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Home ›Cina, un boom dai piedi d'argilla
Tutti gli economisti borghesi sono terrorizzati degli effetti catastrofici che potrà produrre la Sars (la cosiddetta polmonite atipica) sull'economia cinese e sulle conseguenze a livello internazionale. Il mirabolante sviluppo economico cinese riuscirà a superare il panico di questi mesi oppure declinerà trascinando nel vortice di un'altra recessione l'intera economia mondiale?
I dubbi che affliggono gli economisti borghesi ci proiettano violentemente nel bel mezzo del medioevo, quando bastava una semplice epidemia per far abbassare repentinamente gli standard di vita di milioni di esseri umani, dimostrando nello stesso tempo come il tanto decantato sviluppo cinese sia più il frutto di particolari condizioni dell'economia mondiale che l'effettivo risultato di un processo endogeno.
Sembrano lontani anni luce i proclami degli ideologi borghesi che annunciavano come la globalizzazione del capitale avesse finalmente eliminato le crisi cicliche, garantendo all'umanità pace e prosperità. Nessuna di queste promesse è stata mantenuta, infatti gli ultimi tempi sono stati vissuti all'insegna di una guerra all'anno mentre i dati sullo stato di salute dell'economia mondiale sono tutti di segno negativo. Dalla prima guerra del golfo del 1991, combattuta sotto la bandiera dell'Onu da tutte le potenze mondiali contro il regime irakeno di Saddam Hussein, alla seconda guerra del golfo del marzo 2003, con la quale gli anglo-americani hanno occupato l'Iraq, l'umanità ha vissuto altri importanti conflitti come quello in Kossovo e in Afghanistan, senza contare la guerra in Somalia e la miriade di conflitti a bassa intensità che hanno trasformato parte dell'Asia e dell'Africa in uno stabile teatro di guerra.
Se il capitalismo non è riuscito a garantire la pace, la globalizzazione del capitale è riuscita a diffondere a piene mani solo fame e miseria. Negli anni novanta sotto l'incalzare della crisi sono crollati economicamente interi continenti. Senza fare l'elenco completo dei paesi colpiti da gravissime crisi economico-finanziarie, basta ricordare l'esempio della crisi messicana del 1995, delle tigri asiatiche del 1997 e per ultima quella dell'Argentina dello scorso anno. Crisi economiche i cui effetti sul piano sociale sono stati devastanti, scaraventando milioni di proletari nella fame più nera, determinando nel livello della qualità della vita un salto all'indietro di almeno cinquanta anni.
Gli effetti della crisi del capitale non sono rimasti circoscritti ai paesi della periferia, ma hanno fatto sentire i loro nefasti effetti proprio nel centro imperialistico. Se l'Argentina e la Turchia sono crollati, il Giappone non riesce a tirarsi fuori da una crisi nella quale si trascina ormai da dodici anni; la stessa Europa malgrado la nascita dell'euro vive sostanzialmente sull'orlo di una recessione, infatti la crescita del Pil dei paesi dell'Unione europea è prossima allo zero. Ma ciò che più preoccupa è la grave crisi che attanaglia gli Stati Uniti, alle prese con la più grave recessione di questo secondo dopoguerra. Lo stato dell'economia statunitense è così grave che non sono stati sufficienti dodici consecutivi tagli al tasso di sconto per far ripartire la locomotiva americana. Se le tradizionali misure di politiche economiche non riescono a far emergere dalle secche l'asfittica macchina produttiva statunitense l'ultima carta da giocare per la borghesia americana è quella dell'aggressività imperialistica. Da ciò né deriva l'impressionante programma di rilancio militare e lo scatenare in ogni angolo del pianeta una guerra all'anno, ma gli ultimi dati ufficiali sullo stato dell'economia dimostrano che neanche queste misure sono stati sufficienti a far crescere il Pil di mezzo punto percentuale.
