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Home ›L'impero che non c'é: la moderna presentazione del vecchio superimperialismo
Parlare di un libro come Impero, di Negri e Hardt (1) è parlare di un polpettone, ibrido fra il trattato di costituzionalismo, il saggio filosofico, il libello politico.
Non a caso parliamo di ibrido, poiché non è nessuno di questi.
Non è un trattato di costituzionalismo perché appare del tutto insufficiente e soprattutto piega in una lettura sostanzialmente "filo-americana" le relazioni fra assetto costituzionale e... storia della filosofia. Ammesso che esistano.
Non è un saggio filosofico, perché le storie peraltro molto approssimative della filosofia e le trattazioni riservate ai singoli pensatori - peraltro moltissimi, da Duns Scoto (teologo morto nel 1308) a Foucault (W 1984) passando per Pico della Mirandola e Spinoza - sono a loro volta acrobaticamente svolte per sostenere le tesi di Negri e Hardt, spesso anch'esso contraddittorie.
Né è un libello politico perché non ne ha l'agilità né la consequenzialità fra premesse, svolgimento e conclusioni.
Tanto meno Impero, nonostante le ambizioni, può essere considerato un manifesto, di qualunque genere. Ancora, non ne ha il carattere di sintesi, né la chiarezza e consequenzialità espositiva, né - a dire il vero - un pubblico al quale rivolgersi, un target, per dirla nella lingua dell'amico americano di Negri. Certo il testo sembra proporsi ai movimenti più o meno no-global, a quelle "moltitudini di soggettività" messesi recentemente in moto da Seattle al... Chapas, ma più come raccolta di sentenze ideologiche e di altrettanto ideologiche argomentazioni, che come manifesto. Infatti con questo testo Negri aggiorna il suo ruolo di fornitore di ideologia a quanto nella società si muove al di fuori (e talvolta contro) la classe operaia e l'interesse del proletariato, ma in qualche modo "contro" lo stato di cose presente. Negli anni '70, Negri si poneva come ideologo di quel movimento dell'Autonomia, che era in realtà il movimento degli strati marginali e più reattivi di proletariato e del sottoproletariato. Nel testo attuale traspare la aspirazione/pretesa di porsi come Bibbia dei movimenti civili in atto.
Un ulteriore carattere del libro è ben descritto nella nota critica che Maria Turchetto ne ha fatto su Intermarx (2): è quello di essere simile a un ipertesto, di più:
un prodotto culturale leggero, all'interno del quale è possibile "navigare" con una certa libertà... L'insieme si presta ad essere letto a pezzi e in ordine sparso, senza che il senso fondamentale ne soffra, con un indubbio vantaggio in termini di fuibilità. Il pensiero degli autori può infatti essere assimilato in vari modi e a vari livelli.
Poiché non è possibile rilevare compiutamente tutte le contraddizioni, forzature, svolazzamenti ideologici e falsificazioni dei pensieri altrui, contenuti nelle 383 fitte pagine (più le 55 pagine di note), ci limiteremo agli elementi essenziali del libro. Peraltro dobbiamo prendere in considerazione il polpettone non certo per il suo valore intrinseco, ma perché è citato moltissimo a proposito e a sproposito in certi ambienti culturali che si vogliono interni o vicini ai movimenti cosiddetti antagonisti e in particolare negli Usa.
L'impero della fantasia
La prima osservazione riguarda l'oggetto centrale del libro, l'impero, appunto. Come nota anche Turchetto nella nota citata (3), Negri e Hardt hanno scritto il loro polpettone nel 2000, abbondantemente dopo la guerra del Golfo, ma prima della guerra in Afghanistan e della seconda Intifada palestinese. Con questi eventi si sono rese più chiare - anche al di fuori dell'ambito strettamente marxista (vetero marxista come direbbe qualcuno) che le aveva intraviste già alla fine della Guerra fredda - le linee di frattura del preteso Impero, lungo le coste oceaniche che separano Usa, Europa, Cina e Giappone. È apparso anche più chiaro, anche ad altri che a noi, che tali linee di frattura si sono determinate sulla base non tanto di diversi assetti istituzionali, basati a loro volta su diverse concezioni della sovranità, ma dei vecchi, brutali e molto materiali interessi in termini di mercati del lavoro, mercati delle materia prime e del petrolio innanzitutto, e mercati finanziari - interessi strettamente correlati fra loro ma divergenti fra le suaccennate aree.
