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Home ›La crisi dell'Euro e del petrolio
La vertiginosa crescita del prezzo del petrolio passato dai circa 10 dollari al barile di due anni fa agli oltre trenta attuali è ritenuta dalla gran maggioranza della pubblicistica economica borghese, e non solo da questa, una conseguenza della forte svalutazione subita dall'euro dopo la sua nascita.
Recentemente, anche il governatore della Banca d'Italia Fazio si è espresso in tal senso e ha paventato il rischio che la già non impetuosa crescita economica registrata nell'area dell'euro in questi ultimi due anni, possa subire, proprio per l'effetto combinato della crisi dell'euro e del rialzo del prezzo del petrolio, una forte battuta d'arresto o addirittura l'avvio di una pesante fase recessiva.
L'opinione dominante è che l'euro si sia svalutato per un deficit di competitività dell'apparato produttivo europeo; ma in verità questa tesi ha scarsi riscontri con la realtà e non regge ad un'analisi appena più approfondita del fenomeno.
Gli attuali rapporti di cambio del dollaro con le altre valute e in particolare con l'euro, esprimono, infatti, solo non in minima parte, il reale flusso di merci fra gli Usa e l'Europa e se lo esprimessero, visto il disavanzo della bilancia commerciale statunitense, fra le due, dovrebbe essere l'euro la valuta più forte. Il fatto è che a partire dai primi anni Settanta, cioè da quando emersero le prime difficoltà nella realizzazione di saggi di profitto sufficientemente remunerativi nella sfera della produzione, si sono attivati processi di ristrutturazione dell'economia mondiale che, fra l'altro, hanno profondamente modificato il mercato delle valute e i meccanismi di determinazione dei rapporti di cambio.
I cambiamenti indotti dalla crisi dei profitti
Gli Stati Uniti, disponendo di un'economia integrata su base continentale e perciò scarsamente legata all'esportazione delle merci e di una moneta accettata come mezzo di pagamento internazionale, oltre che del più potente apparato militare del mondo, per compensare la riduzione dei profitti industriali, hanno puntato sulla crescita della sfera finanziaria quale strumento di appropriazione parassitaria di plusvalore.
In conseguenza di ciò, nel corso del tempo, l'economia statunitense è diventata un'economia strutturalmente impostata sul crescente deficit della bilancia commerciale finanziato da capitali provenienti dall'estero; anzi, per essere più precisi, sull'importazione di merci dall'estero in cambio di capitale fittizio (capitale finanziario prodotto per mezzo di altro capitale finanziario).
Bastano pochi dati per dare l'idea delle dimensioni del fenomeno. Gli Stati Uniti, che fino a tutti gli anni sessanta, avevano fatto registrare un bilancia commerciale costantemente in attivo, nel 1991 erano già un paese in deficit cronico e assorbivano già il 14% delle esportazioni mondiali, nel 1997 ne assorbivano il 16,3 e nel 1999 il 18% (1) e, nel 1999, loro che erano il primo paese esportatore netto di capitali del mondo...
hanno assorbito il 60 % di tutti i flussi dei capitali internazionali provenienti dai paesi aventi un conto corrente eccedentario, contro il 20% del 1992. (2)
Un qualunque altro paese che non avesse la stesso potere imperialistico verrebbe travolto da questo doppio deficit, ma gli Usa esercitando un controllo capillare dei mercati finanziari internazionali e di quelli di buona parte delle materie prime, a cominciare da quello strategico del petrolio, riescono a finanziarlo praticamente a costo zero cioè scaricandone i costi su tutti coloro che sono costretti per qualunque ragione a utilizzare la loro moneta.
La domanda di dollari sul mercato, infatti, essendo il dollaro il più diffuso mezzo di pagamento internazionale, è di gran lunga superiore a quella che si avrebbe in relazione al solo import/export di merci da e per gli Usa; pertanto le sue quotazioni subiscono oscillazioni significative anche in relazione ai soli flussi di capitale finanziario e/o in relazione alle variazioni del prezzo di quelle merci, come appunto il petrolio, quotate in dollari anche se non vengono prodotte negli Usa. Così oggi, per esempio, è proprio grazie all'elevato prezzo del petrolio e non il contrario, che il dollaro è sopravvalutato nonostante la bilancia commerciale statunitense registri da anni record negativi uno dopo l'altro.
