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Introduzione
Sembrano passati anni luce da quando la borghesia internazionale esultava per il crollo del muro di Berlino e la caduta di tutti i regimi dei paesi del "socialismo" reale ed annunciava che il capitalismo si apprestava a vivere un lungo periodo di pace e di prosperità. Mai previsione è risultata così falsa da essere sconfessata in brevissimo tempo alla prova dei fatti. Alla crisi dei paesi del patto di Varsavia ed al crollo dell’Unione sovietica è seguita un serie impressionante di guerre che stanno profondamente modificando i rapporti di forza tra le varie potenze imperialistiche.
Il capitalismo mondiale ha vissuto quest’ultimo decennio in uno stato di crisi permanente. Una crisi economica strutturale che trae la propria origine dalla caduta del saggio medio del profitto, manifestatasi in maniera inequivocabile nei primi anni settanta, e dalla quale il capitalismo non riesce a venirne fuori. Ed è proprio questa crisi a dettare i motivi, i tempi e le modalità delle guerre che quotidianamente insanguinano il pianeta. Aldilà della propaganda della classe dominante, dietro la quale in alcuni casi s’accodano anche gruppi che si richiamano all’esperienza della sinistra comunista, cadendo in tal modo nel più becero idealismo, da quando il capitalismo è diventato il modo di produzione dominante su scala mondiale tutte le guerre sono guerre del capitale ed in quanto tali trovano la propria giustificazione nelle stesse contraddizioni del modo di produzione capitalistico. Non si spara un solo colpo di fucile se dietro non ci sono gli interessi economici delle varie potenze imperialistiche in lotta far di loro per il dominio dei mercati mondiali.
Per la prima volta dalla chiusura del secondo conflitto mondiale l’Europa è di nuovo teatro di guerra. Con una violenza di fuoco inaudita le forze della Nato, dalla fine del mese di marzo, hanno iniziato a bombardare quel che resta della Federazione Jugoslava. Una nuova tragedia si sta in questi mesi consumando nei Balcani. Dopo la guerra del golfo, con la quale gli Stati Uniti hanno di fatto posto sotto il proprio controllo tutta l’area mediorientale gestendo in tal modo direttamente il petrolio estratto nell’area, la disintegrazione della Jugoslavia, che ha visto Croazia, Slovenia e successivamente la Bosnia staccarsi dalla federazione, un nuovo fronte di guerra si è aperto nel cuore dell’Europa.
In seguito agli accordi di Dayton, con i quali si era posto fine alla guerra in Bosnia, tutte le grandi potenze esultavano per il risultato raggiunto e prospettavano una rapida ripresa economica dei paesi dell’area. Grazie alla globalizzazione dell’economia, paesi come la Croazia, la Slovenia e la stessa Bosnia avrebbero goduto di sufficienti capitali per ricostruire e successivamente rilanciare le proprie economie. Ma a distanza di soli quattro anni dalla firma degli accordi, la Jugoslavia è diventata di nuovo teatro di una guerra le cui conseguenze politico-militari e sociali non si sono manifestate nella loro interezza.
Dietro il paravento borghese dell’intervento "umanitario" (1), con il quale la Nato si è prefisso l’obiettivo di riportare in Kosovo le popolazioni di origine albanese vittime della pulizia etnica perpetrata dalle truppe di Milosevic, si sta giocando una partita importantissima nell’ambito dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione europea. Una guerra come quella che si è combattuta in questi mesi nel cuore dell’Europa è destinata a modificare profondamente i rapporti tra il capitalismo statunitense, pronto a giocare fino in fondo il proprio ruolo di gendarme del mondo, e il capitalismo europeo che con la nascita dell’euro può giocare nel medio periodo un ruolo di primo piano nel contesto interimperialistico, mettendo in tal modo in discussione lo stesso dominio americano. Analizzare questi rapporti, la loro evoluzione e i loro possibili sviluppi significa non soltanto intravedere i futuri schieramenti sul fronte di guerra, ma soprattutto capire in che direzione sta marciando il capitale e quali prospettive si aprono per la lotta di classe su scala internazionale.