Invece in Impero la precedente guerra del Golfo è già "la prima occasione per attivare questo tipo di potere nella sua pienezza" (4), laddove il tipo di potere è quello specificamente imperiale, "un progetto globale di potere in rete". (5)
Vedremo fra poco le caratteristiche di questo nuovo impero, ma ciò che subito appare anche da questi accenni è che Negri a Hardt hanno trangugiato voluttuosamente la rivoltante pozione mediatica degli Usa sulla Guerra del Golfo. Infatti, per i nostri due teorici, dietro l'avventura del Golfo non ci sarebbero precisi interessi propriamente imperialistici legati al petrolio e alla rendita (americana) legata al petrolio, bensì l'"interesse dell'Impero", della costruzione della "polizia mondiale".
Non c'è una parola in tutto il libro sul fatto accertato - e che tali studiosi, fra l'altro, di diritto e teoria del diritto dovrebbero ben conoscere - dell'invito esplicito degli Usa a Saddam, due mesi prima della guerra, a prendersi il Kuwait. Ciò sarebbe stato fatto, nei vaneggiamenti negriani, per dare agli Usa stessi un pretesto all'esercizio della polizia imperiale!
Come ha affermato Gorge Bush, la guerra del Golfo ha annunciato la nascita di un nuovo ordine mondiale,
dicono esplicitamente i due. (6)
In "chiaro", le iniziative belliche degli USA sarebbero il frutto delle pressanti richieste da parte delle "organizzazioni internazionali (le Nazioni Unite, gli organismi finanziari internazionali e le organizzazioni umanitarie)". E queste richieste gli autori le equiparano alle richieste dei senatori romani ad Augusto "di assumere le prerogative imperiali per l'amministrazione del bene comune". Di più:
Anche se erano riluttanti i militari americani avrebbero risposto alle chiamate in nome della pace e dell'ordine. Questa è una delle caratteristiche determinanti dell'Impero: esso risiede in un contesto mondiale che lo invoca di continuo. (7)
Negri e Hardt mancano evidentemente di senso del ridicolo. I due non si sono accorti nemmeno che, lungi dall'invocarlo, gli stati europei e il Giappone hanno subito l'intervento americano nel Golfo, ben sapendo che esso era principalmente rivolto contro di loro, per l'affermazione della egemonia totale ed esclusiva degli Usa sull'area mediorientale, cruciale per il controllo del petrolio e della rendita da petrolio.
A questa realtà documentatissima, i due visionari contrappongono il delirio, a questo punto scopertamente filo-americano o quantomeno Usa-centrico, di un potere globale, realizzato mediante l'espansione globale, appunto, di quella rete di poteri (8) che caratterizzerebbe la costituzione americana, sino a sussumere le esperienze statuali europee, fondate sulla "sovranità trascendente", che loro chiamano Impero, per di più con la maiuscola.
Talmente appare "forte" questa tesi ai suoi autori, che per farla tornare devono far violenza anche alla storia recente, per non dir contemporanea. Leggiamo infatti a metà libro circa:
Dalla prospettiva degli Stati Uniti, tuttavia, e per la nostra breve storia costituzionale, la guerra del VietNam può essere giudicata l'atto finale della tendenza imperialista e il punto di passaggio a un nuovo regime costituzionale. (9)
Ora, tutti sappiamo che gli Usa iniziano la ritirata dal Viet Nam nel 1970 e concludono gli Accordi di Parigi nel 1973, che sanciscono l'uscita di scena degli Usa e la vietnamizzazione del conflitto.
A dar retta a Negri e Hardt, si dovrebbe pensare che il nuovo regime costituzionale - che bandirebbe le forme imperialistiche (dette moderne, in contrapposizione al postmoderno attuale) - entra in funzione allora. E invece - accidenti ai fatti - è proprio del 1973 l'altro evento paradigmatico - per usare il loro linguaggio - della politica imperialistica di sempre degli Usa: il colpo di Stato in Cile. Questo viene notoriamente pilotato dagli Usa nel quadro di una politica tanto moderna, quanto... postmoderna e che un certo James Petras - che i nostri autori conoscono e che citano a tutt'altro proposito (10) - tratteggia così:
L'edificazione e la disgregazione degli stati sono due processi chiave per imporre i rapporti di sfruttamento di classe insisti nell'espansione economica indotta dall'imperialismo. (11)
E Petras, da bravo "modernista" continua a ritenere che gli Usa continuino nel vecchio "paradigma moderno" dell'imperialismo.