In un simile contesto internazionale, segnato dalla recessione, l'unico paese che sembra immune dalla crisi economica è la Cina che nell'ultimo anno ha visto il proprio Pil crescere al ritmo del 7-8%. Un ritmo di crescita impressionante che la proietta nel novero delle grandi potenze economiche del prossimo futuro. Se consideriamo le dimensioni dello stato cinese con una popolazione di un miliardo e trecento milioni di abitanti, possiamo ben capire il ruolo che potrà giocare il gigante giallo. Ma dietro la propaganda dei numeri dello sviluppo economico si nascondono gravissime contraddizioni sociali che rischiano di far crollare sotto il loro peso l'intera società cinese. Contraddizioni sociali frutto di uno sviluppo capitalistico inevitabilmente ineguale che genera da un lato forme d'arricchimento senza precedenti e nello stesso tempo sacche di povertà in vastissime zone del paese.
L'evoluzione dell'economia cinese
Con la fine del regime di Mao, la Cina si è avviata verso una nuova fase segnata da una rottura radicale con il passato. Caduta sotto i colpi di una gravissima crisi economica la mistificante via cinese al socialismo, negli ultimi 25 anni l'economia cinese ha aperto le proprie porte all'economia internazionale. La lunga marcia di Mao che ha unificato la Cina, spacciata dalla propaganda stalino-maoista come la seconda rivoluzione comunista del XX secolo dopo quella del 1917 in Russia, aveva esaurito la propria missione storica sotto l'incalzare della più grave crisi economica che aveva colpito il paese in questo secondo dopoguerra. Il crollo della produzione agricola ed industriale, la burocratizzazione dei più elementari processi decisionali e la totale invadenza del partito in tutte le sfere della società hanno imposto alla borghesia cinese di compiere una virata di 180 gradi rispetto al passato. I tragici fatti di piazza Tienanmen e la successiva repressione della contestazione sono stati solo l'ultimo e più evidente esempio della crisi della società cinese. Un proletariato agricolo ed urbano letteralmente affamato sfida la repressione poliziesca e manifesta il proprio dissenso nel continuare con la politica dei sacrifici imposta dal regime.
Agli inizi degli anni ottanta arriva la svolta storica: dalla via cinese al socialismo si passa repentinamente al socialismo di mercato, come dire da una mistificazione a un'altra, ma con consistenti cambiamenti nelle politiche economiche e soprattutto nelle relazioni con il resto del mondo. La politica della "porta aperta", inaugurata da Deng, aveva l'obiettivo d'incentivare le relazioni economiche internazionali, superando ideologicamente la concezione maoista dell'autosufficienza e del rischio d'interferenze interne da parte degli investitori internazionali. Tale politica si è concretizzata nell'apertura della Cina al commercio estero, agli investimenti esteri diretti e a prestiti internazionali.
Per favorire ed incentivare l'apertura al mondo esterno sono state create delle zone sperimentali di libero mercato, le cosiddette Zone economiche sperimentali (Zes), all'interno delle quali gli investimenti esteri godono di particolari condizioni di protezione. La creazione delle Zes è avvenuta nella parte meridionale del paese, in particolare nelle province del Guandong e di Fujian. Soprattutto nei primissimi anni ottanta per gli investitori internazionali era molto conveniente investire nelle Zes, in quanto c'era l'esenzione dalle imposte industriali e commerciali e dai diritti doganali per l'export e per la merce in cambio; era previste una tassa sul reddito molto favorevole, del 10% per le imprese a partecipazione estera impegnate nella produzione per l'export e del 15% per tutte le altre.
Tutte queste agevolazioni nel corso degli anni si sono ridotte, anche se gli investitori internazionali hanno la completa autonomia nelle scelte gestionali e nella ripartizione degli utili e delle risorse. La politica della porta aperta ha enormemente favorito l'afflusso in Cina di investimenti diretti esteri. In poco più di venti anni, dal 1978 al 1999, sono confluiti nel celeste impero circa un terzo degli investimenti esteri di tutto il mondo, con un tasso medio annuale di 40 miliardi di dollari (1). La politica della porta aperta oltre a favorire gli investimenti diretti esteri ha determinato uno sviluppo senza precedenti del commercio con l'estero. Dalla metà degli anni novanta la Cina ha registrato un surplus commerciale in costante crescita, tanto che nel corso del 2002 è stato pari a 45 miliardi di dollari.
