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Da Prometeo III serie n. 24-25, 1975
Teoria delle contraddizioni
Questo breve esame è comparativo nei confronti del marxismo e di una certa parte del leninismo ed è inteso ad inquadrare il maoismo come metodologia interpretativa dei fenomeni sociali, scissa dal metodo dialettico, anche se sul piano della teoria, questa ne rappresenta formalmente il punto di partenza.
È attraverso una successione di situazioni logico-formali che il maoismo riesce a snaturare il marxismo sino a capovolgerlo. Il suo sforzo teorico, in sede di interpretazione filosofica e di prassi politica, è quello di partire da premesse generalizzate del marxismo (esempio, la teoria delle contraddizioni) per poi, attraverso un lucido quanto astuto discorso mediato, arrivare a delle conclusioni completamente opposte, in cui le contraddizioni ed il loro carattere antagonistico si scambiano di posto e di funzione a seconda delle esigenze di una visione tattica, a cui tutto è subordinato; la tattica non è più un momento più o meno importante della visione strategica, ma assume il ruolo preminente là dove, nella tradizione leninista, le compete quello subordinato.
Dalla visione strategica si passa a quella tattica, dalla contraddizione fonda mentale si passa alla subordinata, ogni situazione particolare è analizzata e affrontata singolarmente e non come aspetto parziale di una realtà più vasta che la comprenda.
Il contingentismo di Mao arriva, attraverso una serie di passaggi logico-formali a capovolgere i termini del problema di classe, attribuendo di volta in volta, alla borghesia ed al proletariato capacità di simbiosi che si riscontrano soltanto nei più grandi teorici dell'interclassismo.
Ma lasciamo parlare Mao e seguiamo il suo cammino espositivo. Il processo, come vedremo, è sempre lo stesso: si passa da una premessa generale ad una secondaria, si interpreta quest'ultima sino a giungere a delle conclusioni opposte a quelle che si erano enunciate precedentemente. La premessa generale genericamente valida è che se un processo comporta più contraddizioni deve necessariamente esistere una che è la principale e che gioca un ruolo preminente e determinante, mentre le altre non occupano che una posizione secondaria e subordinata.
Così -- dice Mao -- nella società capitalistica, le due forze in contraddizione, il proletariato e la borghesia, formano la contraddizione principale; le altre contraddizioni, come per esempio quelle tra il resto della classe feudale e la borghesia, tra la borghesia liberale e quella monopolistica, tra democrazia e fascismo in seno alla borghesia ecc. ecc. sono tutte determinate dalla contraddizione principale e sottomesse alla sua azione.
Ma questa situazione non è statica; l'aspetto principale e quello secondano della contraddizione si convertono l'uno nell'altro e il carattere dei fenomeni cambia di conseguenza. Se in un processo di sviluppo determinato o ad una tappa determinata dello sviluppo della contraddizione l'aspetto principale è A e l'aspetto secondario è B, ad un'altra tappa o in un altro processo di sviluppo, i ruoli sono invertiti; questo cambiamento è in funzione del grado di crescita o di decrescita raggiunto dalla forza di ogni aspetto nella lotta contro l'altro, nel corso di sviluppo del fenomeno.
In un paese semicoloniale come la Cina quando l'imperialismo lancia una guerra di aggressione contro un certo paese, le diverse classi di questo paese, ad eccezione di un piccolo numero di traditori della nazione, possono unirsi temporaneamente in una guerra nazionale contro l'imperialismo.
La contraddizione tra l'imperialismo e il paese considerato diventa allora la contraddizione principale e tutte le contraddizioni tra le diverse classi all'interno del paese (ivi compresa la contraddizione che era la principale, tra il regime feudale e le masse popolari) passano temporaneamente in secondo piano ed in una posizione subordinata. Questo è il caso della Cina nella guerra dell'oppio 1840, la guerra cino-giapponese del 1894, la guerra dei Jihotonan nel 1900 e l'attuale guerra cino-giapponese.
La prima osservazione che si impone è come Mao introduca il concetto di interscambiabilità delle contraddizioni (A-B che si scambiano di posto a seconda della presenza di un fenomeno esterno). La seconda osservazione riguarda l'analisi che Mao fa della società cinese negli anni immediatamente precedenti la guerra contro l'imperialismo giapponese, analisi che riguarda soprattutto i rapporti di produzione esistenti e la conseguente lotta di classe. Se nel periodo che va dal 1840 (prima guerra dell'oppio) al 1900 (guerra dei Jihotonan) si poteva parlare di rapporti di produzione tipicamente feudali e quindi di una contraddizione fondamentale che vedeva muoversi il contadiname povero contro l'aristocrazia fondiaria, non è più esatto riproporre nei medesimi termini la situazione dell'economia cinese del 1937 in cui i rapporti di produzione capitalistici introdotti da alcuni decenni dalle maggiori potenze imperialistiche (Francia, Inghilterra, Giappone) avevano, anche se in parte, modificato radicalmente le strutture economiche e dato conseguentemente origine ad una nuova contraddizione economica e quindi sociale che vedeva nella borghesia nazionale e nel proletariato cinese i nuovi elementi su cui impostare una tattica ed una strategia rivoluzionaria.
Ma ridiamo la parola a Mao:
Consideriamo la situazione della Cina. Nella contraddizione in cui la Cina si è trovata, ridotta a stato di semi-colonia, l'imperialismo occupa la posizione principale e opprime il popolo cinese, allorquando la Cina, da paese dipendente è diventato una semicolonia. Ma la situazione si modificherà inevitabilmente; nella lotta tra le due parti la forza del popolo cinese, forza che ingrandirà sotto la direzione del proletariato, trasformerà inevitabilmente la Cina da semicolonia a paese indipendente, nel momento in cui l'imperialismo sarà rovesciato la vecchia Cina sarà trasformata in una nuova Cina. (1)
A questo punto la prima parte del gioco è praticamente fatta. La logica di Mao è stringente e a suo modo conseguente; ogni passaggio si incastra perfettamente nell'altro come tante tessere di un mosaico. Ma già in questa fase iniziale si notano chiaramente i segni dell'opportunismo tattico. Il primo punto, come abbiamo osservato precedentemente, riguarda la classificazione. gerarchica delle contraddizioni ed il loro contesto storico. In una società borghese caratterizzata da rapporti di produzione capitalistici o in una colonia o semicolonia, in cui questi nuovi rapporti di produzione tendono a soppiantare quelli vecchi, la contraddizione fondamentale è tra la borghesia ed il proletariato, e questo rapporto rimane contraddittorio e antagonistico sino a quando l'evento rivoluzionario non riuscirà ad eliminare le cause oggettive. che pongono in essere questa contraddizione.
È quindi falso porre la questione della intercambiabilità delle contraddizioni e tanto meno arrivare a considerarle conciliabili, cioè non antagoniste come Mao successivamente tenterà di dimostrare.
L'esempio riportato è tra i più illuminanti: data una fase particolare dello sviluppo storico (Cina fino al 1937) in cui sono dati certi rapporti economici, la contraddizione fondamentale si presenta tra borghesia nazionale e proletariato, ma l'intervento di un fattore esterno, perturbatore, determina una nuova situazione. L'attacco imperialistico condotto nei confronti della Cina, che è riducibile in ultima istanza allo scontro tra una borghesia che attacca e una che è costretta a difendersi, sposta l'ago della bilancia.
Questo rapporto secondo Mao, assurge a contraddizione primaria, mentre quella tra la borghesia nazionale e il proletariato scade a livello di subordinata.