Stati Uniti ed Europa nella guerra fredda
Il mondo che è venuto fuori dagli accordi di Yalta, firmati alla fine della seconda guerra mondiale dalle potenze uscite vincitrici dal conflitto, vedeva due fronti imperialistici contrapposti, capeggiati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Il dominio dei due paesi all’interno della propria area d’influenza era pressoché totale. Sia l’Unione Sovietica, all’interno dei paesi del patto di Varsavia, che gli Stati Uniti, all’interno del blocco occidentale, hanno goduto per alcuni decenni di un nettissimo vantaggio in tutti i settori dell’economia. Soprattutto gli Stati Uniti, in virtù del fatto che il secondo conflitto si è combattuto fuori dal proprio territorio e non avendo subito alcun danno al proprio apparato produttivo, ha goduto fino alla metà degli anni sessanta di un fortissimo vantaggio tecnologico, che si è tradotto in una maggiore competitività delle proprie merci sui mercati internazionali. Mentre paesi come l’Italia, la Germania ed il Giappone hanno subito la quasi totale distruzione dell’apparato industriale, gli Stati Uniti hanno goduto per quasi vent’anni di una sorta di monopolio nella produzione di beni ad alta tecnologia. Alla fine del secondo conflitto imperialistico il dominio statunitense era così schiacciante che il prodotto interno lordo americano rappresentava circa il sessanta per cento di quello mondiale.
Il dominio statunitense sui paesi europei ed il Giappone non è stato esclusivamente di natura economica ma si è tradotto inevitabilmente anche in termini di dominio politico e militare. Già durante la seconda guerra mondiale, quando le sorti del conflitto si erano delineate a favore degli alleati con la sconfitta della Germania e del Giappone, i rappresentanti statunitensi e britannici diedero vita a quello che è passato alla storia come l’accordo di Bretton Wood. In questa sperduta località americana nel 1944 furono gettate le basi del nuovo sistema monetario internazionale; con questi accordi gli Stati Uniti imponevano al resto del mondo la centralità della propria moneta, il dollaro, nel contesto del sistema monetario mondiale traendo da questo fatto dei vantaggi economici enormi. (2)
Infatti, grazie ad un’economia altamente competitiva ed a un’importanza senza uguali nel contesto del capitalismo internazionale, gli Stati Uniti hanno avuto la forza di imporre agli altri paesi il dollaro come unico mezzo per la regolazione dei pagamenti internazionali. Con il sistema di Bretton Wood, gli Stati Uniti non solo imponevano agli altri paesi l’utilizzo del dollaro nelle transazioni internazionali, ma li obbligavano ad intervenire sul mercato monetario per mantenere in equilibrio la parità della propria moneta rispetto al dollaro. In altri termini, se gli Stati Uniti stampavano dollari oltre il limite imposto dall’economia reale, gli altri paesi erano obbligati ad intervenire sul mercato valutario per acquistare dollari e mantenere in equilibrio l’intero sistema. Grazie a tale perverso meccanismo gli Stati Uniti hanno tratto enormi vantaggi a scapito degli altri paesi, in particolare Germania e Giappone, i maggiori possessori di dollari fino alla rottura dei trattati di Bretton Wood avvenuta nel 1971.
Dicevamo che gli accordi di Yalta oltre ad aver sancito il dominio degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, hanno diviso il mondo in due diversi blocchi militari. Nel 1949, quando la guerra fredda era diventata già una realtà, gli Stati Uniti, per fronteggiare il pericolo militare rappresentato dall’Unione Sovietica, hanno dato vita alla Nato. Lo scopo dichiarato dell’organizzazione era quello di proteggere i paesi dell’Europa occidentale da eventuali attacchi provenienti dall’Unione Sovietica o da altri paesi appartenenti al patto di Varsavia. Con la nascita della Nato gli Stati Uniti se da un lato hanno garantito una protezione militare, risparmiando l’Europa occidentale dall’onere di investire capitali nella costituzione di una forza militare, dall’altro lato grazie alla massiccia presenza di forze armate statunitensi nel vecchio continente questi paesi sono stati trasformati in stati a sovranità limitata.
Il quadro imperialistico uscito dalla seconda guerra mondiale ha cristallizzato i rapporti internazionali per oltre venti anni. Fino agli inizi degli anni settanta il dominio delle due super potenze all’interno delle aree di propria competenze è stato incontrastato. Un dominio che inizia a manifestare i primi segnali di cedimento con l’inizio della fase discendente del ciclo di accumulazione del capitale. Ed è proprio l’avvio della crisi strutturale del capitale dei primi anni settanta ad accelerare un processo di straordinaria importanza che modificherà profondamente i rapporti tra gli Stati Uniti e i paesi dell’area del dollaro, Europa in particolare.