L'apertura dell'economia cinese ai mercati internazionali, oltre a favorire l'afflusso degli investimenti dall'estero ed incentivare il commercio con l'estero, ha profondamente trasformato il paese, facendogli compiere un notevole salto in avanti verso l'industrializzazione. Negli ultimi venti anni la Repubblica popolare cinese ha avuto un tasso medio annuale di crescita del 9%, e secondo la Banca Mondiale, entro il 2010 la sua economia potrà scavalcare quella americana, diventando la più vasta del mondo. Se è vero che il ritmo di sviluppo cinese non ha eguali nel mondo sviluppato, è necessario fare delle brevi considerazione per evitare di cadere nella trappola della propaganda della borghesia internazionale che intende trasformare la Cina nella nuova Mecca del capitalismo mondiale.
Per non cadere nei facili entusiasmi degli ideologi borghesi e collocare nella suo giusta dimensione il boom economico della Cina occorre partire dalla dimensione dell'economia cinese all'interno del contesto mondiale. Ora, nel 2001 il prodotto interno lordo cinese è stato di 1179,9 miliardi di dollari mentre quello degli Stati Uniti e dell'Unione europea è stato quasi dieci volte più grande, superando i dieci miliardi di dollari sia negli Usa che nell'area dell'euro. Chi come la Cina parte da un livello produttivo molto basso può raggiungere con molto più facilità una notevole crescita del prodotto interno lordo, mentre per quei paesi a capitalismo maturo raggiungere gli stessi ritmi di crescita è fuori dalla loro portata. L'esperienza storica di questi ultimi trent'anni dimostra che la crisi di ciclo che si è aperta nei primi anni settanta impone al capitalismo ritmi di crescita molto più bassi rispetto agli anni cinquanta e sessanta, periodo in cui il ciclo economico viveva la sua fase ascendente. Se inoltre consideriamo il dato del reddito pro capite possiamo ben capire da quali bassissimi standard parte la Cina rispetto a paesi come il Giappone, gli Stati Uniti o la Germania. Se dividiamo il Pil cinese per una popolazione di un miliardo e trecento milioni di persone otteniamo un reddito pro capite bassissimo che non regge assolutamente il confronto neanche con il più povero dei paesi europei. In virtù di ciò le proiezioni econometriche fatte dalla Banca Mondiale lasciano il tempo che trovano non tenendo conto dei diversi livelli produttivi da cui si muovono la Cina e gli Stati Uniti.
Privatizzazione dell'economia e crescita della disoccupazione
Fin dai tempi di Deng e della formula del socialismo di mercato, uno degli obiettivi del regime cinese è stato quello di avviare una radicale privatizzazione dell'economia. Tale processo si è legato all'apertura dell'economia cinese al resto del mondo ed al conseguente afflusso di capitali stranieri. Malgrado il passaggio al socialismo di libero mercato la riforma delle aziende statali stenta a decollare per le difficoltà sociali che determina tale progetto. Qualche dato può servirci per comprendere meglio il problema.
Gli ultimi dati disponibili riferiti al 2001, a venti anni dall'avvio delle prime privatizzazioni, ci dicono che in Cina ci sono ancora ben 118 mila imprese statali, la maggioranza delle quali opera in perdita e ad un livello di competitività inferiore rispetto alle imprese non statali e a quelle che usufruiscono degli investimenti stranieri. L'insieme della aziende statali generano un terzo del prodotto interno lordo, mentre assorbono più dei due terzi della forza lavoro cinese. Se consideriamo solo il settore industriale osserviamo che le imprese statali producono il 27% del prodotto industriale nazionale, mentre impiegano il 70% dei lavoratori del settore (4). Vista la scarsa competitività delle imprese statali, il governo ha stimato che la ristrutturazione dell'apparato industriale renderebbe superfluo oltre un terzo dei lavoratori impiegati in queste aziende. Le perdite accumulate dalle imprese statali sono aumentate in termini esponenziali nel corso degli ultimi anni, passando dai 55 miliardi di yuan del 1985 ai 541 miliardi del 1995; nello stesso periodo il loro contributo alla produzione industriale si è addirittura dimezzato, scendendo dal 70% del 1985 al 35% del 1995.
