Solidarietà internazionalista alle operaie Omsa

La vicenda della Omsa di Faenza si protrae dal 2010, quando l'azienda ha annunciato l'avvio delle procedure di mobilità e cassa integrazione, anticamera del licenziamento. La produzione, infatti, sta per essere spostata totalmente nei nuovi stabilimenti in Serbia, dove i costi sono nettamente inferiori, grazie ai sussidi statali e alle peggiori condizioni contrattuali per i lavoratori. Le 350 operaie di Faenza hanno trascorso gli ultimi mesi nelle difficoltà economiche e nell'assoluta incertezza del futuro. Alcune di loro nel frattempo sono andate in pensione, oppure hanno accettato gli incentivi alla mobilità. Si parla di circa 20mila euro: spiccioli, raccontano le operaie, ma tuttavia necessari per superare le difficoltà immediate e tirare avanti un altro po'. La Cgil ha contribuito come ha potuto allo scoramento delle lavoratrici. Persino qualche funzionario locale che, senza sforare dall'angusto ambito concertativo del sindacato, ha tentato semplicemente di limitare i danni e permettere di conservare qualche posto di lavoro, è stato allontanato. Non sorprende che alla Cgil siano arrivate le vivaci proteste delle operaie, ulteriormente deluse e incazzate, e anche varie tessere stracciate.

Alla fine, alle 239 operaie rimaste in balia delle decisioni aziendali, sono pervenute altrettante comunicazioni di licenziamento. Cacciate via con un fax, il 27 dicembre. Ma nel gruppo industriale di patron Grassi, la pratica di inviare “regali” di tal sorta pare essere una abitudine. Il 25 novembre, infatti, la Golden Lady aveva già licenziato 400 operaie dello stabilimento di Gissi (Chieti).

Probabilmente è anche per questa scelta dei tempi che lo sdegno si è diffuso ben al di là delle famiglie direttamente coinvolte. La campagna di boicottaggio, lanciata dal “Popolo Viola”, si è allargata a macchia d'olio, correndo anche sui canali dei social network. Il tam tam della rete e gli insulti che hanno inondato le pagine dell'azienda sono arrivati a dare qualche pensiero alla direzione, che ha ritenuto necessario stendere un insolito ma chiaro comunicato: “Il gruppo precisa che la decisione è stata presa in ottemperanza alle leggi italiane ed al principio di libera impresa, nel pieno rispetto del diritto del lavoro, mediante una trattativa che ha visto coinvolti i principali sindacati, enti locali, Regione Emilia Romagna… Il Golden Lady Group Spa... garantisce il massimo impegno nel mantenimento di un livello di competitività sostenibile sul mercato, consapevole della sfida alla produttività che attende l’intero Sistema Moda italiano.

In effetti non si può parlare di vera e propria condizione di crisi per l'azienda, che ha semplicemente registrato un calo del fatturato. Ma, come precisa onestamente il comunicato... l'azienda è sul mercato per competere, crescere, accumulare profitti; e se il Dio Profitto reclama sacrifici, allora dobbiamo tagliare delle teste, subito e senza pietà; dopotutto, non avrete mica creduto davvero alle panzane infantili del tipo “siamo una grande famiglia”, o “siamo tutti sulla stessa barca”?

Che la denuncia sia riuscita a forare la solita superficialità e l'indifferenza dei mass media, è un fatto senz'altro positivo. Ma il boicottaggio è un'arma a doppio taglio, uno slogan abbastanza pericoloso da agitare. Infatti il boicottaggio di un prodotto o di una azienda “poco etica” sposta l'opposizione dal piano della produzione a quello della distribuzione, spingendo in secondo piano il conflitto centrale tra capitale e lavoro, tra padroni e lavoratori salariati. Anzi, sul piano della distribuzione, dove il soggetto diventa il “consumatore”, conta solo chi ha le tasche piene. Per chi arriva con difficoltà a fine mese, oppure annaspa già dopo la seconda o terza settimana, le “scelte” invece sono ridotte a due: comprare il prodotto più economico sullo scaffale, oppure lasciare il carrello vuoto. Alla fine, oltre a proporre l'illusione di poter migliorare gradualmente il sistema produttivo e renderlo più “etico” attraverso i meccanismi stessi del mercato, il boicottaggio affida ai ceti medi e alla piccola borghesia il compito di regolare i comportamenti delle aziende. Anziché sostenere e allargare il fronte della lotta di classe contro classe, dei salariati contro i padroni, si disarmano i lavoratori e si lascia loro la sola vana speranza che il buon cuore di bottegai, professionisti e padroncini a zonzo nei supermercati indirizzi i “consumi” in senso etico, magari a difesa dell'economia nazionale e delle produzioni locali. Quindi al riformismo e al moralismo, si aggiunge una visione nazionalista o localista, che ricorda da vicino l'autarchia del ventennio fascista e non ha niente a che vedere con gli interessi proletari.

I lavoratori devono naturalmente opporsi con forza alle delocalizzazioni, come ad ogni piano aziendale che danneggi le loro condizioni di vita e di lavoro, tanto più quando in ballo ci sono centinaia di licenziamenti e altrettante famiglie proletarie portate alla disperazione. Ma bisogna rifiutare nel modo più deciso la contrapposizione tra lavoratori italiani e stranieri, tra produzioni sviluppate sul “sacro suolo patrio” e quelle estere. La competizione, al ribasso, tra lavoratori è uno degli obiettivi primari della globalizzazione, che bisogna combattere. Ma la nemesi della globalizzazione non è il nazionalismo, né la difesa dell'economia nazionale, che segue di fatto la stessa logica di divisione e impoverimento della classe lavoratrice. La più forte e temibile arma contro lo sfruttamento internazionale del proletariato è la solidarietà internazionale tra sfruttati.

La prospettiva della solidarietà tra lavoratori serbi e italiani - oltre a quella altrettanto fondamentale sviluppata sul territorio locale - al momento, pare difficile e lontana. Tuttavia questo è l'unico percorso possibile, e l'obiettivo è meno distante di quanto si creda. Nel caso delle recenti ristrutturazioni Fiat, ad esempio, ci sono stati diversi episodi di solidarizzazione tra operai in Italia e Polonia, entrambi ricattati e minacciati di spostare altrove la produzione. Il vecchio motto “proletari di tutti i paesi, unitevi” è più attuale che mai.

Mic

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.