La crescita dell’Europa
La ricostruzione dell’economia europea avviata nell’immediato dopoguerra con il piano Marshall, ha permesso ai paesi del vecchio continente di recuperare in pochi anni gli standard produttivi raggiunti nell’anteguerra. Grazie ai massicci finanziamenti americani il capitalismo europeo negli anni cinquanta e sessanta conosce un vero e proprio boom economico. Nei due decenni successivi il conflitto imperialistico il capitalismo europeo si sviluppa a ritmi annuali del 6-7%, mentre nello stesso periodo gli Stati Uniti crescono a tassi di gran lunga inferiori. L’espansione economica si accompagna ad una crescita della produttività del lavoro che pone i paesi europei nella situazione di diventare competitivi sui mercati internazionali, vincendo, in alcuni settori a basso e medio contenuto tecnologico, la concorrenza delle stesse imprese statunitensi. In questa fase lo sviluppo del capitalismo europeo non è in contraddizione con il dominio dell’imperialismo statunitense. Anzi sono proprio gli interessi imperialistici americani, delle grandi imprese multinazionali americane a favorire la ristrutturazione e lo sviluppo dell’economia europea. Infatti, grazie alla ripresa economica dell’Europa e del Giappone, gli Stati Uniti possono allargare il proprio mercato di riferimento, offrendo alle proprie imprese spazi economici dove investire i capitali in eccesso e nello stesso tempo vendere le proprie merci.
Alla fine degli anni sessanta l’economia statunitense comincia a manifestare preoccupanti segnali di crisi. La caduta del saggio medio di profitto per la prima volta in questo secondo dopoguerra da fenomeno tendenziale si manifesta in tutta la sua attualità. (3)
Capitali sempre più grandi danno profitti sempre più piccoli. In qualità di paese più sviluppato al mondo, gli Stati Uniti sono i primi ad avvertire le contraddizioni del capitale. Da maggior creditore del pianeta, con una bilancia commerciale sempre in attivo, gli Stati Uniti cominciano a perdere colpi e alla fine degli anni sessanta registrano, per la prima volta nella loro storia, un pesante deficit commerciale. Il Giappone e i maggiori paesi europei, almeno dal punto di visto della competitività delle proprie merci, alla fine degli anni sessanta raggiungono e superano gli stessi Stati Uniti.
Lo scoppio della crisi e la conseguente rottura dei trattati di Bretton Wood, segnano un punto di svolta nella storia del capitalismo internazionale di questo secondo dopoguerra. La progressiva crescita dell’economia europea e giapponese e il relativo ridimensionamento di quella americana hanno fatto esplodere il sistema monetario a cambi fissi aprendo la strada alla lunga stagione dei cambi flessibili. La rottura del sistema di Bretton Wood è il segnale inequivocabile che il capitalismo ha chiuso la sua fase espansiva e per il ciclo d’accumulazione s’apre storicamente la fase discendente. Gli Stati Uniti dopo aver finanziato la guerra del Vietnam, stampando una quantità di dollari superiore a quella che avrebbero potuto stampare in virtù delle riserve auree possedute, si sono trovati nella situazione di non poter far fronte ad una eventuale richiesta di conversione in oro dei dollari in circolazione. Infatti, il sistema di Bretton Wood prevedeva la conversione dei dollari in oro, in rapporto di 35 dollari per un’oncia d’oro (ricordiamo inoltre che tutte le altre monete potevano essere scambiate con il dollaro in base ad una parità semi fissa, variabile in una percentuale dell’1%). I mercati internazionali agli inizi degli anni settanta erano letteralmente invasi di dollari che non trovavano una propria copertura aurea, quando gli investitori tedeschi e giapponesi chiesero il conto agli Stati Uniti; il governo americano per evitare la bancarotta ruppe unilateralmente gli accordi di Bretton Wood, dando la stura ad un processo inflazionistico che ha colpito l’intero sistema capitalistico per tutti gli anni settanta.
Ma nonostante il crollo del sistema dei cambi fissi, il dollaro è riuscito a mantenere la propria centralità nell’ambito del sistema monetario internazionale. Gli Stati Uniti proprio grazie al ruolo egemone del dollaro hanno scaricato sul resto del mondo i costi della crisi del capitale. A distanza di pochi anni dagli inizi della crisi, gli Stati Uniti hanno favorito la crescita del prezzo del petrolio per mettere in difficoltà la competitività delle imprese europee e giapponesi, le quali essendo totalmente dipendenti dalle importazioni di greggio sono state costrette a produrre a costi più elevati rispetto a prima. In quegli anni la crescita del prezzo del petrolio produce un effetto ancor più importante e duraturo; per il fatto che il prezzo delle materie prime si esprime in dollari, un alto prezzo del petrolio significa una maggior richiesta di dollari sui mercati internazionali. Tutto ciò permette agli Stati Uniti di mantenere inalterata l’importanza della propria moneta sui mercati mondiali. Proprio in questi anni s’affinano quei meccanismi di accumulazione che permetteranno negli anni 80 e 90 agli Stati Uniti di sfruttare a proprio vantaggio la rendita finanziaria petrolifera.