Ed è a questo punto che la concezione maoista entra in conflitto con quella marxista.
Se noi poniamo il problema da un punto di vista patriottico e quindi obiettivamente conforme alle esigenze della borghesia nazionale, la contraddizione fonda mentale è quella tra l'imperialismo e la borghesia indigena, dove agli interessi nazionali vengono sacrificati quelli di classe. L'ideologia che meglio si presta come giustificazione di questo tatticismo borghese è la flessibile teoria della interscambiabilità delle contraddizioni.
Se affrontiamo invece il problema da un punto di vista di classe (proletariato) la contraddizione fondamentale resta quella tra proletariato e borghesia, considerando quest'ultima come un momento antitetico di un più vasto fronte internazionale.
È chiara, nella prima ipotesi, la subordinazione degli interessi di classe alle esigenze patriottarde della borghesia nazionale: quando i confini della patria sono in pericolo, tutti i cittadini, senza distinzione di classe sono chiamati a difenderli.
In Mao, come vedremo più avanti, la dimensione nazionalistica assume sempre una importanza determinante, è la base da dove tutte le azioni tattiche partono e in cui opportunisticamente si concludono; nell'esempio analizzato, al profilarsi di un pericolo, quando si è in presenza di un nemico definito "comune", è l'indipendenza della patria che assume un ruolo preminente; gli interessi di classe, l'antagonismo tra proletariato e borghesia segnano il passo.
Dopo aver analizzato "pro domo sua" il ruolo e la funzione delle contraddizioni, Mao si accinge a considerarne l'aspetto antitetico divergendo in maniera definitiva dall'impostazione marxista.
Le contraddizioni e la lotta sono universali, assolute, ma i metodi per risolvere le contraddizioni, cioè le forme di lotta, variano a seconda del carattere delle contraddizioni: certe contraddizioni rivestono il carattere di un antagonismo dichiarato, altre no. Seguendo lo sviluppo concreto delle cose e dei fenomeni, certe contraddizioni primitivamente non antagoniste, si sviluppano in contraddizioni antagoniste, allorquando, primitivamente antagoniste si sviluppano in contraddizioni non antagoniste. L'unificazione del nostro paese, l'unità del popolo e l'unione di tutte le nostre nazionalità sono la garanzia fondamentale della certa vittoria della nostra causa. Ma ciò non significa per niente che non esiste più alcuna contraddizione nella nostra società. Sarebbe ingenuo il crederlo; questo sarebbe contorcere la realtà obiettiva. Noi siamo in presenza di due tipi di contraddizioni sociali, le contraddizioni tra noi e i nostri nemici e le contraddizioni in seno al popolo.
Nel corso della guerra di resistenza contro il Giappone, tutte le classi e strati sociali e gruppi sociali contrari al Giappone facevano parte del popolo, mentre gli imperialisti giapponesi, i collaboratori e gli elementi pro giapponesi erano i nemici del popolo. Durante la guerra di liberazione, i nemici del popolo erano gli imperialisti americani e i loro lacchè, la borghesia burocratica, i proprietari fondiari e i reazionari del Kuomitang che rappresentavano queste due classi, allorquando tutte le classi e strati sociali e gruppi sociali che combattevano questi nemici facevano parte del popolo.
Le contraddizioni tra noi e i nostri nemici sono contraddizioni antagoniste; in seno al popolo le contraddizioni tra lavoratori non sono antagoniste e le contraddizioni tra la classe sfruttata e sfruttatrice presentano, oltre al loro aspetto antagonista un aspetto non antagonista. Nel nostro paese la contraddizione tra la classe operaia e la borghesia nazionale fanno parte delle contraddizioni che si manifestano in seno al popolo.
Nel periodo della rivoluzione borghese, essa presenta un carattere rivoluzionario, ma nello stesso tempo aveva tendenza ad entrare in compromesso con il nemico. Nel periodo della rivoluzione socialista sfrutta la classe operaia e ne trae dei profitti, ma nello stesso tempo sostiene la costituzione e si mostra disposta a accettare la trasformazione socialista. Essa si distingue dagli imperialisti, dai proprietari fondiari e dalla borghesia burocratica. Le contraddizioni che la oppongono alla classe operaia sono delle contraddizioni tra sfruttatori e sfruttati e sono di natura antagonista. Tuttavia, nelle condizioni concrete del nostro paese, le contraddizioni antagoniste tra queste due classi possono trasformarsi in contraddizioni non antagoniste e ricevere una soluzione pacifica se sono trattate in maniera giudiziosa [sic!].
Il discorso, come si vede, scorre facilmente sui binari precedentemente tracciati. Il nemico da abbattere, quindi la contraddizione fondamentale è l'imperialismo invasore e i suoi alleati interni, proprietari fondiari, borghesia burocratica, mentre la borghesia nazionale ha a sua volta nella piccola borghesia urbana, nel contadiname povero i suoi alleati naturali.
Per la giusta risoluzione di questa contraddizione, Mao indica la via della rivoluzione democratico-borghese, in cui le classi subalterne, formano un unico insieme sotto l'egida degli interessi della borghesia nazionale che Mao, rifacendosi ad una terminologia di tipo illuministico, definisce popolo.
Ne consegue che la contraddizione fondamentale è tra il popolo (coalizione delle quattro classi), contro i nemici del popolo (imperialismo giapponese); tutte le rimanenti contraddizioni, prima fra tutte quelle tra la borghesia nazionale e il proletariato, si acquietano in attesa della loro giusta risoluzione.
Lotta di classe e lotta di popolo
Il Maoismo, dunque, introduce una terminologia nuova nelle recenti interpretazioni del pensiero di Marx, dove, al termine di lotta di classe inteso nella accezione più genuinamente rivoluzionaria del termine, si sostituisce quello più ambiguo e generico di lotta di popolo.
Il perché di questa sostituzione terminologica è implicito in quanto precedentemente si è svolto, ma sono necessarie ulteriori osservazioni.
In Mao è presente una sola preoccupazione, che inficia in maniera costante tutta la sua elaborazione teorica: come portare la Cina da paese colonizzato e semi-feudale, a nazione libera e indipendente, in cui sia possibile portare avanti un processo di industrializzazione autonomo dalle ingerenze del capitale finanziario straniero e dalla sudditanza politica che questo inevitabilmente comporta.
L'unica via che può portare a questi risultati è quella di una guerra di liberazione nazionale, la quale però, dato il contesto delle forze imperialistiche su scala internazionale e delle condizioni economiche interne, deve tenere presente sul piano tattico due fattori determinanti.
- Sconfiggere internamente quelle forze economicamente retrive, sostenute dal nemico, (borghesia burocratica e aristocrazia fondiaria) che si opponevano al processo di modernizzazione delle strutture economiche del paese.
- Elaborare una adeguata ideologia, che nel suo contenuto si rivolga alle classi tradizionalmente oppresse e che sia quindi in grado di spingere le masse verso una guerra nazionale in difesa degli interessi della propria borghesia, che si vedrebbe così realizzata sui due fronti: sganciamento dall'imperialismo straniero e sconfitta all'interno delle classi legate al mondo della feudalità.
Nella prima situazione l'ideologia che meglio calza è quella della “giusta risoluzione delle contraddizioni”; nella seconda è necessario introdurre, come del resto sempre hanno fatto le borghesie di tutti i paesi, il concetto di popolo.
