamente tutta la produzione nazionale; o, dove le condizioni economiche sono ancora meno sviluppate, esso controlla per lo meno indirettamente gli strati della società che continuano a vegetare in decadenza accanto ad esso e che fanno parte del modo di produzione antiquato […] Nelle colonie le cose vanno altrimenti... (25).
Se Marx, nemico delle personalizzazioni e degli ingessamenti del materialismo storico in sterili formulette, diceva di se stesso di non essere marxista, ancor meno lo sono o lo sono stati coloro che riducono il suo metodo scientifico ad argomento per dibattiti intellettuali, senza vederlo per quello che realmente è: un'arma, potente, per la trasformazione rivoluzionaria del mondo.
Celso Beltrami(1) Documento reperibile su unimondo.org
( 2) A questo proposito, vedi, di Mauro Stefanini, “Tesi sui paesi della periferia”, in Prometeo n. 9-1985.
(3) In un certo senso, le condizioni dei piccoli contadini europei alla fine dell'Ottocento posso essere paragonate a quelle dei piccoli contadini della periferia capitalista (o anche dei cosiddetti paesi emergenti oggi). Di questi ultimi si può dire quello che Lenin, rifacendosi a Kautsky, diceva dei primi:
La presenza dei piccoli contadini in ogni società capitalistica si spiega non con la superiorità tecnica della piccola produzione nell'agricoltura, ma col fatto che i piccoli contadini riducono i loro bisogni al di sotto del livello dei bisogni degli operai salariati e si estenuano sul lavoro incomparabilmente di più che questi ultimi.
Lenin, prefazione alla prima edizione de Lo sviluppo del capitalismo in Russia, in Opere complete, Editori Riuniti, 1969, vol. 3, pag. 5
(4) Vedi l'articolo di Fabio Damen in questo stesso numero della rivista.
(5) Karl Marx, Introduzione del 1857 a Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti, 1974, pag. 174 e Il Capitale, Einaudi, 1975, Libro primo, capitolo 4, pag. 185.
(6) Dalla Bozza programmatica di A.L.B.A., facilmente reperibile sul web.
(7) Karl Marx, Il Capitale, cit., capitolo 2, pag. 109.
(8) A.L.B.A., Bozza, cit.
(9) Molto sinteticamente, Rosa Luxemburg riteneva che il capitalismo avesse bisogno di mercati extracapitalistici per realizzare il plusvalore estorto alla classe operaia in un sistema capitalistico “puro”, altrimenti sarebbe crollato. Da qui, l'imperialismo, con l'assoggettamento, il saccheggio, la predazione dei paesi non ancora capitalistici.
(10) David Harvey, L'enigma del capitale, Feltrinelli, 2011, pag. 40.
(11) Davide Harvey, La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo, Il Saggiatore, 2006, pag. 130.
(12) Precisiamo che non facciamo discendere meccanicamente un corretto comportamento politico da una corretta analisi economica, anche se tra i due c'è una relazione di solito stretta. Per esempio, la Luxemburg sbagliava sul terreno della critica all'economia politica, ma è una delle figure più luminose del movimento comunista, nonostante le sue insufficienze politiche. Allo stesso modo, oggi, Loren Goldner per quanto riguarda l'analisi economica, ha molti punti di contatto con il modo di procedere di Harvey, ma, a differenza di questo, è schierato apertamente nel campo rivoluzionario, benché, al solito, nella sua variante idealistica anti-partito. Vedi, a questo proposito, Loren Goldner, Capitale fittizio e crisi del capitalismo, PonSinMor, 2007; ci riferiamo, in particolare, all'Introduzione e alla Prefazione del libro.
(13) Harvey, La guerra perpetua, pag. 131.
(14) Harvey, Enigma..., pag. 28.
(15) Per esempio, «durante la crisi del debito messicano del 1982, che scosse il paese fin nelle fondamenta [che consistette] nel privatizzare i profitti e socializzare i rischi […] il tenore di vita della popolazione calò di circa un quarto nei quattro anni dopo il salvataggio del 1982.» (Harvey, Enigma..., pag. 21)
(16) Harvey, Guerra perpetua, pag. 148.
(17) Harvey, Guerra perpetua..., pag. 172.
(18) A titolo esemplificativo, riportiamo questa tabella, tratta da José G. Gandarilla Salgado, Améica Latina en la conformaciòn de la economia-mundo capitalista, UNAM. Messico, 2006. Inutile dire che il servizio del debito, gli utili dovuti agli investimenti diretti e, in definitiva, tutte le altre voci, sono alimentate sì dalla predazione usuraia della finanza esercitata sugli strati sociali più deboli, ma che tra essi il lavoro salariato, cioè il suo sfruttamento, diretto o indiretto, recita un ruolo primario. Altrettanto inutile aggiungere che i proventi della “predazione” vanno non al “Primo Mondo”, genericamente inteso, ma alla sua borghesia e alle borghesie della “periferia”.
Rubros | 1972-76 | 1977-81 | 1982-86 | 1987-91 | 1992-96 | 1997 | 1998 |
---|---|---|---|---|---|---|---|
Transferencia total de excedentes | 441 731 | 567 280 | 897 822 | 1 257 043 | 1 697 603 | 539 837 | 685 060 |
Servicio de la deuda | 97 438 | 308 395 | 626 477 | 827 556 | 1 058 552 | 312 459 | 316 113 |
Pérdida por términos del intercambio | 347 125 | 203 068 | 241 349 | 515 676 | 549 006 | 83 234 | 131 498 |
Utilidades netas remitidas de inv. directa | 31 467 | 53 768 | 65 203 | 81 010 | 132 722 | 33 204 | 36 675 |
Otro capital a corto plazo | 2 984 | 22 344 | 49 002 | –45 395 | 14 327 | 113 382 | 216 484 |
Errores y omisiones netos | –7 798 | 27 123 | 14 558 | 30 300 | 161 589 | 52 746 | 42 427 |
Transferencias netas unilaterales | –29 486 | –47 417 | –98 767 | –152 104 | –218 593 | –55 189 | –58 137 |
(19) Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, 2012, pagg. 104-105.
(20) Vedi le tesi del VI congresso del Partito Comunista Internazionalista, in Prometeo n. 13 – 1997.
(21) Werner Bonefeld. Accumulazione primitiva e accumulazione capitalistica: categorie economiche e costituzione sociale, in Devi sacchetto e Massimiliano Tomba (a cura di), La lunga accumulazione originaria, Ombre corte, 2008, pag. 90.
(22) Vedi, Nicolaj Ivanovic Bucharin, L'economia mondiale e l'imperialismo, Samona e Savelli, 1966 e Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, in particolare il capitolo 4. I libri furono terminati, rispettivamente, nel 1915 e nel 1916.
(23) Lenin, Prefazione alla seconda edizione de Lo sviluppo del capitalismo in Russia, cit., pagg. 10-11.
(24) Vedi la lettera di Marx, fine del 1877, alla redazione dell'Otecestvennye Zapisky. Con essa, Marx prendeva le distanze da un'interpretazione meccanicistica del suo metodo che gli era stata impropriamente attribuita da un estimatore russo, in merito all'evoluzione della comune rurale russa, il Mir, e della Russia in generale verso il capitalismo:
Egli [il critico] sente l'irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell'Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell'uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto.
Karl Marx – Friedrich Engels, India Cina Russia, a cura di Bruno Maffi, Il Saggiatore, 1960, pagg. 235–236
(25) Karl Marx, Il Capitale, cit., capitolo 25°, pag. 939.
Prometeo
Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
Prometeo #08
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