La mossa statunitense di indebolire il capitalismo giapponese ed europeo attraverso la politica degli alti prezzi del petrolio produce gli effetti sperati solo nel breve e medio periodo. Grazie alla ristrutturazione selvaggia degli apparati produttivi, il Giappone ed i paesi europei, Germania in testa, rilanciano in fretta le proprie economie e riconquistano la competitività perduta. All’interno dell’area del dollaro i paesi europei acquistano un’importanza economica sempre più grande che li porta spesso ad avere interessi divergenti rispetto agli Stati Uniti. Ma qualsiasi tentativo d’autonomia politica viene immediatamente tarpato dalla presenza dell’altra superpotenza imperialistica.
L’Europa dopo il crollo dell’Unione Sovietica
La crescita economica del vecchio continente per tutta una fase storica è avvenuta all’interno dell’ala protettiva dell’imperialismo statunitense. Uno sviluppo economico che non ha trovato i necessari spazi per affermarsi anche sul piano politico e militare. La vecchia Europa per decenni è rimasta intrappolata tra due fuochi. Da un lato l’Unione Sovietica e la minaccia militare di un’improbabile invasione, dall’altro la presenza "amica" degli Stati Uniti che hanno imposto ai paesi europei il completo allineamento alle proprie scelte strategiche. La compattezza politica del blocco occidentale, nonostante la dinamicità e la contraddittorietà degli interessi economici dei singoli paesi, è stato un dato di fatto fino alla caduta del muro di Berlino. Con il collasso dei paesi dell’est per il capitalismo europeo si aprono per la prima volta in questo dopoguerra nuovi orizzonti politici inimmaginabili fino a qualche anno prima. La caduta dell’altro polo imperialistico non poteva non produrre delle conseguenze anche all’interno dei paesi del blocco occidentale. Ai contrasti di natura economica, che erano maturati negli anni precedenti, fanno seguito anche progetti politici mediante i quali i paesi europei si pongono l’obiettivo di contrastare efficacemente lo strapotere degli americani. Quasi in concomitanza con la crisi dei paesi del patto di Varsavia, il capitalismo europeo accelera i propri programmi d’integrazione, mettendo a punto il progetto di una moneta unica.
Il vuoto creato dalla caduta dell’Unione Sovietica ha aperto quindi nuove prospettive nei rapporti tra il Giappone e gli Stati Uniti e tra questi ultimi e i paesi dell’unione europea. Ad un mondo bipolare, dominato dallo scontro imperialistico tra americani e russi, si sta sempre di più delineando un mondo tripolare, in cui gli Stati Uniti, il Giappone e i paesi dell’Europa si scontrano per il dominio sui mercati internazionali.
Ma è soprattutto l’Europa ad aver tratto i maggiori stimoli dalla crisi dell’Unione Sovietica. Un’Europa che vede aprirsi nuovi spazi verso est, con la possibilità di allargare la propria sfera d’influenza verso paesi che fino a qualche anno prima, nonostante la vicinanza fisica, le erano lontani anni luce grazie alla presenza militare dell’Unione Sovietica. È stata la Germania, tra i paesi europei, che meglio e più degli altri ha sfruttato a proprio vantaggio le nuove prospettive aperte dalla crisi russa, prima riunificandosi e poi investendo i propri capitali nei paesi dell’est. Grazie alla presenza di manodopera specializzata a basso costo, la Germania ha trasferito in paesi come la Polonia o le repubbliche baltiche, una fetta importante della propria produzione industriale a basso e medio contenuto tecnologico, delocalizzando più di ogni altro paese europeo la propria industria. I vantaggi tratti dall’economia sono stati sfruttati dal grande capitale per aumentare l’area d’influenza del marco oltre i confini della Germania, trasformando di fatto la moneta tedesca in principale antagonista del dollaro sui mercati valutari internazionali. Pur avendo un prodotto interno lordo notevolmente inferiore al Giappone, la moneta tedesca, sfruttando gli spazi aperti dal crollo dei paesi dell’est, agli inizi degli anni novanta rappresentava la seconda moneta più utilizzata negli scambi commerciali internazionali e anche all’interno di molti paesi come appunto quelli dell’ex Federazione Jugoslava .
Grazie al crollo dei regimi stalinisti dei paesi dell’est, la grande borghesia europea accelera quel processo d’integrazione economica che porta alla creazione della moneta unica. Con il trattato di Maastricht il grande capitale europeo, in particolare quello tedesco, individua l’unica prospettiva di vincere le sfide imperialistiche che si sono aperte con la fine della guerra fredda nel dar vita a un’unica area monetaria capace di contrastare il ruolo dominante del dollaro sui mercati mondiali. La Germania ed il marco, malgrado il costante allargamento verso est ed il consolidamento nell’Europa centrale, da soli, infatti, non avrebbero avuto alcuna possibilità di competere con un paese come gli Stati Uniti e una moneta come il dollaro. Occorreva pensare a qualcosa di più grande; l’euro, appunto.