Ne consegue che per risolvere la situazione critica nella quale viene a trovarsi la borghesia cinese negli anni della dominazione giapponese, è che il popolo, nel suo significato più largamente interclassista, sorregga la propria borghesia contro i nemici interni ed esterni, con una lotta che aggiunge al termine nazionale quello eterogeneo di popolare
La finzione tattica del resto non è nuova. La borghesia, che si trova, ad uno stadio del proprio sviluppo, a dover risolvere sul piano della forza i propri problemi di classe contro il mondo feudale, si allea con le classi subalterne accomunandole sotto falsi obiettivi.
All'epoca della rivoluzione francese, la borghesia riuscì a muovere il terzo stato, di cui anch'essa, in questo frangente, si degnava di far parte, all'insegna degli ideali illuministici di uguaglianza e libertà.
Nel periodo del secondo conflitto mondiale, nel momento in cui il fronte dell'imperialismo internazionale si era temporaneamente rotto sotto l'urto violento della guerra, per poi ricomporsi su nuovi e ancora una volta precari equilibri, è il mito di una più recente uguaglianza, quella socialista, che diventa un'arma mistificatoria nelle mani delle più recenti borghesie.
Nell'episodio della "rivoluzione cinese", tutto, dall'ideologia alla tattica, dalla concezione della lotta al ruolo delle classi, concorre a fare di questo episodio storico, una esperienza tipicamente nazionale con tutte le conseguenze che da essa derivano sul piano della economia e della sovrastruttura politico-amministrativa.
Il termine "popolo" nella ideologia maoista, è quindi, un punto fermo che ben si presta a giustificazione degli accadimenti cinesi.
A questo punto la logica maoista perde la sua solita chiarezza assumendo giustificazioni teoriche superficiali.
Come abbiamo visto, il primo fondamentale passaggio, attraverso il quale Mao attua la personale interpretazione delle contraddizioni, è quello di spostare la contraddizione primaria all'esterno delle lotte di classe che comunque persistono nella realtà cinese, identificandola nell'antagonismo tra il popolo e i nemici del popolo.
Questo rapporto non solo si dimostra antagonistico ma è anche inconciliabile, quindi cessa di valere la lotta di classe per assumere un ruolo preminente la lotta di popolo.
Superata questa prima contraddizione, restano da risolvere quelle in seno al popolo. Ma Mao chiude sbrigativamente la questione affermando che le contraddizioni in seno al popolo (in cui continua a manifestarsi quella fondamentale tra borghesia nazionale e proletariato) hanno un carattere non antagonistico e quindi, prese per il giusto verso, conciliabili. A giustificazione di questa affermazione del tutto gratuita e non sorretta da una sufficiente analisi, Mao porta l'esempio di una borghesia, quella cinese la quale, per una serie di circostanze non chiarite, si comporterebbe in maniera a dir poco sconcertante.
Da una parte la borghesia, in quanto tale, nasce e si sviluppa su rapporti di produzione che non possono essere che capitalistici, quindi sfrutta e soggioga politicamente il proletariato; dall'altra, in virtù di uno spirito di abnegazione veramente ammirevole, essa verrebbe meno ai suoi interessi storici di classe, per i quali ha combattuto, per dichiararsi disposta, sono parole di Mao, ad accettare la trasformazione socialista.
In altri termini, fatta l'unità nazionale, le contraddizioni all'interno della società, pur mantenendo un carattere antagonistico, se prese con le pinze e lisciate per il giusto pelo, possono addivenire ad una soluzione pacifica.
A questo punto del marxismo non sono rimaste nemmeno le briciole: alla scienza classista si è contrapposta la più mistificatoria delle teorie interclassiste, all'internazionalismo proletario, il nazionalismo borghese, e, con una facile sintesi, al marxismo proletario, il maoismo borghese.
Un'ultima precisazione. Nello svolgersi della interpretazione delle leggi che regolano le contraddizioni nel divenire della società e quindi della lotta di classe, Mao parte da una premessa fondamentale presa a prestito dalla concezione dialettica in cui individua la contraddizione fondamentale in quella tra sfruttati e sfruttatori, inquadrati in un ben determinato contesto produttivo. L'intervento di un fattore esterno, nel caso specifico, l'aggressione imperialistica giapponese, crea una situazione particolare in cui la contraddizione fondamentale finisce per essere quella tra il popolo cinese ed il suo nemico invasore.
Dando una definizione maoista al processo, abbiamo che la contraddizione fondamentale è quella tra il popolo e i suoi nemici, mentre le contraddizioni in seno al popolo, originariamente fondamentali, finiscono per diventare subordinate.
A questa fase dello svolgimento dei fatti, seguendo la falsariga logico-formale del pensiero di Mao, dovremmo essere autorizzati a pensare che nel momento in cui la contraddizione primaria viene risolta attraverso la guerra di liberazione nazionale, la contraddizione secondaria in seno al popolo (borghesia nazionale e proletariato) ridivenga quella principale mancando il motivo di subordinazione. Ma questa contraddizione non solo non riassume il proprio ruolo originario, ma cessa persino di essere antagonistica, contravvenendo alle stesse leggi dell'interpretazione maoista sulla mutua interscambiabilità delle contraddizioni. Questa "svista" dell'impalcatura logica del maoismo, a cui si tenta di porre rimedio con la formulazione teorica dello stato di nuova democrazia, è l'inevitabile conseguenza del tentativo, non sempre riuscito, di camuffare gli interessi della borghesia indigena con paludamenti genericamente marxisti.
Una conseguente interpretazione del fenomeno cinese avrebbe dovuto condurre, dopo la guerra di liberazione, ad un nuovo conflitto di classe, questa volta definitivo ai fini della costruzione della società socialista, tra la borghesia nazionale ed il proletariato.
Ma ancora una volta, la risolvibilità delle contraddizioni in seno al popolo e la fantomatica dittatura 'delle quattro classi (presupposto della nuova democrazia) sono gli antidoti atti a scagionare nella nuova Cina il pericolo della reale lotta di classe.
Il fronte unito
Le premesse filosofiche che abbiamo analizzato nel paragrafo precedente, ci servono ora per meglio inquadrare i problemi storici che vanno dal 1935 al 1949.
L'aspetto, che più di ogni altro pervade la tattica del Partito Comunista Cinese, è l'indipendenza economica e l'autonomia politica del paese.
Questo aspetto interessava soprattutto la borghesia nazionale che vedeva nello imperialismo giapponese un freno inibitore alle proprie aspirazioni nazionalistiche.
La situazione andava assumendo toni ancora più pesanti nella misura in cui il Giappone, nel tentativo di crearsi degli alleati interni e quindi una base politica su cui operare, appoggiava le forze economiche più retrive (proprietari fondiari, borghesia compradora) che, a loro volta, vedevano nell'intervento di un imperialismo straniero la propria ragione di vita economica e l'appoggio politico necessario alla sua giustificazione.
Dall'altro lato della barricata, la borghesia nazionale, ancora troppo debole per combattere da sola i nemici interni, non era in grado di spazzare via il mondo della feudalità con una prova di forza, tanto meno era in grado di opporsi autonomamente all'imperialismo giapponese.
È in una situazione obbiettivamente precaria per la borghesia nazionale che nasce e si fa strada la lotta contro l'imperialismo giapponese nella forma del fronte unito nazionale.
Il problema era dunque di legare su questo obiettivo le masse operaie ("popolo" nella terminologia maoista) le quali dovevano ancora una volta sobbarcarsi il peso di una guerra in difesa degli interessi nazionali, quindi della propria borghesia, rinunciando a porre sul tappeto le proprie istanze di classe.