Gli Stati Europei, e la Germania in particolare, non disponendo di un potere imperialistico equivalente, alla crisi del profitto hanno invece risposto accrescendo la competitività dei loro sistemi industriali e riducendo la loro dipendenza dal petrolio.
Non disponendo in altre parole di un potere imperialistico equivalente a quello statunitense e quindi anche di una moneta capace di svolgere la stessa funzione di drenaggio di capitali dall'estero, i paesi europei, e la Germania in particolare, hanno puntato tutto sulla formazione di un'eccedenza della bilancia commerciale con cui finanziare i loro investimenti all'estero necessari per partecipare ai processi di appropriazione e spartizione della rendita finanziaria su scala internazionale, facendo leva sulla maggiore competitività del loro apparato industriale. Ciò, se da un lato ha prodotto un incremento delle potenzialità produttive dell'intera area e dell'efficienza del sistema industriale, dall'altro, a causa della forte crescita della disoccupazione alimentata dai processi di ristrutturazione industriale che ne sono conseguiti, ha dato luogo a una forte contrazione della domanda interna e quindi a una maggiore dipendenza dell'Europa, e in particolare della Germania che ne è la capofila, dalle esportazioni.
In verità, per tutti i primi anni ottanta non ci sono stati per la Germania particolari problemi a mantenere consistenti attivi nei conti con l'estero. Ma già nel triennio 1988-90 la situazione si è modificata. Per varie ragioni, non ultima la crescita della domanda interna determinata dai processi di unificazione e ristrutturazione della Germania dell'Est, è apparso inatteso e indesiderato nei conti con l'estero il deficit divenuto poi più consistente quando è esplosa la crisi dei paesi del Sud Est asiatico e della Russia, verso i quali confluiva una consistente fetta delle esportazioni tedesche.
Una pacifica convivenza
Con il mercato interno stremato dalla politica deflattiva imposta dagli accordi di Maastricht e il mercato internazionale in piena crisi e il rischio di scivolare in una fase di vera e propria depressione, la ricerca di sbocchi di mercato che potessero assicurare il ritorno all'attivo dei conti con l'estero è divenuta di vitale importanza e il mito del marco forte a tutti i costi ha ceduto ben presto il passo al più conveniente euro debole.
Nel frattempo, negli Stati Uniti, essendo state immesse sui mercati finanziari enormi quantità di dollari per far fronte prima alla crisi finanziaria messicana e poi a quella brasiliana e dei paesi del Sud Est Asiatico, è ricomparsa l'inflazione, nonostante che i salari fossero rimasti sostanzialmente fermi ai livelli dei primi anni settanta.
La Federal Reserve, nel timore che ciò potesse allontanare gli investitori esteri dai mercati finanziari statunitensi compromettendo il finanziamento del doppio deficit, intanto ancora cresciuto, ha dato il via a un graduale, ma costante rialzo dei tassi di interesse.
Per evitare la crescente svalutazione dell'euro, la BCE avrebbe dovuto rialzare i tassi di interesse di parecchi punti più della Federal Reserve visto che nel frattempo, a seguito dalla contrazione della produzione "consigliata" dagli stessi Stati Uniti ai paesi aderenti all'Opec, il prezzo del petrolio aveva cominciato la sua corsa al rialzo trascinando con sé anche le quotazioni del dollaro; ma per la Germania e l'Europa intera sarebbe stato un vero e proprio suicidio.
Grazie alla svalutazione, invece, le esportazioni europee sono cresciute vertiginosamente e hanno fatto da volano alla ripresa economica che ha dato respiro a un'economia da troppo tempo in recessione.
Contrariamente a quanto si crede o si vuol far credere, non è stata dunque la nascita dell'euro a determinare la svalutazione delle monete europee rispetto al dollaro, ma al contrario è stato l'euro che ha consentito una svalutazione competitiva molto consistente senza che le singole economie degli undici paesi che lo hanno voluto venissero travolte dalla forza del dollaro.