Europa e Stati Uniti nell’era dell’euro
Il processo d’integrazione economico dei paesi europei nel corso degli anni novanta ha subito un notevole salto di qualità. Fino agli anni ottanta i progetti della borghesia europea non andavano oltre la costituzione di un’unica area commerciale priva di qualsiasi barriera, all’interno della quale potessero circolare liberamente le merci e i capitali dei singoli paesi. Un’area economica che nasce quasi spontaneamente visti i rapporti culturali, storici, politici ed economici che legano da sempre i paesi europei. Paesi come la Germania, la Francia e la stessa Italia, inevitabilmente sono portati ad avere rapporti economici e politici, rapporti che in questi ultimi decenni si sono consolidati fino al punto che ogni paese rappresenta per l’altro il partner commerciale più importante.
Quasi contemporaneamente alla caduta del muro di Berlino, il grande capitale europeo lancia la grande sfide della moneta unica. Il trattato di Maastricht, firmato dai quindici paesi aderenti all’Unione europea, ha l’obiettivo di voler dotare per la prima volta nella storia l’Europa di un’unica moneta. Il processo avviato nel 1991, anno della firma del trattato, vede tutta la borghesia europea impegnata in un feroce processo di aggiustamento dei conti pubblici. Attacco ai salari e agli stipendi, tagli alla sanità ed alle pensioni sono i rimedi che la borghesia adotta per far quadrare i conti pubblici e poter dar vita alla moneta unica. La nascita della moneta unica vede una borghesia europea decisa nella propria scelta strategica, facendo ricadere sul proletariato le conseguenze più nefaste di tale scelta. Negli anni novanta il capitalismo europeo, per far rispettare i famosi parametri di Maastricht, attacca quotidianamente le condizioni di vita dei lavoratori e taglia pesantemente quel che era rimasto del cosiddetto stato sociale. In questi anni, grazie alle politiche deflattive, in Europa s’assiste ad un aumento della disoccupazione che non conosce uguali in questo dopoguerra; nei paesi dell’Unione europea il numero dei disoccupati cresce fino a sfiorare i venti milioni.
Ma il progetto della moneta unica, nonostante i pesanti attacchi perpetrati nei confronti del proletariato europeo, prende sempre più corpo e nel gennaio 1999 è diventato realtà. La nascita dell’euro, come più volte abbiamo sottolineato, è un fatto di straordinaria importanza che è destinato a produrre conseguenze storiche nei rapporti imperialistici tra gli Stati Uniti e l’Unione europea.
Dal primo gennaio ‘99, dopo che sono stati fissati definitivamente i tassi di cambio tra l’euro e le monete degli undici paesi aderenti alla moneta unica, l’euro è divenuta la moneta utilizzata nelle transazioni finanziarie sui mercati di tutto il mondo, anticipando, in una sorta di prova generale, quello che avverrà nel luglio del 2002 quando l’euro sostituirà completamente le vecchie monete nazionali.
La nascita di una nuova moneta rappresenta sempre un fatto di enorme portata, ma se il fenomeno interessa un’area economicamente sviluppata e così vasta come quella europea le modificazione che si determinano sul piano dei rapporti finanziari, monetari, commerciali ed interimperialistici sono di straordinaria importanza e destinate inevitabilmente a imprimere brusche svolte alla storia.
Con la nascita dell’euro è stato unificato un mercato di quasi 300 milioni di persone, più grande del mercato statunitense che ne conta poco meno di 270 milioni e di quello giapponese che ne conta "solo" 127 milioni, il più grande del mondo se consideriamo gli scambi commerciali infraregionali che si realizzano all’interno del mercato della vecchia Europa. Presi singolarmente i paesi europei, nonostante la loro indiscussa competitività sui mercati mondiali, rappresentano dei nani rispetto al gigante statunitense e al capitalismo nipponico; unendo le proprie forze in un unico grande mercato gli undici paesi dell’euro rappresentano invece la prima potenza economica del pianeta, superando di gran lunga il Giappone e gli stessi Stati Uniti. Secondo la Banca Mondiale nel 1996 il prodotto nazionale lordo dell’Unione europea è stato di 8468,5 miliardi di dollari contro i 7433,5 degli Stati Uniti; nel 1997 l’export europeo di merci ha superato di due volte e mezzo quello statunitense. Infine un altro dato che testimonia ancor di più la crescita del capitalismo europeo: ben 155 dei 500 maggiori gruppi transnazionali del mondo hanno il proprio centro direttivo nell’Unione europea.