Ed è Mao che si assume il compito di interpretare questa situazione indirizzando la politica del PCC su basi tattiche e strategiche che assecondassero le esigenze economiche e politiche della borghesia cinese.
Questa situazione, alla fine del '35, vedeva il Giappone impegnato ad allargare la propria espansione su tutto il territorio cinese, partendo dalle quattro province nord-occidentali già in suo possesso.
Il momento era estremamente dei più critici. Bisognava, nell'ambito del partito, avallare la nuova tattica da tenere nei confronti della borghesia nazionale; vincere l'ostinatezza dei rigidi settari (correnti di sinistra che a quel tempo ponevano il problema da un punto di vista di classe) e dare una plausibile giustificazione allo appoggio delle classi sfruttate nei confronti della borghesia nazionale, appoggio il quale doveva trovare una formula che desse le necessarie garanzie sul modo di interpretare la lotta contro l'imperialismo nipponico e che, nello stesso tempo, non uscisse da questi binari per assumere, nel corso degli avvenimenti, un'impronta veramente rivoluzionaria.
Di questa preoccupazione Mao è ancora una volta il più fedele interprete.
Da un lato, queste frazioni (della borghesia nazionale) non amano l'imperialismo; dall'altro, temono una rivoluzione condotta fino in fondo e oscillano tra l'una e l'altra. (2)
Il fronte unito, nella sua dimensione interclassista, se come obiettivo strategico aveva il compito di combattere il nemico esterno e i residui feudali all'interno, da un punto di vista tattico doveva risolvere l'antagonismo tra il proletariato e il contadiname povero da una parte e la borghesia nazionale dall'altra contro la quale i primi avevano combattuto dal 1927 in poi.
Il primo compito era dunque quello di tacitare le voci di dissenso nell'ambito del partito, peraltro numerose, e di rassicurare le classi subalterne del carattere duttile e comunque sfruttabile della borghesia, attribuendole, nonostante le oscillazioni, un carattere "rivoluzionario" prendendo ad esempio il comportamento delle sue armate.
Di quali classi rappresenta gli interessi la XIX armata comandata da Tsai Ting-kai e da altri? Rappresenta gli interessi della borghesia nazionale, degli strati superiori della piccola borghesia, dei contadini ricchi e dei piccoli proprietari fondiari nelle campagne.
Tsai Ting-kai e i suoi seguaci non hanno combattuto accanitamente contro l'esercito rosso? Sì, ma in seguito hanno concluso con esso un'alleanza per resistere al Giappone e combattere Chiag Kai-Shek. Nel Kiangsi avevano attaccato l'esercito rosso, ma in seguito a Shanghai, hanno combattuto l'imperialismo giapponese; poi nel Fukien, hanno concluso un accordo con l'esercito rosso e hanno rivolto le armi contro Chiang Kai-Shek. Qualsiasi cosa facciano in futuro Tsai Ting-kai e i suoi seguaci, e nonostante che a suo tempo il loro governo popolare del Fukien, agendo alla vecchia maniera, non abbia mobilitato il popolo alle lotte, il solo fatto che essi abbiano spostato il fuoco, prima diretto contro l'esercito rosso poi sull'imperialismo giapponese e Chiang Kai-Shek, deve essere considerato un atto utile alla rivoluzione. (3)
Ed ecco un altro chiaro esempio. La XIX armata, che in precedenza aveva attaccato l'esercito rosso nel Kiangsi assieme alla XIX armata, non dette vita alla insurrezione di Ningtu nel dicembre del '31 e non divenne parte dell'esercito rosso?
I capi di questi insurrezione, Chao Po-Sheng, Tung Chen-Tang e altri, sono ora diventati dei compagni che combattono risolutamente per la rivoluzione.
È chiaro che il termine rivoluzione così largamente usato da Mao è un eufemismo che sottende il concetto di guerra di indipendenza nazionale, ed è ancora più palese che la borghesia e i suoi generali non sono diventati dei comunisti dallo oggi all'indomani, ma avevano visto giusto nel considerare come pericolo maggiore, per la difesa dei propri interessi di classe, il nemico esterno che non il proletariato ed il contadiname indigeni adeguatamente ammansiti ed incanalati sul piano degli interessi della patria dal PCC.
Per quanto riguarda il secondo aspetto del problema: dare alla borghesia nazionale le necessarie garanzie di come verrà condotta la lotta di liberazione nazionale ed entro quali limiti questa si deve svolgere, Mao è di una chiarezza estrema che non lascia spazio ad interpretazioni di sorta.
Tuttavia, se la borghesia nazionale aderisce al fronte unito anti-imperialista, la classe operaia e la borghesia nazionale avranno interessi comuni. La repubblica popolare, nel periodo della rivoluzione democratico-borghese non abolirà la proprietà privata, a meno che non abbia un carattere imperialista o feudale, non confischerà le imprese industriali e commerciali della borghesia nazionale, ma al contrario ne incoraggerà lo sviluppo. Dobbiamo proteggere qualsiasi capitalista nazionale, a condizione che non appoggi gli imperialisti e i traditori della patria. Nella fase della rivoluzione democratica, la lotta fra lavoro e capitale ha dei limiti. Le leggi sul lavoro della Repubblica Popolare, salvaguarderanno gli interessi degli operai ma non saranno dirette contro lo arricchimento della borghesia nazionale e lo sviluppo dell'industria e del commercio nazionali, poiché tale sviluppo nuoce agli interessi dell'imperialismo ed è a vantaggio degli interessi del popolo cinese. (4)
In questo passo c'è tutto il maoismo. Il teorico delle contraddizioni si contraddice. È da dimostrare, marxisticamente, come in una fase in cui la borghesia lotta per la propria emancipazione e contro il feudalesimo nell'ambito dei propri confini e contro l'imperialismo invasore, vedendosi consolidare il proprio sviluppo economico, il proletariato possa avere interessi comuni con questa borghesia, quando è sullo sfruttamento del primo che maturano le obiettive ragioni d'essere della seconda. Sostenere anche per un solo momento che la borghesia e il proletariato possano avere interessi comuni è la più aberrante dichiarazione che possa uscire dalla bocca di qualsiasi individuo che si richiami, anche in maniera generica, al marxismo. Nessuno dei più grandi opportunisti della II Internazionale, e ne ha sfornati parecchi, ha mai espresso così chiaramente un concetto antioperaio e antirivoluzionario.
La cosa assume un tono visibile se non ci fosse di mezzo la castrazione del proletariato, quando accanto ad una dichiarazione di questo genere si afferma, senza mezzi termini, ed operando di conseguenza, che non solo i capitalisti nazionali non verranno boicottati nella costruzione della "nuova società", ma favoriti, e che nessun freno sarà posto al loro arricchimento.
A questo punto non c'è da chiedersi nemmeno come si sarebbe comportato un partito dichiaratamente borghese qualora fosse stato al posto del PCC, ma soltanto se, in circostanze analoghe avrebbe ottenuto tanto senza suscitare la naturale reazione delle restanti stratificazioni popolari.
È nello svolgersi di simili accadimenti che Mao vede l'esistenza di comuni interessi tra le classi, come se, al di là di una simile impostazione, ci potessero essere altri e migliori interessi borghesi da salvaguardare.
Non è tutto. Nell'ammettere, in via subordinata, l'esistenza della lotta di classe, precisa che questo conflitto deve avere necessariamente dei limiti (per il proletariato) oltre i quali non è lecito spingersi, pena l'impossibilità di creare un nuovo tipo di società in cui siano liberi e potenziati tutti i termini economici di un rapporto produttivo di tipo capitalistico.
