La crisi del capitale a una nuova svolta

Sia in Italia che nel resto del mondo i dati del Pil relativi al terzo trimestre dell’anno in corso hanno confermato che l’economia mondiale è in recessione. Anche per il 1999 è prevista una forte contrazione dei tassi di crescita di tutti i paesi maggiormente industrializzati a cominciare dagli Stati Uniti. In Giappone, nonostante la crisi si trascini da oltre tre anni, è addirittura prevista un’ulteriore contrazione del Pil dell’1,8 per cento; negli Stati Uniti da una crescita attesa del 3-3,5 per cento si è passati al 2-2,5 per cento e in Italia dal 2,8 al 1,8 per cento.

Il pericolo che la recessione possa estendersi a tutto il pianeta e dar luogo a una vera e propria crisi sistemica ha indotto sia il Fmi che la Banca Mondiale a sollecitare i paesi aderenti al gruppo del G7 e in particolare quelli Ocse, ad abbandonare le loro politiche economiche tuttora deflattive a favore di altre mirate al sostegno della domanda e al rilancio degli investimenti.

Il vecchio Keynes, considerato fino a ieri alla stessa stregua di uno sfasciacarrozze, sta ritornando ad essere il demiurgo dei tempi moderni mentre il dogma monetarista e neoliberista è messo in dubbio anche dai suoi sacerdoti più fedeli che ormai troviamo sempre più spesso schierati in prima fila a reclamare l’intervento pubblico a sostegno dei mercati. L’indice Nikkei ha fatto registrare, fra gli applausi di questi signori, un rialzo del 5,5 per cento solo quando il governo giapponese ha annunciato lo stanziamento dell’equivalente di 750 mila miliardi di lire (l’11% del Pil) per il salvataggio del sistema bancario nipponico nonostante che ciò, qualora il piano dovesse effettivamente andare in porto, comporti di fatto la sua nazionalizzazione. (1)

Nell’Europa dell’euro invece si parla con sempre maggiore insistenza di rivedere i rigidi parametri del patto di stabilità voluto dalla Bundesbank e non passa giorno senza che qualcuno dei leader dei paesi che hanno dato vita alla nuova moneta non si faccia promotore di iniziative a favore dello sviluppo e della occupazione.

L’ex primo ministro italiano Prodi ha proposto di utilizzare le eccedenze delle riserve valutarie che si renderanno disponibili con il varo dell’euro per investimenti destinati alla costruzione di grandi infrastrutture; e l’attuale presidente del consiglio D’Alema, con l’approvazione sia del francese Jospin che del ministro dell’economia tedesco Lafontine, ha recentemente chiesto la modifica del trattato di Maastricht al fine di escludere, nella determinazione dei deficit di bilancio, la spesa pubblica per gli investimenti. Rimarrebbe così vincolata al parametro del tre per cento solo la spesa corrente che è un modo elegante per mettere in soffitta un automatismo che impedisce una gestione della spesa pubblica in funzione anticiclica anche quando l’inflazione è bassa e l’economia ristagna. Anche la Banca mondiale, fin qui custode inflessibile del dogma neoliberista, in un suo recente rapporto ha raccomandato la riduzione dei tassi di interesse e l’incremento della spesa pubblica a sostegno dei redditi degli strati più poveri della popolazione e l’adozione di misure per limitare i movimenti speculativi dei capitali sui mercati mondiali; infatti, è ormai diffusa l’opinione che il motore della crisi sia la eccessiva dilatazione della sfera finanziaria determinata dalla liberalizzazione del credito e dei movimenti dei capitali (globalizzazione finanziaria) che favoriscono la produzione di capitale fittizio senza limiti e ad esclusivo vantaggio delle attività speculative. (2)

Soprattutto negli ambienti neo-riformisti della sinistra borghese, si pensa che il ritorno a un regime di finanza controllata e di cambi fissi, limitando le attività speculative, possa favorire il rilancio delle attività produttive e l’avvio di una nuova fase espansiva dell’economia mondiale.

In Francia, per esempio, l’Attac (Associazione per la Tassazione delle Transazioni finanziarie per l’Aiuto ai Cittadini), un’associazione sorta per sostenere la proposta dell’economista Tobin di tassare le plusvalenze realizzate mediante la speculazione sulle valute, ha recentemente ampliato il suo consenso che finora era limitato alla cerchia degli economisti e degli intellettuali che orbitano nell’area di Le Monde diplomatique e sta raccogliendo adesioni un po’ in tutto il mondo. Lo scopo dell’organizzazione è appunto quello di:

contrastare la speculazione internazionale, tassare i redditi da capitale, sottoporre a sanzioni i paradisi fiscali. impedire la generalizzazione dei fondi pensione, riconquistare in generale gli spazi perduti della democrazia a vantaggio della sfera finanziaria e opporsi a ogni nuovo abbandono della sovranità degli stati con il pretesto dei "diritti" degli investitori e dei mercanti.

D’altra parte, le contraddizioni che genera la crescita incontrollata della sfera finanziaria sono talmente grandi che è pressoché impossibile per l’economista borghese non ritenerle causa ultima della crisi.