Ma è sul piano monetario e finanziario che l’euro è destinato a produrre i maggiori effetti accelerando un processo storico di ridimensionamento del capitalismo statunitense. In questi ultimi decenni gli Stati Uniti sfruttando il loro enorme potenziale militare e anche grazie al dominio della propria moneta sui mercati internazionali hanno imperialisticamente scaricato sugli altri paesi il peso di una crisi strutturale che si trascina ormai da quasi trenta anni. Il dollaro, svolgendo la funzione di moneta principe dell’intero sistema monetario internazionale, ha permesso alla borghesia statunitense di attenuare gli effetti della caduta del saggio medio di profitto estorcendo quote crescenti di plusvalore dalle aree più disparate del pianeta mediante la crescita a ritmo esponenziale della rendita finanziaria. Malgrado il ridimensionamento dell’economia americana nel contesto di quella mondiale, il dollaro è rimasto la moneta maggiormente utilizzata negli scambi internazionali ed è tuttora la moneta più utilizzata nella costituzione delle riserve valutarie delle varie banche centrali.
Secondo uno studio della banca mondiale l’area monetaria del dollaro ha un peso che è del 20% superiore alla potenza dell’economia reale statunitense. In forza di ciò, gli Stati Uniti godono di un indubbio privilegio rispetto agli altri paesi in quanto i dollari in circolazione all’estero sono in pratica un prestito a tasso zero che non dovranno mai restituire. Attualmente il dollaro rappresenta il 60% delle riserve valutarie mondiali e il marco tedesco solo il 14%; ma con l’euro, nel volgere di pochissimo tempo, la composizione delle riserve valutarie delle banche centrali dovrebbe variare considerevolmente a favore della nuova moneta e infatti tutti i più importati paesi hanno già annunciato la ristrutturazione in questo senso delle loro riserve. La Cina addirittura ha già predisposto affinché entro pochi anni siano convertite in euro un terzo delle proprie riserve (pari a circa 150 miliardi di dollari).
L’euro è dunque potenzialmente destinato a ridimensionare il dollaro e quindi a togliere alla borghesia statunitense lo strumento più efficace per l’esercizio del proprio dominio imperialistico e per questo è difficilmente ipotizzabile che l’unica superpotenza imperialistica abdichi e lasci all’Europa il ruolo di nuovo gendarme del pianeta. La nascita dell’euro, contrariamente a quanto ufficialmente sostiene la borghesia internazionale, apre di fatto nuovi scenari nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa. Per la prima volta il dollaro vede seriamente minacciato il proprio ruolo nel panorama valutario internazionale, e non è un caso che l’aggressività imperialistica statunitense sia diventata sempre più forte proprio in concomitanza con il varo della nuova moneta europea.
Interessi americani ed europei nella guerra nel Kosovo
L’affermarsi di un nuovo polo imperialistico come l’Unione europea non è visto di buon grado dagli Stati Uniti. Un paese in piena decadenza come gli Stati Uniti non possono permettersi il lusso di assistere passivamente all’affermarsi di un concorrente sui mercati valutari internazionali. Nonostante le dichiarazioni ufficiali di Clinton siano tutte impregnate di elogi e congratulazioni verso la classe dirigente europea per la riuscita del varo della moneta unica, l’euro è visto dalla borghesia americana come fumo negli occhi. Se consideriamo che il capitalismo americano, solo per il fatto che la propria sia la moneta maggiormente utilizzata negli scambi internazionali, trae una rendita annua di 500 miliardi di dollari è facile immaginare quale partita si stia giocando in questa fase.
Ma la nascita della nuova moneta europea rappresenta solo il primo passo verso la formazione di un nuovo fronte imperialistico. Non basta unificare i mercati, liberalizzare la circolazione dei capitali, dar vita ad un’unica moneta per avere automaticamente univocità d’interessi tra i paesi che hanno dato vita al progetto d’unificazione. All’unione economica deve necessariamente far seguito quella politico-militare. Non basta rappresentare l’area economica più sviluppata del pianeta per dominarlo; occorre costruire anche un organismo politico capace di contemperare i divergenti interessi nazionali. Inoltre, non è ipotizzabile un proprio dominio imperialistico senza una forza militare capace d’intervenire nelle aree strategiche del pianeta. L’Europa rappresenta un gigante economico ed un nano politico, in questa fase in completa balia degli americani.
La guerra nel Kosovo rappresenta in primo luogo il segnale più evidente che l’imperialismo statunitense è pronto a giocare fino in fondo le proprie carte per mantenere inalterato il proprio status dominante. È un messaggio chiaro e forte all’Europa ed alle sue velleità imperialistiche. La nascita di una moneta come l’euro può anche andar bene agli interessi statunitensi, ma solo nella misura in cui la nuova moneta serve a stabilizzare i mercati valutari mondiali. Le continue oscillazioni delle monete deboli dell’Europa, come la lira italiana, la peseta spagnola ed in parte il franco francese, hanno storicamente destabilizzato i mercati internazionali, facendo ricadere le negative conseguenze anche sul dollaro. La stabilizzazione monetaria dell’Europa può invece aiutare il dollaro a svolgere la sua funzione di moneta termometro del sistema internazionale. Ma se la funzione dell’euro travalica la semplice stabilizzazione monetaria del vecchio continente per assurgere al ruolo di concorrente del dollaro, gli americani sono pronti anche a scatenare conflitti in ogni angolo della terra. È ciò che è accaduto nel Kosovo.