Predominio del pragmatismo
Come possiamo notare, le leggi della dialettica, che nelle elaborazioni di Mao erano scadute alla più modesta dimensione di logica formale, ora cessano anche di essere tali precipitando in una finzione banale, tanto più meschina quanto maggiori sono le contraddizioni che si vogliono evitare.
Ed ancora una volta le carte si confondono e ne esce il solito discorso populista dove l'approssimativa terminologia adottata è consona allo spurio contenuto classista a cui si riferisce.
Nel tratteggiare a larghe linee quale sarà il punto di approdo della lotta del fronte unito nazionale così conclude Mao:
Tuttavia la repubblica popolare, abbattendo il giogo imperialista per dare alla Cina libertà e indipendenza, abbattendo il giogo dei proprietari fondiari per liberare la Cina dal regime semi-feudale, farà non solo gli interessi degli operai e dei contadini, ma anche degli strati popolari. Gli interessi della nazione cinese sono costituiti dall'insieme degli interessi degli operai, dei contadini e della rimanente parte del popolo. (5)
In questo frangente per onore di firma, Mao mette in risalto il fatto che nella futura repubblica popolare, si faranno gli interessi di tutti ed in primo luogo del proletariato e del contadiname accomunati al destino della borghesia che in questo caso diviene la non meglio identificata "rimanente parte del popolo".
Ma tutto ciò sarebbe plausibile e del tutto normale se fossimo in presenza di un partito nazionalista in procinto di fare una rivoluzione democratico-borghese, le cose cambiano aspetto quando si tratta di un partito che si autodefinisce comunista, che cerca la strada della rivoluzione socialista, pur passando attraverso una necessaria fase democratico-borghese.
Nella prima ipotesi, tutto filerebbe liscio secondo una strategia di tipo nazional-borghese con una tattica del tutto adeguata; nel secondo caso emergono vigorose le contraddizioni. Non è più sufficiente contrabbandare il marxismo riducendolo. ad una sorta di progressismo borghese mischiando gli interessi di classe nel concetto di popolo che tutti li comprende e li elide.
Mao è costretto a rifarsi ad una terminologia "classica" nel tentare di abbozzare una valida giustificazione della unicità degli interessi popolari, in cui per popolo si intende una generica moltitudine di individui legati da non chiari rapporti economici e giuridici che espletano la loro attività e soddisfano i "comuni" interessi su di un determinato suolo che appartiene alla nazione.
Gli interessi della nazione cinese sono costituiti dall'insieme degli interessi degli operai, dei contadini, e della rimanente parte del popolo. Sebbene anche i compradores ed i proprietari fondiari vivano sul suolo cinese, essi non tengono conto degli interessi della nazione, e quindi i loro interessi sono in conflitto con quelli della maggioranza. (6)
Traendo le debite conseguenze, il popolo che ha, in questo frangente, un comune interesse, deve combattere quelle stratificazioni sociali che non individuano i propri interessi con quelli del popolo, quindi non fanno parte del popolo e ne sono i nemici.
Nella interpretazione marxista le cose sono più semplici. Se per popolo si intende una comunità sociale, basata su determinati rapporti di produzione, esistono delle classi che esprimono questi rapporti. Non è quindi possibile parlare di interessi comuni di un popolo, ma dovremo parlare di interessi di classe in seno al popolo, ed in una società divisa in classi, questi interessi, ben lungi dall'essere comuni, sono antitetici e non componibili.
Anche Lenin parla di popolo e di rivoluzione popolare, ma in situazioni differenti e soprattutto con un contenuto diverso.
Nell'Europa del 1871, il proletariato non formava la maggioranza del popolo in nessun paese del continente. Una rivoluzione poteva essere popolare, mettere in movimento la maggioranza effettiva soltanto a condizione di abbracciare il proletariato e i contadini.
Queste due classi costituivano allora il popolo. Queste due classi sono unite dal fatto che la macchina burocratica e militare dello stato le opprime, le schiaccia, le sfrutta. Spezzare questa macchina, demolirla, ecco il vero interesse del popolo, della maggioranza del popolo, degli operai e della maggioranza dei contadini, ecco la condizione previa della libera alleanza dei contadini poveri con i proletari. (7)
Il primo fattore discriminante che vale anche per la rivoluzione cinese è dato dal fatto che in una situazione particolare dove il proletariato non può rappresentare la classe più numerosa e quindi determinare autonomamente un ruolo politico nella rivoluzione, abbisogna di appoggi ed alleanze tanto più necessari quanto più è debole.
Il termine popolo, nell'esperienza leninista, è comprensivo fondamentalmente di queste due classi che hanno il comune interesse di abbattere lo stato che con la forza e giuridicamente sancisce la loro sudditanza.
Diverso è il problema quando nel popolo si introduce un terzo elemento, antitetico ai primi due sia sul piano politico che economico, che porta con sé la propria ideologia e le proprie aspirazioni ed istanze di classe fino a farle considerare oggettivamente valide per tutte le altre classi, piegandole così alla propria strategia.
Questa terza componente del popolo, la borghesia nazionale, non solo non abdica a nessuna delle sue prerogative e rivendicazioni ma opera perché l'andamento della rivoluzione oltre a non ostacolare lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, ne rappresenti la garanzia, favorendone lo sviluppo sul piano economico e quindi politico.
La borghesia nazionale, nella teorizzazione maoista, non solo entra a far parte del popolo, ma ne rappresenta l'elemento costitutivo più importante.
Quello che per Lenin era soltanto un espediente tattico, dovuto all'arretratezza dei rapporti di produzione della Russia durante la rivoluzione, diventa per Mao l'appiglio teorico su cui edificare un nuovo concetto di popolo, dal quale sono esclusi solo gli elementi legati al mondo della feudalità in fase di disfacimento.
Del resto Mao non tergiversa eccessivamente sui contenuti e sul ruolo della resistenza al Giappone; questa fase, nella storia cinese, deve essere la lotta tra il mondo arretrato, immerso ancora nelle pastoie dell'economia semi-feudale, ed una realtà economica, giovane, per molti versi ancora debole, che muove i primi passi nei confronti dell'imperialismo e dei suoi alleati.
Il problema è quello di aiutare concretamente la borghesia con l'appoggio delle classi numericamente più forti, da qui la necessità del fronte unito. Per quanto riguarda la rivoluzione proletaria e la costruzione del socialismo, tutto rimane a livello di ipotesi; per il momento non viene presa in considerazione nemmeno la tesi della doppia rivoluzione.
La Cina si incammina sulla strada del nazionalismo borghese, dove il potenziamento dell'economia capitalistica rappresenta il contenuto e la Repubblica Popolare la nuova forma di gestione. Il socialismo ed i modi per raggiungerlo, sono nel '37
vagamente accennati; comunque si intravede quella che poi sarà il fulcro dell'impostazione: la dittatura delle quattro classi e la repubblica di nuova democrazia. In prospettiva, il socialismo è visto come una lenta trasformazione dello stato borghese (di nuova democrazia) in cui, pur esistendo le inevitabili contraddizioni tipiche di uno stato capitalista, questa volta libero ed indipendente, finiscono, se trattate per il giusto verso, per assumere un carattere non antagonista, per quindi comporsi in una forma armonica superiore che, inglobandole, le annulla, dando origine ad una società senza classi. In sintesi, il processo pseudo-dialettico proposto da Mao si svolgerebbe secondo questi tre momenti fondamentali:
- Fronte unito di tutte le forze sinceramente rivoluzionarie (borghesia nazionale, piccola borghesia urbana, contadiname, proletariato).