In assenza dell'euro, infatti, essi avrebbero dovuto servirsi del dollaro non solo per gli approvvigionamenti di petrolio, ma anche per una buona parte delle transazioni commerciali interne perciò la loro dipendenza dal dollaro sarebbe stata molto più forte e queste forse ancora più elevate con ben altre conseguenze sull'inflazione e su livello dei tassi di interesse.
Per molti aspetti, le opposte politiche praticate al di qua e al di là dell'Atlantico, combinandosi, hanno soddisfatto le opposte esigenze delle due maggiori aree economiche del pianeta ed evitato che una delle due si avvitasse in una pericolosissima depressione che inevitabilmente avrebbe finito per travolgere anche l'altra. Il fatto che la borghesia europea batta la grancassa della svalutazione come se questa non fosse stata anche frutto di sue ben precise esigenze è dunque con tutta evidenza una strumentalizzazione propagandistica della borghesia che mira a smantellare quel poco che è rimasto del sistema di protezione sociale e ogni residuo di regolamentazione del mercato del lavoro.
Questa fase di relativa pacifica convivenza fra le due sponde dell'Atlantico si è, infatti, conclusa e ben presto nuove strette delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori si imporranno in entrambe le aree.
Gli Usa falsificano i dati statistici
Nel corso del primo semestre del 2000, infatti, la bilancia commerciale della zona dell'euro ha fatto registrare un deficit di 11,8 miliardi di euro equivalente a circa lo 0,5% del suo PLN, che è sicuramente poca cosa rispetto al 4% degli Stai Uniti, ma che è estremamente preoccupante perché si è registrato nonostante che le esportazioni abbiano continuato a crescere (del 23% fra il primo semestre del 1999 e il primo semestre del 2000), cosa che sebbene provi che i prodotti europei conservano la loro competitività, sta lì a dimostrare che i costi derivanti dalla svalutazione dell'euro superano ormai i benefici.
A questo punto è evidente che devono essere ricercati nuovi aggiustamenti, ma la cosa è piuttosto complicata. Il deficit commerciale statunitense in questi anni è cresciuto ancora e ormai ammonta a poco meno di 300 miliardi di dollari; e così anche l'indebitamento privato, mentre la bolla speculativa, alimentata dalla crescita del Nasdaq (il mercato azionario delle imprese della cosiddetta New Economy) si è alquanto sgonfiata e il rischio che quel flusso di due miliardi dollari al giorno che si riversa nei mercati finanziari statunitensi si assottigli considerevolmente è piuttosto elevato con pesanti conseguenze sia per gli Usa sia per quei paesi la cui economia è fortemente dipendente dalle importazioni verso l'America.
Anche l'Europa rischia molto: se per limitare i danni causati dal superdollaro ricorre a una politica di alti tassi di interessi perde buona parte dei suoi margini di competitività e rischia di strozzare la ripresa economica; se subisce il suo strapotere rischia, a dispetto della sua forza economica, di essere messa ai margini dei processi di appropriazione e spartizione della rendita finanziaria. E, infatti, i segnali che lo scontro sia destinato ad acuirsi non mancano.
Lo scorso mese di settembre, la Bundesbank ha dedicato un intero capitolo del suo rapporto mensile alla critica del metodo di rilevazione statistica basato sul cosiddetto hedonic pricing utilizzato negli Usa per il calcolo del PNL. Secondo i calcoli della Bundesbank, se anche in Germania si usasse il "deflattore edonistico" gli investimenti nel settore dell'informatica sarebbero risultati il doppio nel 1998 e cresciuti del 170% nel 1999. Anche il prezzo dei computer calcolato con i criteri statunitensi sarebbe risultato diminuito dal 1991 al 1999 dell'80% mentre in realtà è diminuito solo del 20% determinando così valori della crescita del PNL più elevati di quelli reali.
L'hedonic pricing si basa sul principio che tutti i miglioramenti tecnologici che subisce, per esempio, un computer, quali l'aumento della potenza del processore o della capacità della memoria ecc., anche se non si verifica un aumento del suo prezzo, devono essere comunque aggiunti al prezzo reale e quindi trasferiti nel calcolo del PNL.