Una crisi che avrà ripercussioni pesantissime sull'occupazione. Se dovesse concretizzarsi il tanto paventato risanamento delle imprese statali assisteremmo ad una esplosione del fenomeno della disoccupazione di massa di dimensioni bibliche. Il completo programma di ristrutturazione comporterebbe decine di milioni di lavoratori abbandonati a loro stessi. Secondo i dati ufficiali il tasso di disoccupazione nelle zone urbane nel 2001 è stato del 3%, mentre è più realistico parlare di un livello della disoccupazione che raggiunge il 20%, a cui bisogna aggiungere 30 milioni di giovani che ogni anno s'affacciano sul mercato del lavoro. Nel solo 1999 sono stati licenziati dalle imprese statali 6,1 milioni di lavoratori, e nei prossimi anni saranno altri 12 milioni a perdere la propria occupazione. In Cina disoccupazione significa povertà assoluta, visto che non esistono quegli ammortizzatori sociali che in Europa, nonostante i continui tagli allo stato sociale, attenuano in parte e per qualche mese il disagio di trovarsi senza un lavoro dalla sera alla mattino.
L'ingresso della Cina nel Wto
L'integrazione dell'economia cinese nell'ambito di quella mondiale ha subito un'improvvisa accelerazione nel novembre del 2001 grazie all'ingresso del gigante giallo nella World Trade Organization (Wto), succeduta nel 1995 al Gatt. Le trattative per essere ammessa nella Wto sono state lunghissime, tanto che le resistenze, soprattutto da parte degli Stati Uniti hanno ostacolato fino all'ultimo momento l'ingresso della Cina come 143° membro dell'organizzazione internazionale. Per l'ammissione il governo di Pechino ha dovuto fare numerose concessioni: in primo luogo ha dovuto abolire il controllo statale sui prezzi della maggior parte delle merci e dei servizi. In seguito all'eliminazione del calmiere statale, oltre il 90% dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime vengono determinate dal mercato. L'inevitabile conseguenza di tale scelta è stata l'immediata impennata dell'inflazione, che nonostante le cifre ufficiali si ostinano a considerarla sotto controllo, nell'ultimo anno è stata di quasi il 20%. La liberalizzazione dei prezzi dei prodotti agricoli si è accompagnata alla fine delle sovvenzioni statali all'agricoltura, avvantaggiando di fatto i paesi più industrializzati che hanno in tal modo la potenziale possibilità di esportare verso il mercato cinese i loro più competitivi prodotti. Secondo gli accordi per l'ingresso nella Wto le sovvenzioni statali all'agricoltura cinese non possono superare l'8,5% del valore della produzione, mentre nei paesi a capitalismo avanzato tali sussidi non possono superare il 5% del valore della produzione agricola. Per un periodo transitorio lo stato cinese mantiene il controllo sui prezzi di alcuni prodotti agricoli come cereali, oli vegetali, cotone e tabacco, e su quelli ritenuti d'interesse strategico come gas naturale, elettricità, servizi postali e telecomunicazioni.
Se dal punto di vista della produzione agricola la Cina ha dovuto fare notevoli concessioni alla concorrenza internazionale, i vantaggi che ne derivano per la produzione industriale dovrebbero essere notevoli. Grazie all'ingresso nella Wto la Cina godrà di particolari benefici nell'esportazione di prodotti industriali la cui fabbricazione richiede un forte impiego di manodopera come scarpe, prodotti elettronici di largo consumo, giocattoli. Proprio in questi settori la produzione della Cina rappresenta una quota rilevante rispetto a quella mondiale. Per esempio in Cina viene prodotto l'83% dell'abbigliamento per donna e casual, l'80% delle scarpe da donna, il 75% degli articoli sportivi, il 40% della biancheria per la casa ed il 24% degli orologi. Una massa enorme di merci a basso contenuto tecnologico che sono competitive solo ed esclusivamente grazie ai bassissimi salari degli operai cinesi.