Una guerra nel cuore dell’Europa che vede come attore principale gli Stati Uniti è soprattutto una sconfitta per le velleità imperialistiche dell’Unione europea. Dimostra l’incapacità degli europei di gestire i propri affari interni e subire passivamente l’ingerenza americana sul proprio territorio. Senza voler analizzare le cause che hanno scatenato il conflitto nei Balcani, peraltro analizzate in altri articoli di questa stessa rivista, questa è una guerra voluta fortissimamente dagli americani per controllare un’area strategicamente importante per il controllo delle risorse petrolifere presenti nella regione del mar Caspio. Infatti, proprio nella regione interessata dall’attuale conflitto dovrebbe passare le nuove vie che progettate per portare il petrolio dal Caucaso e dall’area caspica fin nel Mare del Nord e sulle sponde del Mare Adriatico. Essere presenti con una forza armata significa per gli americani poter controllare direttamente il flusso petrolifero e gestire in maniera più funzionale ai propri interessi imperialistici le oscillazioni del prezzo del petrolio e di conseguenza la rendita finanziaria che da quelle oscillazioni dipende. Il Kosovo rappresenta un salto di qualità rispetto al passato nello scontro interimperialistico tra Stati Uniti ed Unione europea. Una guerra con la quale gli Stati Uniti vogliono affermare il proprio ruolo dominante sul pianeta.
All’euro dell’Unione europea gli americani rispondono scatenando la guerra nel cuore dell’Europa. La capacità degli americani nel percepire il pericolo che deriva dalla nascita della nuova moneta è di una lucidità sconvolgente. La classe dirigente statunitense ha capito immediatamente che il pericolo può nascere dall’Europa che si erge come nuova potenza imperialistiche e che alla moneta unica faccia seguito anche una forza militare ed una politica unitaria europea. La guerra nel Kosovo è un chiaro messaggio degli Stati Uniti all’Europa ed alle sue aspirazioni imperialistiche. Un’Europa che non è ancora in grado di esprimere un’unica posizione politica negli affari di politica estera, sempre in difficoltà per i divergenti e contrastanti interessi nazionali.
In questa guerra, al di là delle dichiarazioni ufficiali di allineamento alle posizioni della Nato, i paesi europei non hanno saputo opporre una propria posizione, ma si sono accodati come piccoli avvoltoi alle scelte degli Stati Uniti nella speranza di poter partecipare alla spartizione del bottino di guerra. Il contraddittorio atteggiamento dei paesi europei, prima pronti a sostenere la guerra e successivamente intenti a frenare le velleità d’intervento terrestre di Clinton e Blair, si spiega con l’attuale fase del processo d’unificazione; un processo ancora in atto, nel quale giocano un ruolo primario gli egoismi nazionali dei singoli paesi. Aumentare il proprio peso imperialistico nell’ambito dell’Unione europea è, nell’immediato e nel medio periodo, l’imperativo che di sono dati i singoli paesi. Arrivare in una posizione di forza all’atto conclusivo del processo d’unificazione dell’Europa, significa per i paesi dell’Unione europea poter sfruttare a proprio vantaggio le leve del potere della futura aggregazione politico-economica. Solo in questo modo si spiega il contraddittorio e meschino atteggiamento dei singoli paesi dell’Unione europea, privi di una qualsiasi posizione unitaria e costretti ad accodarsi alle scelte imposte dal governo statunitense. Infatti, ogni paese europeo spera di trarre dei vantaggi dalla guerra nella regione dei Balcani. Un paese come l’Italia, dopo aver messo le mani sull’Albania, spera di non rimanere tagliato fuori dalla partita ottenendo magari una piccola fetta del Kosovo per allargare la propria influenza nell’area. Ma l’Italia, partecipando al conflitto e fornendo alla Nato le proprie basi aree, vuole più di ogni altra cosa dimostrare la sua importanza militare nel controllo di tutto il bacino del Mediterraneo. Protesa nel mare come una immensa portaerea, l’Italia con questa guerra dimostra agli altri paesi dell’Unione europea tutta la sua importanza nel processo d’unificazione politico-militare.