Il fallimento della svolta monetarista

L’inconvertibilità del dollaro e l’abbandono nel 1973 del regime dei cambi fissi, anziché favorire, come riteneva la scuola monetarista, una determinazione più veritiera del valore delle monete in relazione a quello della cosiddetta economia reale, ha favorito lo scollamento fra la sfera produttiva e quella monetaria a tutto vantaggio delle attività speculative.

Le transazioni sui mercati finanziari nel 1997 - ci informa l’economista René Passet professore di Economia dell’Università di Parigi e presidente del comitato scientifico di Attac - erano stimate a circa 1500 miliardi di dollari al giorno, contro i 18 miliardi all’inizio degli anni 1970 e 200 miliardi nel 1986. È l’equivalente di 50 volte l’ammontare degli scambi di beni e servizi. (3)

Altresì, l’abolizione dei vincoli sui depositi e i prestiti bancari, avvenuta nel 1979 negli Stati Uniti, e da li estesasi al resto del mondo, anziché agevolare il finanziamento delle imprese e selezionare le più efficienti, come sostenevano i teorici del neoliberismo, ha favorito la crescita del mercato "derivato" ovvero il mercato di quei prodotti finanziari che, inizialmente concepiti come strumenti per limitare i rischi derivanti dalle eccessive fluttuazioni sia dei corsi dei cambi che di quelli azionari, sono divenuti lo strumento principe della speculazione. La sua rapida e travolgente espansione (attualmente la dimensione del mercato dei prodotti derivati è stimata pari a 50 volte il Pil degli Stati Uniti) ha trasformato radicalmente i mercati borsistici da luoghi deputati principalmente alla raccolta del risparmio destinato al finanziamento delle attività produttive, a luoghi in cui:

Il mercato speculativo “dell’occasione” rappresenta...il 90-95% di questi scambi [dei titoli azionari - ndr].

Anche l’attività delle banche è profondamente mutata e ormai negli Stati Uniti solo il 20 per cento dei loro attivi è destinato al finanziamento delle imprese mentre nel 1970 era l’80%. (4)

Più in generale, se fino ai primi anni 1970...

il forte obbligo della pianificazione [l’intervento regolatore dello stato nell’economia - ndr] - osserva ancora Passet - determinava gli obbiettivi prioritari dell’economia reale e ad adattarsi era la sfera monetaria. Ormai la situazione si è capovolta: i tassi di interesse non dipendono dai dati reali, ma dalle anticipazioni degli operatori e dalle imposizioni di stabilità monetaria delle banche centrali. Ormai è l’investimento a reagire al tasso di interesse che viene determinato al di fuori dei bisogni e delle disponibilità di capitale. (5)

E i tassi di interesse sono così alti che rischiano di intaccare seriamente la stabilità del sistema tanto che anche il vice direttore della Banca d’Italia Pier Luigi Ciocca non ha potuto esimersi dal lanciare l’allarme:

La crescita stabile, sostenuta non potrà ... aversi se il prezzo reale del denaro continuerà a eccedere ampiamente il ritmo di incremento del prodotto delle economie industriali, a cui è legato alla lunga il saggio del profitto. I tassi reali sfiorano o superano il 4 per cento, il ritmo di incremento del prodotto potenziale è del 2-3 per cento. Era l’inverso negli Cinquanta e Sessanta. (6)

È evidente dunque che di fronte a questi dati, l’economista borghese non può fare altro che invocare il ritorno al passato quando lo stato interveniva nei fatti economici orientandoli in funzione anticiclica. Lo fa sia il keynesiano che il monetarista e così anche Ciocca, che da buon monetarista affida il rilancio della crescita economica alla riduzione "non inflazionistica" dei tassi di interesse, per raggiungere l’obbiettivo sollecita, come gli economisti di Attac, un mutamento delle "politiche economiche e monetarie dei principali paesi" da realizzarsi "quantomeno attraverso una [loro - ndr] più salda coordinazione...". (7)

All’origine della crisi

Non è un caso però che, seppure differenziandosi fra loro per il fatto che gli economisti keynesiani propugnano oltre al controllo da parte dello stato dei tassi di interesse anche il rilancio della politica di finanziamento in deficit della spesa pubblica, le due maggiori scuole del pensiero economico borghese concordino nel ritenere che in ultima istanza un mutamento delle scelte di politica economica sia il rimedio per superare la crisi. Ritenendo sia l’una che l’altra il capitalismo un dono del padreterno e/o sicuramente quanto di meglio possa esserci per l’uomo, entrambe escludono la possibilità che le sue contraddizioni siano insanabili e ne caratterizzino perciò la sua transitorietà così come è per tutto ciò che attiene alla storia dell’uomo e all’uomo stesso.

L’abbandono delle politiche keynesiane che prescrivono il controllo statale della produzione di tutto il capitale monetario sia mediante la gestione centralizzata della massa monetaria e i vincoli sui depositi e i prestiti bancari che con il controllo del mercato delle valute mediante il sistema dei cambi fissi non è stato un capriccio, quanto piuttosto una scelta che la borghesia della metropoli capitalistica e quella statunitense in testa a tutte le altre ha dovuto operare per evitare che il sistema venisse travolto da una prolungata stagione di riduzione del saggio medio del profitto figlia delle contraddizioni strutturali proprie del processo di accumulazione capitalistica .