Gli effetti dell'ingresso della Cina nella Wto saranno destinate a trasformare profondamente il suo tessuto economico e sociale, con pesantissime ripercussioni sia sui livelli occupazionali che salariali. Con la fine delle sovvenzioni statali all'agricoltura si prevede che molti dei circa 350 milioni di lavoratori agricoli saranno spinti dalla liberalizzazione dei prezzi e dal conseguente aumento del costo della vita a migrare verso le aree costiere maggiormente industrializzate. Un processo in parte già iniziato ma che nei prossimi anni è destinato ad ampliarsi; milioni di contadini espulsi dalle proprie terre e costretti a migrare nelle grandi città in cerca di un posto di lavoro, oppure trasferirsi nei paesi limitrofi. Con il costante afflusso di manodopera in cerca d'occupazione crescerà anche la pressione verso il basso del costo della forza lavoro, contribuendo a tenere ancor più giù i salari nelle imprese che producono per l'esportazione. È per questo motivo che i gruppi transnazionali hanno trasferito le attività produttive in Cina, dove usufruiscono dei più bassi livelli salariali. Nelle fabbriche cinesi dove si producono confezioni di noti marchi internazionali, a parità di professionalità e produttività, il salario medio di un operaio cinese è di quaranta volte inferiore rispetto a quello percepito da un operaio statunitense.
Uno sviluppo dipendente dall'estero
Il meccanismo economico che ha finora permesso alla Cina di svilupparsi ad un ritmo molto sostenuto, fatte alcune debite considerazioni, non si differenzia molto da quello che ha portato al fallimento paesi come il Messico, le tigri asiatiche o l'Argentina. Infatti, anche la Cina così come i due paesi latinoamericani e quelli del sud est asiatico per rilanciare la propria economia ha dovuto attirare dall'estero una massa enorme di capitali. L'afflusso dei capitali internazionali ha determinato un elevato debito estero che nel corso del 2000 è stato pari a 148,8 miliardi di dollari, debito tenuto sostanzialmente sotto controllo grazie alla costante crescita delle esportazioni e del prodotto interno lordo. In tal modo il rapporto tra debito estero e Pil è rimasto sostanzialmente costante non generando quel panico d'insolvibilità negli investitori internazionali che invece ha portato al fallimento i paesi sopra citati. È questa la prima grande differenza che emerge tra la Cina e gli altri paesi finiti sotto i colpi di gravissimi crolli economici. La Cina è stata finora in grado di bilanciare l'afflusso di capitali stranieri con l'esportazioni di merci, resi competitivi solo ed esclusivamente grazie ai bassissimi salari degli operai cinesi. Questo meccanismo ha subito un primo campanello d'allarme durante la crisi dei paesi del sud est asiatico del 1998, quando sono bastati alcuni mesi di recessione economica nei paesi dell'area per far diminuire drasticamente il volume delle esportazioni cinesi.
In sostanza dietro il miracolo cinese si nascondono le stesse insidie di crolli repentini della produzione che hanno portato al fallimento interi paesi e scaraventato nella fame più nera milioni di proletari. L'aumento costante delle esportazioni ha finora bilanciato l'afflusso di capitali provenienti dall'estero, ma tutto questo rende la Cina un paese che dipende in maniera preoccupante dall'andamento dei mercati internazionali ed in particolare dal Giappone e dagli Stati Uniti. L'interscambio commerciale con Giappone e Stati Uniti rappresenta oltre la metà del commercio estero cinese. Secondo gli ultimi dati diffusi dal governo di Pechino nel corso del 2001 il commercio estero cinese ha raggiunto la soglia dei 600 miliardi di dollari, grazie soprattutto all'aumento delle esportazioni verso gli Stati Uniti, diventati nell'ultimo anno il maggior partner commerciale della Cina.