Una caratteristica del libro - che non è nuova in Negri - oltre che di forzare la storia quando non torna comoda, è di non sostenere mai le proprie argomentazioni con fatti e dati. È certamente il modo migliore per spaziare indisturbati nel mondo della elucubrazione falsamente teorica e propriamente ideologica e per descrivere un incubo tanto irreale quanto articolato e intimamente contraddittorio.
Caratteristiche dell'incubo
Innanzitutto il lettore (sequenziale) del testo faticherà moltissimo e invano nel cercare di capire dove e come i due autori fanno l'impossibile sintesi fra i concetti relativi alla... localizzazione della sede imperiale. Da una parte, infatti, l'impero è definito proprio come un non luogo e come un "regime delle relazioni globali" (12), o una "rete dei poteri" (13); dall'altra l'impero trova negli Usa il soggetto agente, il soggetto imperiale. (14) Ovviamente avrebbe più senso la seconda affermazione, essendo la prima contraddittoria con questa ma soprattutto campata sulle nuvole e lì connessa ai deliri su modernità e "post moderno" che caratterizzano, non da ora, Negri e sui paralleli deliri circa l'impero come prodotto, per quanto indiretto e mediato, delle moltitudini (15). Deliri, diciamo noi, ma sono l'espressione che le classiche tesi operaiste assumono in Negri e Hardt.
Il processo produttivo, l'atto della produzione di capitale è contemporaneamente il momento di lotta operaia contro il capitale,
scriveva Tronti nel 1965. (16) E ora leggiamo Impero, in altri passaggi:
Per comprendere il passaggio dall'imperialismo all'Impero, oltre che guardare allo sviluppo capitalistico [cosa che Negri non fa perché non è assolutamente in grado di farlo - ndr], è bene affrontarne la genealogia dal punto di vista della lotta di classe: il punto di vista probabilmente più determinante nel movimento storico reale. Le teorie che problematizzando il passaggio attraverso e oltre l'imperialismo, privilegiando esclusivamente la critica delle dinamiche capitalistiche, rischiano di sottovalutare il potere dell'unico vero motore efficiente che spinge lo sviluppo capitalistico dal suo nucleo più profondo: i movimenti e le lotte del proletariato... Siamo dunque giunti al momento estremamente delicato in cui la soggettività della lotta di classe trasforma l'imperialismo in Impero. (17)
Dunque il punto di vista per i nostri autori non deve essere quello di classe, ma quello della lotta di classe. La differenza è piccola nei significanti, ma grande nei significati.
Il punto di vista della lotta di classe può benissimo essere quello del borghese, che dal suo fronte della lotta di classe medesima vedrà le cose in modo antitetico a quello proletario.
E infatti non si è molto distanti dal punto di vista borghese quando si afferma che l'impero è il prodotto della esistenza stessa del proletariato. È apparentemente una banalità dietro la quale però c'è l'abbandono dell'antagonismo storico fra proletariato e capitale, che si risolve solo con la fine del capitale.
Comunque queste perle sono in apertura di un curiosissimo capitolo in cui i nostri due autori ci illustrano il contenuto di alcuni volumi... mancanti de Il Capitale, ovvero di ciò che Marx avrebbe voluto/dovuto scrivere, ma non ha fatto. Se un lettore di stomaco forte si avventura nella lettura di questo capitolo scopre anche una delle innumerevoli contraddizioni che si presentano nel polpettone. "Capitale e lavoro si fronteggiano in una forma direttamente antagonista" - si legge qui. (18) Ciò farebbe pensare che il problema è immediatamente chiaro: come battere il nemico, il capitale. E invece no, perché poco prima s'era letto che nell'impero il problema "non da poco" sta nella "identificazione del nemico" e che, in fondo, oggi il nemico non è il capitale, ma una delle sue sovrastrutture, la "sovranità imperiale" (19), o, più avanti, la politica imperiale, che "articola l'essere nella sua estensione globale - un mare sconfinato mosso soltanto dal vento e dalle correnti". (20)
Qualche insulto a Marx
Il povero Marx è veramente trattato male in questo testo, molto peggio di... Spinoza. A un certo punto viene addirittura accusato di eurocentrismo. Per farlo, gli autori citano il Marx degli articoli per il New York Daily Tribune.