In questa fase, l'imperialismo giapponese relega in subordinazione la contraddizione tra la borghesia nazionale ed il proletariato in quanto l'aspetto principale è fornito dallo scontro tra il Giappone e la nazione cinese. - Nella seconda fase, cioè a liberazione effettuata, sotto il regime di nuova democrazia, caratterizzato dalla dittatura delle quattro classi, le contraddizioni, pur esistendo obiettivamente, hanno oltre al loro carattere antagonista, uno non antagonista; è sufficiente, operare con giusta misura su quest'ultimo per arrivare gradualmente ad una società senza classi.
- La terza fase è la conseguenza delle prime due. Il socialismo, senza scosse, lento e progressivo nel suo manifestarsi, appare come una gestione più democratica nell'ambito della produzione e della distribuzione.
Lo scontro di classe è continuamente rimandato e sostituito di volta in volta da situazioni "concrete" che trovano la loro giusta risoluzione al di fuori e contro gli interessi di classe.
Il problema su cui si deve centrare l'attenzione è il ruolo della borghesia nella fase della rivoluzione democratico-borghese e successivamente nello stato di democrazia popolare.
Per questa seconda fase rimandiamo l'esame alla cosiddetta dittatura delle quattro classi ed allo stato di nuova democrazia, teorizzazione di vasta importanza soprattutto per le conseguenze che ne derivano per il supposto passaggio al socialismo; per quanto riguarda la prima anche se più limitata essa ne rappresenta il prologo, sia sul piano delle conseguenze teoriche che pratiche.
Insegnamento dell'esperienza russa
L'analisi ci porta inevitabilmente all'esperienza della rivoluzione russa ai modi ed al contesto in cui si è realizzata sotto la guida del partito bolscevico.
Il primo, determinante, aspetto che caratterizza la rivoluzione di ottobre è il suo contenuto proletario, proiettato, senza esclusione di colpi, in una definitiva lotta contro la borghesia che momentaneamente aveva preso il potere dopo la rivoluzione di febbraio.
Condizione prima, ineliminabile della lotta di classe, è l'abbattimento, e non la trasformazione dello stato borghese, in qualsivoglia forma si manifesti, sostituito da un'altra struttura statale quale quella della dittatura proletaria.
Nella Russia degli anni 1917-18 dominava largamente una economia di tipo semi feudale, con alcune oasi di capitalismo, peraltro molto avanzato.
Era inevitabile che in una realtà economico-politica del genere la prima fase della rivoluzione dovesse presentare gli aspetti tipici della rivoluzione democratico-borghese: lotta contro lo zarismo, i proprietari fondiari e l'aristocrazia terriera.
In questa prima fase il proletariato benché non vi appaia come forza subordinata, (riapparizione dei soviet), è tuttavia disorientato dagli avvenimenti, e soprattutto è privo di una adeguata organizzazione partitica e di precise direttive.
Lenin, giunto appena in Russia, pubblica sulla Pravda del 7 aprile 1917 alcune tesi che sono indicative circa l'atteggiamento da adottare nei confronti della borghesia e del suo governo provvisorio.
Nel punto secondo si legge:
La particolarità dell'attuale momento in Russia, sta nel passaggio dalla prima tappa della rivoluzione che ha dato il potere alla borghesia, causa lo insufficiente grado di coscienza e di organizzazione del proletariato, alla seconda tappa che deve dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini.
Accordi o momentanei intrallazzi con la borghesia non sono minimamente possibili. Il socialismo, per essere tale, deve necessariamente passare sul corpo della borghesia ed esercitare su di essa la più ferrea delle dittature.
In "Stato e Rivoluzione" dell'agosto/settembre dello stesso anno Lenin definisce una volta per tutte il ruolo dello stato, i compiti del proletariato e del suo partito e precisa che cosa si deve intendere per fase di transizione dalla società borghese a quella socialista.
Questa impostazione tattica rompe definitivamente ogni cordone ombelicale con l'opportunismo della seconda internazionale, con le forze social-democratiche europee e, per quanto riguarda l'esperienza russa, con i socialisti rivoluzionari e i menscevichi.
Due sono le discriminanti che daranno a quella russa i segni caratteristici di una rivoluzione proletaria.
- L'atteggiamento di antagonismo di classe del proletariato nei confronti della borghesia.
- La forma di Stato in cui il proletariato si deve organizzare.
È il primo aspetto che dà una dimensione autenticamente dialettica al divenire degli accadimenti in Russia e che meglio ci serve nell'esame comparativo con la esperienza cinese.
Le condizioni obbiettive in cui si svolge la rivoluzione d'ottobre è, per molti versi, la meno favorevole.
Ad una economia, che si presentava negli anni venti come la più arretrata d'Europa, con una struttura essenzialmente agricola basata su rapporti di produzione di tipo semi feudale, coesistevano zone, peraltro molto limitate, di capitalismo tecnologicamente molto avanzato, frutto dell'infiltrazione del capitale finanziario anglo-francese e tedesco.
Questo tipo di economia determinava una pluralità di interessi e di classi che ne rappresentavano l'elemento subiettivo dinamicamente propulsore.
Il grosso baraccone zarista, sballottato dai tremendi colpi infertigli nel corso dei primi anni della guerra imperialista dagli eserciti austro-tedeschi, dava chiaramente i segni della sua incapacità ad amministrare una situazione deficitaria, resasi insostenibile dalla miseria e dalla fame che sembravano essere, agli inizi del '17, gli unici emblemi di una potenza belligerante ormai priva di energie.
Nella sovrastruttura le istituzioni dell'assolutismo su cui tradizionalmente la dinastia dei Romanov e l'aristocrazia fondiaria avevano basato la difesa del loro privilegio, mostravano chiaramente i limiti, superati storicamente da un capitalismo europeo entrato con la violenza più micidiale nella fase del dominio imperialistico e dalle nascenti forze borghesi russe che, anche se ancora deboli, tentavano ugualmente a rovesciare lo zarismo per una loro rivoluzione democratica borghese.
Sul fronte internazionale il traballante stato russo era, anche se per motivi differenti, un serio punto di riferimento nella strategia delle potenze belligeranti. La Germania, nel tentativo di sbarazzarsi facilmente di un suo nemico, dà alla sua aggressione nei confronti della Russia il crisma della giusta guerra della social-democrazia contro il dispotismo militare, mentre la Francia e l'Inghilterra favoriscono accordi con la borghesia Russa nella speranza che uno stato liberale, con una nuova politica economica interna, possa meglio favorire gli interessi del loro capitale finanziario.
In un clima di crisi internazionale e di forte tensione interna nascono le condizioni obiettive della rivoluzione di febbraio. La prima fase, gestita dai "cadetti" ed appoggiata dal proletariato in armi, è la tipica rivoluzione democratico-borghese; l'assolutismo, come un frutto maturo, cade al primo colpo senza quasi opporre resistenza, lasciando il posto al primo governo borghese di tipo provvisorio.
È a questo punto che le strade divergono; il proletariato, organizzato nel suo partito, prende decisamente in mano le redini della situazione; pone all'ordine del giorno la sua egemonia politica in quanto classe portando sino in fondo la lotta contro il feudalesimo; sconfitto, ma temporaneamente, è sempre in grado di aggiustare la mira contro la borghesia nazionale.
Kautsky anticipatore di Mao
Non sono mancati in questi frangenti i tentativi dell'opportunismo di arrestare la rivoluzione proletaria innestata su quella democratica-borghese, sia in campo internazionale che nella stessa Russia.