Per esempio, nel 1999 le vendite totali di computer sono ammontate a 92,5 miliardi di dollari, ma quando il Dipartimento del Commercio ha stilato il rapporto sul Pil Usa, le vendite di computer erano salite a 245,9 miliardi di dollari, erano cresciute del 265% col risultato che, rispetto all'anno precedente, l'incremento era non più del 6,3, ma bensì del 47,2%. (3)
Lo scorso 5 settembre, in una lettera al Financial Times, l'ex presidente della Dresdener Bank, Kurt Richebacher, ha rilevato che oltre all'uso dell'hedonistic pricing, le statistiche americane hanno iniziato a calcolare gli acquisti di software come se fossero beni di investimento e quindi ha accusato Greenspan, il governatore della Federal Reserve, in ultima istanza, di manipolare i dati relativi al calcolo della crescita del PNL con lo scopo di ingannare gli investitori stranieri sul reale stato dell'economia Usa e indurli così a investire nei mercati finanziari statunitensi.
Per avere un'idea delle conseguenze di ciò -- scrive Richebacker -- fra il 1998 e la prima metà del 2000, le spese correnti per computer sono passate (in dollari correnti) da 23,8 miliardi di dollari a 114 miliardi di dollari, in altre parole il 2,4 % della crescita del PNL nominale. Ma il sistema statistico adoperato, ha consentito di gonfiare questa modesta crescita di 120 miliardi di dollari fittizi facendo raggiungere i 229 miliardi di dollari. Quanto alle spese in software pari a 226 miliardi di dollari, esse hanno consentito una crescita fittizia del PNL di 95 miliardi di dollari. Insieme queste due componenti hanno gonfiato il PNL di 215 miliardi di dollari contro i 32,8 miliardi di dollari reali. Si noti che entrambi questi supplementi statistici incidono per un terzo sulla crescita reale del PNL. (4)
L'Euro e l'Est
Ora, benché queste accuse abbiano un loro fondamento, non basteranno di certo a intimidire la Federal Reserve e a indurla a perseguire politiche monetarie meno vantaggiose per gli Stati Uniti. Il problema per l'Europa dell'euro è di trovare uno sbocco alle proprie eccedenze industriali meno aleatorio di quello basato sulle svalutazioni competitive e di ridurre ulteriormente la sua dipendenza dal dollaro, cosa che passa attraverso la nascita di un mercato del petrolio in euro. Potenzialmente lo sbocco ideale sarebbe il mercato russo. La Russia oggi è ridotta al ruolo di un qualunque paese Opec tanto è forte la sua dipendenza dalle esportazioni di petrolio e quindi dal dollaro. Per affrancarsi avrebbe bisogno proprio di quelle tecnologie e di quei beni di investimento che il blocco dell'euro ha in abbondanza e che potrebbe ottenere proprio in cambio di petrolio e delle altre materie prime di cui è ricchissima. Ma tutto ciò non è sufficiente: perché l'euro possa trovare ad Est il suo futuro è necessario che intanto esca dall'attuale fase di incubazione e cominci a circolare sui mercati e soprattutto che sia l'espressione di un'area economica ben strutturata oltre che economicamente anche dal punto di vista politico e militare.
Nell'attuale fase storica del capitalismo, proprio perché il sistema è andato sempre più compensando le difficoltà nell'area della produzione con la crescita dell'appropriazione parassitaria centrata sulla produzione di capitale fittizio, la sopravvivenza è intimamente connessa con l'esercizio del potere imperialistico che o si esercita o si subisce.
Giorgio Paolucci(1) Fonte: OCSE - Economic Outlook, giugno 1999.
(2) Fonte: Rapporto annuale FMI 1999 - citazione tratta da Courier Electronic del 22 sett. 2000 eirna.com .
(3) M. D'Eramo - Il piccolo trucco che droga la crescita "tecnologica" - Il Manifesto del 29-11-2000.
(4) Courier Electronic del 21 settembre 2000 - Croissance aux Etas Unis.
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