In uno di questi in particolare (21), trovano frasi come "L'Inghilterra in India ha una doppia missione da compiere..." e interpretano che:
L'India può progredire solo se si trasforma in società occidentale: il mondo intero può avanzare se segue le tracce dell'Europa.
Ma qualunque altro lettore onesto di Marx comprende bene che in quegli articoli Inghilterra ed Europa sono metafora di capitalismo, che in Europa è nato. Ed è assolutamente fuorviante affermare che Marx:
si rappresentava la storia extraeuropea sulla falsariga della strada già percorsa dall'Europa... (22)
per imputarlo di eurocentrismo. Un'altra caratteristica dell'impero è, per i nostri, il suo reggersi sul "biopotere". Il concetto è ripreso da Foucault Il quale però, come giustamente nota Turchetto, ne parlava a proposito della sovranità di quegli stati-nazione che in Impero si vorrebbero superati, anzi negati. È questa un'altra delle forzature e distorsioni presenti. Ma sembra proprio che Negri e Hardt abbiano bisogno di queste distorsioni e delle contorsioni descrittive di quello che noi chiamiamo trasformazione del dominio formale in dominio reale e sviluppo di questo per superare la "immagine totalitaria e lineare dello sviluppo capitalistico" (23) propria però non del marxismo ma dello stalino-zdanovismo.
Per non perderci nella rincorsa delle vere e proprie fesserie disseminati nel testo (ne potremmo fare una rubrica fissa sul nostro mensile Battaglia comunista, per due o tre anni), cerchiamo di cogliere l'essenziale dei concetti affardellati in Impero.
Impero e imperi
È verso la conclusione del malloppo che ritroviamo più distesamente esposte alcune "nozioni" già prima avanzate. Dalle opere di Polibio, Machiavelli, Montesquieu e Gibbon, gli autori di Impero traggono la conclusione che "ogni teoria dell'Impero presuppone la possibilità del suo declino". Ebbene la prima riflessione che viene in mente - non dico a un marxista, ma a chiunque sia davvero sfuggito alla concezione eurocentrista e alla lettura stalinista delle "successioni dei modi di produzione" e delle formazioni sociali - è il fatto che l'impero romano non è certo l'unico impero, né il maggiore conosciuto dalla storia dell'umanità. L'impero cinese è durato sostanzialmente in modo stabile qualcosa come 3 mila anni, dal secolo -XI° alle soglie del +XIX°, quando si avvia la crisi finale. E non si può proprio dire che anche in Cina:
l'Impero è sempre una positività assoluta, la realizzazione di un governo della moltitudine e un dispositivo integralmente immanente,
e che:
allora la sua esposizione alla crisi è dovuta principalmente alla sua stessa essenza e non alla opposizione di una qualche necessità o di una trascendenza. (24)
I nostri costituzionalisti-filosofi possono chiamarla come vogliono ma la "opposizione" alla quale si è trovato esposto l'impero cinese, dopo 3 mila anni, è stato il capitalismo (certamente "necessità" più che "trascendenza"), che si è avvicinato all'impero cinese per sua propria immanenza non certo per quella dell'impero cinese o delle sue moltitudini (più moltitudini di altre). Ma l'eurocentrista sarebbe Marx!?
Siamo dunque in presenza di vere e proprie elucubrazioni inutili rivestite di una fraseologia criptica e ridondantemente filosofica su qualcosa che non c'è, se non nelle escursioni oniriche di Negri e Hardt.
Fra certa intellettualità
Un'ultima (?) qualità di Impero è il suo essere strumento di una sorta di dibattito accademico interna a quella inutile categoria rappresentata da molti intellettuali, caratterizzati essenzialmente dall'arzigogolare su concetti e idee già ben definite una prima volta da altri per costruire nuove denominazioni, nuove “concettualizzazioni", non della idea o del pensiero originario, ma di uno o due suoi aspetti, o parti e magari senza dire di cosa si parla. La cattiva sorte in mano a questa genia non è capitata solo a Marx, ma un po' a tutti, anche ai pensatori pre-marxisti o non-marxisti.
