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Recensione a I ragazzi che volevano fare la rivoluzione
Da novembre si trova nelle librerie la seconda edizione del volume I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, che il giornalista Aldo Cazzullo dedica alla storia di Lotta continua. La prima edizione uscì nel 1998, circa un anno dopo l’incarcerazione di Sofri, Bompressi e Pietrostefani per l’omicidio del commissario Calabresi.
Il libro ripercorre tutta la storia del gruppo nato a Torino nell’estate del 1969 dall’incontro fra “gli operai delle carrozzerie di Mirafiori e gli studenti di Palazzo Campana, dell’Istituto di Scienze sociali di Trento, dell’Università Cattolica di Milano e della Normale di Pisa” (1), arricchita sia dalla ricostruzione del contesto sociale e politico del periodo che va dal ’68 alla marcia dei quarantamila del 1980, sia dalle numerosissime testimonianze dirette dei militanti e dei dirigenti del gruppo stesso, che l’autore ha intervistato.
Di particolare interesse è il capitolo dedicato alla situazione in cui si trova la Torino operaia all’inizio del 1969.
Nella primavera del 1969 - scrive Cazzullo - Mirafiori è la più grande fabbrica d’Europa [...]. Città nella città, protetta da mura invalicabili per chi non la abita, ma assediata nelle ore dei cambi di turno - le cinque del mattino, l’una del pomeriggio, le dieci di sera - da giovani carichi di pacchi di volantini, poliziotti intenti a sorvegliarli, giornalisti a raccontarli, passanti a squadrarli. Dietro le porte presidiate dai “guardioni” lavorano ogni giorno 55.000 persone, l’85 per cento delle quali sono operai. (2)
E questi operai non sono più quelli dell’era Valletta (3): molti sono giovani immigrati dalle campagne del Mezzogiorno, che diffidano dei partiti istituzionali quanto dei sindacati e che maturano, nella durezza del lavoro e nell’isolamento in cui sono spinti, il rifiuto del sistema e di ogni collaborazione con l’azienda.
Torino scoppia: gli operai immigrati...
dormono in cinque nelle stanze soppalcate e frammezzate dei piani nobili barocchi, a turno in letti affittati nelle pensioni di Porta Nuova, qualcuno direttamente in stazione, con la sveglia al collo per non fare tardi in fabbrica. Nel ’69, in seguito alle 15.000 assunzioni Fiat, in città sono arrivate 60.000 persone. Sono saltati i filtri e le mediazioni - i parroci, i parenti, le reti di solidarietà famigliari o clientelari - che avevano organizzato e in qualche modo disciplinato il flusso migratorio. Il quartiere di Mirafiori Sud è passato dai 18.000 abitanti del ’51 a 119.000... (4)
tanto che si studiano progetti per baracche d’emergenza.
Gli operai in Fiat non hanno voce e il sindacato è pressoché inesistente. Gli iscritti alla Fim-Cisl e alla Fiom-Cgil superano di poco il 2 per cento e i nuovi arrivati, inoltre, ne diffidano, visto che:
il 55 per cento dei sindacalisti non mette piede in officina da vent’anni. Il Partito comunista quasi non esiste: a Mirafiori ha appena duecento-cinquanta iscritti, fra tutti gli stabilimenti Fiat della città non arriva a mille. La sfiducia, la rabbia, la frustrazione attendono una scintilla. (6)
La scintilla si accende in maggio e diventa presto un rogo. Cominciano gli scioperi fuori dal controllo dei sindacati, si avanzano richieste radicali e...
saltano le forme tradizionali di rappresentanza di lotta: si tengono continue assemblee, vengono eletti delegati di officina e di reparto, nascono i cortei interni. Il primo sfila tra le linee il 27 maggio. Duemila operai partono dalle Carrozzerie. In testa ci sono i futuri leader di Lotta continua in fabbrica. (6)
Quello che passerà alla storia come l’Autunno caldo, dunque, inizia già nella primavera dello stesso anno, e in questo clima di forte conflitto avverrà l’incontro fra gli operai di Mirafiori e gli studenti universitari che in seguito organizzeranno e guideranno Lotta continua.