Rispetto ai paesi caduti sotto i colpi della crisi economica la Cina si differenzia non solo per l'enorme dimensione territoriale e demografica, ma anche per il fatto di possedere riserve valutarie come pochi paesi al mondo. Proprio in questi ultimi due anni la Cina ha incrementato le proprie riserve valutarie del 6,5%, raggiungendo alla fine del 2000 i 156 miliardi di dollari. La detenzione di una massa considerevole di riserve valutarie ha favorito il governo di Pechino nella scelta di non svalutare la propria moneta durante la crisi delle tigri asiatiche della fine anni novanta e non interrompere quindi l'afflusso di capitali dall'estero. Dal punto di vista dell'equilibrio macro economico le riserve valutarie hanno finora permesso alla Cina di respingere tutti gli attacchi speculativi contro la propria moneta, alimentando in tal modo il flusso di investimenti diretti dall'estero. Nello stesso tempo con la rivalutazione rispetto alle monete dei paesi dell'area le esportazioni tendono a diventare meno competitive. La contraddittorietà del meccanismo è tale che se da un lato si protegge l'afflusso dei capitali, dall'altro con la rivalutazione si rendono le esportazioni meno competitive e quindi si creano le condizioni per chiudere il circolo virtuoso sul quale è basato lo sviluppo economico.
Conclusioni
La crescita economica della Cina di questi ultimi dieci anni è il frutto delle particolari condizioni di crisi in cui versa il capitalismo internazionale. Grazie alla liberalizzazione dell'economia, all'apertura di aree dove gli investitori internazionali possono investire senza tanti vincoli burocratici, alla presenza di manodopera a bassissimo costo, la Cina si è trasformata nell'area più importante dove le grandi imprese transnazionali hanno delocalizzato la produzione. Tutto questo non significa che la Cina ripercorrerà le stesse linee di sviluppo dei paesi a capitalismo avanzato; in altre parole in Cina non assisteremo alla nascita di un'industria diffusa sul territorio e all'affermarsi di un'ampia fascia di piccola e media borghesia o aristocrazia operaia, così come è avvenuta nella fase ascendente del ciclo d'accumulazione negli Stati Uniti o nei paesi dell'Europa occidentale. Anche se la crescita dovesse continuare nei prossimi anni, lo sviluppo economico interesserà solo determinate e ben circoscritte aree geografiche del paese (attualmente le Zen) e nello stesso tempo tale crescita potrà essere mantenuta a patto che i già bassi salari dei lavoratori siano ulteriormente compressi per attirare nel paese gli investimenti internazionali. Uno sviluppo economico che potrà continuare solo a patto che siano affamati milioni di contadini espulsi dalle campagne e che il proletariato industriale cinese sia disposto a lavorare sempre di più per ricevere un salario sempre più basso.
Nelle relazioni interimperialistiche la Cina è destinata a giocare un ruolo di primo piano nei prossimi tempi, non solo per il fatto di rappresentare il principale serbatoio di forza-lavoro mondiale per il capitalismo mondiale, ma anche per le sue enormi dimensioni territoriali e demografiche. In questa fase della politica internazionale nella quale gli Stati Uniti pur di mantenere il proprio dominio imperialistico sul mondo sono disposti a giocare fino in fondo tutte le proprie carte, non ultima quella della guerra permanente, la Cina per le sue dimensioni e per la sua strategica posizione geografica è destinata ad essere al centro della scena mondiale. La crescita di quest'ultimo decennio gli ha fatto riacquistare un ruolo di primo piano nello scacchiere dell'est asiatico e in tutta l'area del Pacifico. L'opposizione alla seconda guerra nel golfo persico, i sempre più tesi rapporti con gli Stati Uniti, le minacce di spostare le proprie riserve monetarie verso l'euro, il riavvicinamento alla Russia e alle repubbliche ex sovietiche centro asiatiche, i sempre più stretti rapporti politico commerciali con i paesi europei, lasciano intravedere che la Cina sta facendo una scelta di campo strategico nello scontro imperialistico che all'orizzonte si profila tra gli Stati Uniti e l'asse costituito da Francia, Germania e Russia. Allo stato attuale delle cose tutto è soggetto a repentini cambiamenti, non solo l'asse con Parigi, Berlino e Mosca, ma visti i presupposti sui quali è basata l'attuale crescita economica, la Cina potrà passare nel volgere di pochissimo tempo dal boom alla recessione economica con conseguenze sociali catastrofiche.
Lorenzo Procopio(1) Maria Weber, Il Miracolo Cinese perché bisogna prendere la Cina sul serio. Ed. Il Mulino 2003 - pag. 38.
(2) Ibidem - pag. 125.
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