Consideriamo solo per un attimo il campo nostro e troviamo per esempio che su quello che Marx aveva chiamato la formazione sociale borghese - e che aveva descritto:
come una cosa viva, con i suoi aspetti della vita quotidiana, con la manifestazione sociale concreta dell'antagonismo delle classi inerente ai rapporti di produzione, con la sovrastruttura politica borghese che protesse il dominio della classe dei capitalisti, con le idee borghesi di libertà uguaglianza ecc. (25)
Molti di quegli intellettuali hanno svolto studi talvolta interessanti, ma con un enorme difetto: quello di non dire che parlavano dei nuovi modi d'essere della formazione sociale borghese e di inventarsi così "nuovi" concetti e "nuove" definizioni. Risultato, altri intellettuali come loro hanno fatto altrettanto, con concetti e definizioni diverse dando così luogo a quel "dibattito" e a quelle "polemiche" tanto accese quanto inutili che alimentano l'industria cultur-editoriale e di cui l'ultimo libro di Negri è parte.
Trascuriamo quindi di correre dietro a tutte le incongruenze, le deformazioni dei pensieri dei concorrenti, le furbate come quelle di attribuirsi la scoperta di aspetti e caratteristiche del preteso impero, copiando quasi alla lettera da autori che descrivevano la modernità, che l'Impero di Negri a Hardt vorrebbe del tutto superata. Solo un esempio "paradigmatico" di queste squallide operazioni. Lo troviamo a pag. 187, dove i nostri due autori, nel descrivere il primo dei "tre momenti distinti" del "comando imperiale", copiano concettualmetnte il Marcuse de "L'uomo a una dimensione" - cfr pag 35 dell'Edizione Einaudi 1967 - senza manco citarlo; si tratta un aspetto della formazione sociale metropolitana "studiato" da Marcuse, nel pieno della cosiddetta modernità e che loro rinominano come uno "spegnere il potenziale costituente delle singolarità".
Cosa resta allora? Un polpettone, basato su una ipotesi mal posta e già superata dagli eventi; inutile da qualsiasi punto di vista e spesso fuorviante anche solo sul piano descrittivo di fasi storiche e di pensieri, che sembra essere assurto a bibbia di riferimento per certi settori del movimento anti-global, specialmente negli Usa. Ma questo depone solo a sfavore della serietà di quei certi settori.
Mauro jr. Stefanini(1) Michael Hardt - Antonio Negri, Impero - Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli - gennaio 2002.
(2) Vedi L'impero colpisce ancora di Maria Turchetto su intermarx.com . Nel caso non si trovi più il testo, rivolgersi al gestore del sito.
(3) Ibidem
(4) Impero, cit. pag. 172.
(5) Ibidem pag.171.
(6) Id. pag 172.
(7) Id. Pag. 173.
(8) Id pag. 160.
(9) Id.pag. 170.
(10) Petras viene Citato in una nota al capitolo V della III Parte, a proposito di ONG delle quali i nostri due autori non vogliono che sia vista solo la funzione di agevolazione del progetto neoliberale del capitale.
(11) Vedi il saggio Nuovi orientamenti su imperialismo e classi sociali nella periferia" in James Petras Classi e impero verso gli anni 80, La Pietra, Milano1977, pagg 45 e segg.
(12) Impero, cit. pag.58.
(13) Pag. 160.
(14) Pagg 233-234.
(15) Pagg 70-73.
(16) Cfr. Mario Tronti Marx, forza-lavoro, classe operaia in Operai e capitale, Einaudi 1971, pag 215.
(17) Impero cit. pagg. 222-223.
(18) Id. pag. 224.
(19) Id. pag. 202.
(20) Id pag. 330.
(21) I risultati futuri della dominazione britannica in India, del giugno 1853, ora in K.Marx F. Engels India Cina e Russia, Il Saggiatore, 1976, pagg. 70 e segg.
(22) Impero, Cit. pag 122.
(23) Id.pagg 37 e segg.
(24) Id pag. 347.
(25) Lenin, "Che cosa sono gli amici del popolo e come lottano contro i socialdemocratici" in Opere, Editori Riuniti 1970, vol. 1 pag. 13.
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