Kautsky, che per alcune questioni può essere considerato il padre spirituale del maoismo, sosteneva al pari dei social-democratici governativi. russi che, date le condizioni di arretratezza dell'economia russa, non esistessero le condizioni obbiettive per una rivoluzione proletaria.
Ne conseguono che l'unica rivoluzione possibile era quella democratica-borghese e che il proletariato russo doveva appoggiare la propria borghesia nella lotta contro il dispotismo senza mettere sul piano della forza il problema della lotta di classe e quindi del socialismo.
Il pensiero di Kautsky giungeva alla conclusione che a questo stadio dello sviluppo della rivoluzione russa, i. socialisti russi (menscevichi) avrebbero dovuto potenziare la loro situazione interna attraverso un gioco di alleanze con gli stati del liberalismo borghese, politica fatta propria dai vari Axelrod, Tseretelli e Dan che vedevano, nella tattica dei bolscevichi e nella dittatura del proletariato, un avventurismo di sinistra che non sarebbe approdato a niente e che avrebbe messo in forse gli stessi risultati raggiunti dalla rivoluzione di febbraio.
La tesi kautskiana non è priva di una sua logica e consequenzialità, anche se profondamente errata da un punto di vista di classe.
Il maggiore teorico della socialdemocrazia internazionale poneva l'accento sul grado di sviluppo della economia russa, sul dispotismo zarista senza considerare la dimensione mondiale della guerra imperialistica e le sue conseguenze sugli ulteriori sviluppi della rivoluzione internazionale. Secondo Kautsky, essendo la Russia un paese economicamente arretrato, sia da un punto di vista economico, che di amministrazione politica, la contraddizione principale che bisognava prendere in considerazione, era quella che andava manifestandosi tra una nascente, e quindi non sufficientemente matura borghesia, e il mondo della feudalità, ancorato a retrivi interessi che trovavano nel dispotismo militarista dei Romanov l'involucro politico amministrativo più idoneo alla salvaguardia di questi interessi.
La rivoluzione doveva essere borghese e solo borghese, nella misura in cui il nemico principale era lo zarismo e la realtà economica che rappresentava.
A questo proposito Kautsky arrivava persino a considerare l'aggressione imperialista della Germania contro la Russia, come un fatto positivo nella dinamica evoluzionistica dei rapporti di produzione; in altri termini l'abbattimento di un regime che prevalentemente legato a rapporti di produzione feudali, pone in essere e facilita lo sviluppo delle forze capitalistiche.
Come si vede la posizione di Kautsky non è lontana dal tatticismo maoista; le giustificazioni sulla impossibilità di una rivoluzione proletaria sono essenzialmente le stesse (arretratezza delle condizioni economiche e lotta alla feudalità come principale obiettivo).
Se Lenin avesse dovuto seguire questa impostazione tattica avrebbe dovuto coalizzare (fronte unito) il proletariato ed il contadiname povero non contro la borghesia, ma con essa contro le forze feudali e contro l'attacco imperialistico tedesco in nome delle libertà democratiche.
Di riflesso a questa tesi, così diffusa nell'opportunismo tedesco e russo, si arrivava a considerare le rivoluzioni borghesi ed eventualmente quelle proletarie come una questione tipicamente nazionale, quasi domestica, dove i rivolgimenti sociali e le lotte di classe si svolgono al pari di reazioni chimiche "controllate" all'interno di un contenitore impermeabile.
I partiti rivoluzionari piccolo borghesi, l'ala montante della borghesia al potere vedevano nella rivoluzione di febbraio non il primo passo per il raggiungimento del socialismo, bensì, e non poteva essere altrimenti, una conquista democratica che andava difesa dagli attacchi della reazione come dalle "utopie" dei sinistri, creando l'ideologia della difesa della patria rivoluzionaria. Anche nel partito bolscevico, a questo proposito, il disorientamento non mancava. Nel numero 9 della Pravda del 15-3-1917, diretta allora da Stalin, Kamenev e Muralov, si assume un atteggiamento ambiguo, vagamente populista dove non sono esplicitamente messi in chiaro i compiti del proletariato nei confronti della borghesia nazionale e del governo provvisorio; e soprattutto è sottaciuta la reale natura classista della lotta che ben lungi dall'essere spenta vedeva il proletariato premere per soluzioni più avanzate.
Quando un esercito si trova dinnanzi ad un altro esercito, la più assurda delle politiche sarebbe quella di consigliare ad uno di essi di disarmare e di sciogliersi.
Una siffatta politica non sarebbe una politica di pace, ma una politica da schiavi che ogni popolo libero respingerebbe con sdegno. No, il popolo rimarrà fermamente al suo posto ed al piombo risponderà con il piombo, ed al fuoco con il fuoco.
Più avanti si legge:
La nostra parola d'ordine non è la disorganizzazione dell'esercito rivoluzionario che sta rivoluzionando e neanche un "abbasso la guerra" vuoto di senso; la nostra parola d'ordine è la pressione sul governo provvisorio per costringerlo a tentare apertamente, in faccia a tutta la democrazia mondiale, di indurre tutti i paesi belligeranti ad iniziare subito le trattative per la cessazione della guerra. Ma fino a quell'epoca ognuno rimane al proprio posto di battaglia.
Il tono dell'articolo, l'impostazione tattica che ne scaturisce danno, anche se per accenni, la dimensione politica del futuro ispiratore della contro-rivoluzione in Russia.
In una situazione così delicata, dove all'empasse della borghesia che non sa da che parte voltarsi corrisponde una volontà di lotta del proletariato, Stalin e compagni non trovano di meglio da fare che difendere le posizioni conquistate dalla rivoluzione borghese sottacciono la lotta di classe parlando di popolo libero che deve rimanere al suo posto in difesa della patria rivoluzionaria; di lotta di classe, di dittatura del proletariato neanche l'ombra.
Questo atteggiamento suscita l'ira dei quartieri operai sino a chiedere l'espulsione dal partito dei 3 membri della direzione. La stessa Pravda, nei giorni successivi, fu costretta a pubblicare una formale protesta dei bolscevichi del quartiere di Viborg.
Se il giornale non vuole perdere la fiducia dei quartieri operai, deve agitare la fiaccola della coscienza rivoluzionaria, anche se i gufi della borghesia ne saranno feriti.
Solo con l'arrivo di Lenin, e dopo non poche accese discussioni in seno allo stesso Comitato Centrale, il timone viene orientato verso la giusta direzione. Appena arrivato a Pietrogrado Lenin pronunciò un discorso sul carattere socialista della rivoluzione, sulla necessità della lotta di classe, chiarendo bene i termini sull'aspetto internazionale di questa rivoluzione e affermando che quella russa ne era solo un aspetto parziale e che il suo destino dipendeva in tutto e per tutto dalla riuscita della rivoluzione internazionale.
Successivamente elaborò alcuni punti fondamentali, conosciuti come le "Tesi di Aprile", in cui facendo il punto della situazione traccia le direttive tattiche che il partito avrebbe dovuto assumere tenendo ben presente come fine strategico la dittatura del proletariato.
Il contenuto di queste tesi mette in risalto la necessità di passare, nell'evolversi della rivoluzione, dalla fase borghese a quella proletaria fino al raggiungimento della dittatura del proletariato. Rottura completa e definitiva dunque con gli interessi del capitale: nessun appoggio al governo provvisorio, smascheramento degli interessi borghesi e nazionalistici che rappresenta una dichiarazione quindi di aperta guerra contro la borghesia nazionale.