La Germania, dopo aver contribuito in maniera determinante a far esplodere la federazione jugoslava riconoscendo immediatamente le nuove repubbliche di Slovenia e Croazia, dalla guerra spera di allargare la sua influenza nell’area che più direttamente è interessata al flusso di petrolio. Ma la partecipazione tedesca alla guerra rappresenta anche una sorta di legittimazione nella comunità internazionale; infatti, era dalla fine della seconda guerra mondiale che la Germania non partecipava con proprie forze a operazioni belliche. Proprio in questi giorni è emerso chiaramente che l’azione di penetrazione tedesca nell’area dei balcani è arrivata fino al punto di armare di sana pianta, con l’aiuto degli americani, l’U.C.K., l’esercito di liberazione kosovara, in lotta contro le truppe serbe. L’imperialismo tedesco quindi aspira senza mezzi termini a porre sotto il proprio controllo un pezzo dell’attuale Kosovo.
La nazione europea che più di ogni altra si è schierata apertamente con le posizioni della Nato è stata la Gran Bretagna, e ciò per ovvi motivi. Grazie all’intervento in Kosovo la Gran Bretagna, oltre a esigere successivamente la propria quota nella spartizione, spera di far lievitare il prezzo del petrolio per poter rendere così competitivo quello che si estrae nel Mar del nord. Il petrolio inglese ha dei costi di estrazione più alti rispetto a quello estratto nel Medioriente e nelle regioni del mar Caspio; l’unico modo per poterlo estrarre in maniera competitiva è quello di far lievitare il prezzo sui mercati internazionali, in modo tale che il prezzo più alto copra i maggiori costi di produzione. Quale occasione migliore per la borghesia britannica che la guerra nel Kosovo per soddisfare la propria bramosia di profitti?
La Francia è il paese che in apparenza ha meno interessi in questa guerra, visti anche i legami storici con la Serbia; ma rimanere fuori dal conflitto avrebbe significato per la borghesia francese essere completamente tagliata fuori dalla partita che si sta giocando nella regione dei Balcani.
Prospettive
L’affermarsi di un nuovo polo imperialistico europeo è un processo in divenire di lungo termine che gli Stati Uniti, però, non sono disposti a subire passivamente. Con i bombardamenti nei Balcani, essi hanno voluto far capire al resto del mondo che sono ancora loro a dominare per cui o ci si piega ai loro interessi o si fa la fine della Serbia.
L’accresciuta aggressività americana è il frutto non tanto della malvagità di Clinton, non più distratto dalle carezze di Monica, ma della particolare fase del ciclo d’accumulazione del capitale. È proprio la crisi del capitalismo a spingere la massima potenza imperialistica a muoversi a tutto campo per cercare di attenuare, attraverso l’estorsione di quote crescenti di plusvalore dalle aree più disparate del pianeta, gli effetti della crisi stessa; Una crisi però che nonostante sia stata dalle grandi potenze internazionali in gran parte scaricata sulle aree periferiche grazie alla crescita dell’attività parassitarie ed al loro strapotere imperialistico permane e fa sentire ancora i suoi dolorosi morsi. La necessità di rendere sempre più stringente il controllo anche militare delle aree strategicamente più importanti si farà quindi più stringente e interesserà anche quelle aree che in apparenza non rappresentano nulla di importante. Kosovo docet.
Il progetto degli Stati Uniti di perpetuare un’organizzazione come la Nato, creata per contrastare i possibili attacchi sovietici, anche dopo la caduta del muro di Berlino, rappresenta, dunque, un’ulteriore prova della volontà americana di voler imbrigliare le aspirazioni autonomistiche dell’Europa. E l’allargamento della Nato ai paesi dell’Europa dell’est, se da un lato rappresenta una minaccia alla Russia, che si trova il nemico alle porte di casa, dall’altro mira a bloccare i progetti dell’Unione europea per la costituzione di un proprio esercito. Una Nato che s’allarga fino a sfiorare gli Urali, significa anche che la preminenza imperialistica passa quasi esclusivamente attraverso la bruta forza delle armi.
Uniti nell’attaccare quotidianamente il proletariato mondiale, attraverso la svalutazione selvaggia della forza-lavoro, le borghesie di Stati Uniti e Unione europea s’avviano a vivere una stagione altamente conflittuale. Un conflitto rimasto finora latente ma che proprio l’avanzare delle contraddizioni economiche su scala mondiale possono drammaticamente fare esplodere.
Lorenzo Procopio(1) Sulle cause del conflitto si possono leggere gli altri articoli dedicati alla guerra che appaiono su questo stesso numero della rivista.
(2) Sugli accordi di Bretton Wood e sulla centralità del dollaro nel contesto del sistema monetario internazionale, si può leggere l'articolo "Crisi del dollaro e nuovi equilibri monetari" apparso sul numero 9 serie 5 di questa stessa rivista.
(3) Per ovvi motivi di spazio non approfondiremo le origini della crisi nè la sua manifestazione agli inizi degli anni 1970, rimandando i lettori agli articoli pubblicati dal partito in questi anni sull'argomento.
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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
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