Il primo numero dell’omonimo giornale è in edicola, in 65.000 copie, il primo novembre 1969. I nemici da combattere non sono solo padroni e fascisti, ma anche Pci e sindacato. Sul numero del 6 dicembre dello stesso anno Lc scrive:
Non pensiamo né che si possa cambiare il sindacato “dall’interno”, né che si debba costruirne uno nuovo “più rosso”, più “rivoluzionario”, più “operaio”, senza burocrati. Noi pensiamo che il sindacato sia una rotella del sistema dei padroni... e quindi vada combattuto come i padroni. (7)
In questa fase di lotta montante, dunque, Lc si fa interprete dello spontaneismo operaio che rifiuta le mediazioni istituzionali e sindacali, cavalcandole fino in fondo e legando così a sé, soprattutto a Mirafiori, le avanguardie di fabbrica più combattive.
Ma la sua natura codista verrà ben presto fuori. L’auspicato scontro generale nelle fabbriche e nelle piazze, infatti, sembra proprio che non arrivi, e allora già nell’autunno del 1972, scorgendo i primi segnali del riflusso, Lotta continua decide di rompere con il rifiuto della delega sindacale e dà il via alla cosiddetta “svolta dei delegati”, teorizzata in un documento che, a puntate, vedrà la luce sul quotidiano nel marzo del 1973: gli operai di Lc entrano nei consigli di fabbrica e abbandonano le assemblee autonome. Presto, anche il Pci e il resto della sinistra istituzionale non sono più dall’altra parte della barricata:
ci avviciniamo agli altri partiti - spiega Giovanni De Luna - soprattutto al Pci e in particolare a Torino. Non c’è iniziativa pubblica della sinistra torinese dal gennaio 1973 all’aprile 1975 in cui Lc non sia assieme al Partito comunista, al Psi, alle Acli. (8)
E così si arriva al congresso di Roma del 1975, da cui Lotta continua uscirà con l’indicazione di votare Pci.
L’anno seguente, invece, Lc prova a giocare direttamente la carta elettorale, presentandosi con altri gruppi della nuova sinistra sotto la comune insegna di Democrazia proletaria. I risultati del 20 giugno 1976, però, deludono tutti i pronostici e le aspettative: DP raccoglie appena 556.000 voti, pari al 1,5 per cento. E così, sull’onda della sconfitta, nell’ottobre dello stesso anno si terrà il congresso di Rimini che vedrà esplodere le molte contraddizioni e divergenze interne al gruppo - fra operai, studenti, femministe, servizio d’ordine e militanti storici accusati di essere “la borghesia del partito” - e che sancirà, in sostanza, la fine di Lotta continua. Ne seguirà, fra le altre cose, una tragica diaspora di militanti nella lotta armata, e in particolare in Prima linea.
Gli anni successivi alla sua fine hanno segnato la totale confutazione dell’elaborazione teorica di Lc - sostiene Cazzullo nelle pagine conclusive del libro - Non solo gli operai non hanno preso né il potere né il controllo della produzione, ma sono spariti dal centro della storia e della stessa fabbrica. (9)
Su questo dissentiamo profondamente. Se infatti è vero che la superficialità, l’incoerenza e i continui sbandamenti teorici del gruppo dirigente di Lotta continua finiranno per sciupare irrimediabilmente il generoso impegno e la grande disponibilità alla lotta di quelle avanguardie di fabbrica che in Lc si erano organizzate, questo non significa che oggi la classe operaia e il proletariato nel suo complesso non sia ancora la classe, per quanto dispersa e politicamente smarrita, con interessi oggettivamente antagonistici a quelli del capitale e della borghesia.
E se è vero che i proletari non hanno ancora conquistato il potere, è altrettanto vero che la rivoluzione dei proletari è, oggi come allora, l’unica strada per uscire da questa società che, lungi da essere la fine della storia, è piuttosto lo scoglio contro cui la storia si è ormai da troppo tempo incagliata.
Giacomo Scalfari
(1) Aldo Cazzullo, “I ragazzi che volevano fare la rivoluzione”, Sperling & Kupfer 2006, pag. 2.
(2) Ibidem, pag. 51.
[3 Vittorio Valletta, dirigente Fiat sino al 1965. Sotto di lui Mirafiori era una macchina di produzione molto rigida e gerarchizzata.
(4) Aldo Cazzullo, op. cit., pag. 54.
(5) Ibidem, pag. 55.
(6) ibidem, pag. 55.
(7) Ibidem, pag. 89.
(8) Ibidem, pag. 224.
(9) Ibidem, pag. 312.
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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
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