È da notare come Stalin, come del resto gli altri membri del CC non condividevano le tesi di Lenin tanto che la Pravda le pubblicò specificando che si trattava di opinioni personali del compagno Lenin.
Ritornando al problema iniziale: circa l'atteggiamento da tenere nei confronti della borghesia e circa il tipo di governo che si deve dare il proletariato, Lenin, in opposizione a tutte le forze opportuniste nazionali e internazionali, e per un certo periodo di tempo anche all'interno della stessa direzione del Partito Bolscevico, risponde nell'unica maniera possibile, cioè in termini di classe: nessuna coalizione o fronte unito con la borghesia; gli interessi che dividono il proletariato, forza egemone della rivoluzione, sono antitetici e in nessun caso componibili; la lotta di classe deve portare come unica, insostituibile garanzia della costruzione del socialismo alla dittatura del proletariato, dittatura tanto più ferrea, quanto maggiore è la resistenza che oppone la borghesia nazionale.
Ma in Lenin era presente anche un altro aspetto fondamentale del problema, che la rivoluzione russa sarebbe stata vittoriosa alla sola condizione di considerarla come un momento della lotta del proletariato contro il capitalismo internazionale e non come una questione privata da risolversi nell'ambito dei confini nazionali.
Nell'impostazione leninista non c'è assolutamente spazio per una elaborazione teorica del socialismo in un solo paese. Saranno le forze dell'opportunismo e della controrivoluzione, scemata ogni possibilità rivoluzionaria in Europa, a intraprendere la lunga strada che condurrà al capitalismo di stato gabellandolo per socialismo.
L'esperienza russa ci dà un chiaro esempio di quale debba essere la tattica del proletariato e del suo partito in una situazione economica di tipo semi-feudale inserita nella fase storica del più avanzato dominio imperialistico.
Nell'esperienza cinese gli stessi problemi insorti e risolti nel periodo di Lenin vengono affrontati in maniera del tutto differente.
Il maoismo confonde ancora una volta i problemi, ne sfuma i contorni rive stendo una prassi tipicamente borghese di una fraseologia socialisteggiante.
Il punto di partenza e di arrivo è sempre quello nazionale; la lotta contro l'imperialismo limitatamente a quello giapponese, ne è il motivo conduttore. Tutto è in funzione di questo obiettivo strategico, mentre il problema della costruzione del socialismo continua ad essere emarginato per essere ripreso solo più tardi e nella maniera più opportunistica possibile.
In questa dinamica degli eventi, il PCC nonostante le formali dichiarazioni, si appoggia al contadiname come classe rivoluzionaria e non al proletariato indu striale delle città.
La borghesia nazionale, in quanto oppressa dall'imperialismo, è la classe che deve essere appoggiata incondizionatamente nella prima fase della rivoluzione; nella seconda, che praticamente non esiste, l'antagonismo tra borghesia e proletariato invece di acuirsi ulteriormente marcia verso una giusta quanto pacifica risoluzione.
Nel 1935 all'epoca del fronte unito nazionale antigiapponese, il programma dei "comunisti cinesi" era ancora di questa natura.
Il compito dell'imperialismo, dei collaborazionisti e dei traditori della patria è trasformare la Cina in una colonia: il nostro compito è invece di trasformare la Cina in uno stato libero, indipendente, che gode dell'integrità territoriale. (8)
Questo passo è ulteriormente chiarificatore; in Mao è così radicata l'impossibilità di una soluzione proletaria, che certe problematiche non lo sfiorano nemmeno. Negli anni '40, in pieno secondo conflitto mondiale, quando le grosse potenze si stanno disputando sul piano del più feroce scontro imperialistico, la ridistribuzione delle zone di influenza, il PCC pone il problema dell'indipendenza e dell'integrità territoriale.
Così come Lenin alla vigilia della rivoluzione d'ottobre puntava decisamente sul proletariato rompendo con la borghesia e gli interessi del capitale, così Mao nel 1940 nel corso della lotta di resistenza al Giappone si appoggia alla borghesia portando avanti istanze e risoluzioni atte a sviluppare il capitalismo.
Anche se superfluo, è comunque interessante mettere a confronto con le tesi di aprile l'aspetto programmatico della politica maoista.
Sebbene il partito comunista sia contro tutti gli imperialismi, noi dobbiamo tuttavia distinguere, da un lato l'imperialismo giapponese che sta invadendo la Cina, dalle altre potenze imperialiste che in questo momento non lo fanno; e, dall'altro, l'imperialismo tedesco e italiano, che si è alleato con il Giappone e ha riconosciuto il "Manchukou" dell'imperialismo britannico e americano, che si oppone al Giappone; inoltre dobbiamo distinguere la Gran Bretagna e gli Stati Uniti del passato, che seguivano la politica di una Monaco dell'estremo oriente e minavano la resistenza della Cina al Giappone, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti di oggi, che hanno abbandonato questa politica e sono favorevoli alla resistenza della Cina al Giappone.
Il nostro principio tattico rimane quello di sfruttare le contraddizioni, conquistare la maggioranza, combattere la minoranza, e schiacciare i nemici uno per uno.
Più avanti, trattando della politica del lavoro, così si esprime:
Solo migliorando le condizioni di vita degli operai, si può sollevare il loro entusiasmo per la resistenza al Giappone. Bisogna però evitare a tutti i costi di cadere nella deviazione di estrema sinistra; gli aumenti dei salari e le riduzioni delle ore di lavoro non devono essere eccessive...
Quando un contratto è stipulato tra lavoro e capitale, gli operai devono osservare la disciplina del lavoro e devono permettere ai capitalisti di realizzare un certo profitto; in caso contrario, le fabbriche verrebbero chiuse e questo andrebbe a detrimento non solo della resistenza al Giappone ma anche degli stessi operai. In particolare, non bisogna elevare eccessivamente il livello di vita e i salari degli operai nelle campagne, tali misure potrebbero suscitare le proteste dei contadini, creare disoccupazione tra gli operai e portare ad un declino della produzione.
In tema di politica agraria:
D'altra parte la nostra politica deve prevedere che i contadini paghino il canone d'affitto e gli interessi sui prestiti e che i proprietari fondiari conservino il diritto alla proprietà della terra e degli altri loro beni. Il tasso di interesse non deve essere ridotto al punto da privare i contadini della possibilità di ottenere prestiti, e la definizione dei vecchi conti non deve avvenire in modo che i contadini possano riavere indietro gratuitamente la terra ipotecata.
In tema di politica fiscale:
La tassazione deve essere fissata secondo le entrate. A eccezione dei più poveri che devono essere dichiarati esenti, tutti coloro che dispongono di entrate ossia più dell'80% della popolazione, ivi inclusi gli operai e i contadini, devono sostenere il peso fiscale dello stato; il peso fiscale non deve essere fatto gravare esclusivamente sui proprietari fondiari e sui capitalisti.
In queste precise e aperte prese di posizioni tattiche è evidente l'alto tasso di inquinamento ideologico-politico che ha contaminato il maoismo nel suo complesso.
Damen Fabio(1) Sulla contraddizione. Opera di Mao scritta in seguito all'opera "Sulla pratica".
(2) Le caratteristiche dell'attuale situazione politica 1935.
(3) Le caratteristiche dell'attuale situazione politica 1935.
(4) Da La Repubblica Popolare.
(5) Da La Repubblica Popolare.
(6) Da La Repubblica Popolare.
(7) Lenin: da Stato e Rivoluzione.
(8) Da Sulla tattica contro l'imperialismo giapponese. Il fronte unito nazionale 1935.
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