È dalla fine degli anni Sessanta che la caduta del saggio medio del profitto, tendenzialmente sempre operante perché attivata dagli ineluttabili e continui mutamenti della composizione organica del capitale, è stata avvertita anche in termini assoluti e ha aperto la fase discendente del ciclo di accumulazione iniziato con la fine della seconda guerra mondiale. La crisi che ne è conseguita è quindi crisi strutturale destinata a durare fino a quando l’attuale ciclo di accumulazione si sarà definitivamente chiuso e un nuovo avrà preso l’avvio sempre che nel frattempo il proletariato internazionale non sarà riuscito ad abbattere l’intero sistema capitalistico e ad averlo sostituito con uno di tipo socialista.

Ovviamente, quando si parla di fase discendente del ciclo di accumulazione non si esclude che all’interno di essa possano esserci momenti di ripresa così come nella fase ascendente si possono registrare crisi congiunturali anche di un certo rilievo, ma si intende rilevare un trend in cui l’accumulazione del capitale incontra sempre maggiori difficoltà, lo sviluppo della base produttiva rallenta e aumenta la produzione di capitale fittizio come strumento di appropriazione parassitaria del plusvalore.

Per tutti gli anni Settanta la crisi si è manifestata con l’inflazione a due cifre e con una prolungata stagnazione economica. Il fenomeno, denominato stagflation poiché metteva insieme un forte rialzo dei prezzi e un rallentamento significativo della domanda, evidenziava che si era in presenza di un qualcosa di più e di diverso delle normali crisi congiunturali. Evidenziava cioè che il grande capitale monopolistico faticava a trovare una compiuta valorizzazione mediante il normale ciclo D-M-D’ e tentava di compensare i bassi saggi del profitto con l’incremento artificioso dei prezzi ovvero incrementando le attività speculative.

Da allora, il filo conduttore delle politiche economiche statunitensi, e a ruota anche di tutti i principali paesi industrializzati, è stato intrecciato sempre dalla necessità di favorire l’appropriazione parassitaria di plusvalore. Non sono state dunque le politiche economiche a determinare le diverse fasi della crisi ma è stata la crisi che evolvendosi ha imposto il loro cambiamento. L’obbiettivo strategico del capitale è stato sia nella prima che nella seconda fase la svalutazione del salario al di sotto del suo valore e la dilatazione dell’area di raccolta del plusvalore mediante l’appropriazione della rendita finanziaria.

Dalla fase inflattiva in cui la compensazione del saggio del profitto si è concretizzata scaricando sui più deboli e in particolar modo sui percettori di salari, stipendi e redditi fissi un artificioso incremento dei prezzi, si è passati alla successiva fase deflattiva o monetarista quando è risultato palese che lo schema keynesiano del finanziamento in deficit della spesa pubblica non funzionava più. A causa dei bassi saggi di profitto industriali, infatti, la dilatazione della massa monetaria a sostegno della domanda promossa dallo Stato, anzichè fungere da moltiplicatore degli investimenti produttivi generava solo inflazione e rendeva impossibile il riassorbimento soffice della produzione anticipata di capitale monetario. Inoltre, le forme di appropriazione parassitaria che ne scaturivano, essendo basate quasi esclusivamente sulla crescita artificiosa dei prezzi dei prodotti industriali, avevano un campo di azione limitato al mercato interno visto che questa è l’area in cui essi normalmente trovano maggiore collocazione. Quando la microelettronica ha consentito di spostare i capitali in tempo reale da una parte all’altra del pianeta e la crescita del debito pubblico aveva assunto ritmi esponenziali con il rischio che l’intero sistema venisse travolto, un po’ per necessità e un po’ per calcolo, sotto la spinta degli Stati Uniti e della Gran Bretagna (le due maggiori potenze finanziarie di quel periodo), i processi di liberalizzazione del credito e di deregolamentazione dei mercati finanziari ricevettero un forte impulso. Abolendo i vincoli che privilegiavano la produzione e la circolazione della moneta di credito in funzione dell’investimento produttivo, le aree economiche che disponevano di valute pregiate e universalmente accettate nei pagamenti internazionali, poterono di fatto estendere i processi di appropriazione parassitaria del plusvalore a scala planetaria e nel contempo facilitarli poiché, facendo leva soprattutto sulle variazioni artificiose di valore delle monete e non su quelle dei prezzi dei prodotti industriali, potevano in parte prescindere dal processo di produzione e circolazione di questi ultimi che è sicuramente più complesso e limitato. La crescita della sfera finanziaria ha quindi obbedito alla medesima logica che in precedenza aveva fatto esplodere la stagflazione poiché in sostanza lungi dal contraddirla ne ha favorito l’ampliamento e ne ha accresciuto l’efficacia. Insomma: si è trattato di risposte, diverse nella forma, ma identiche nei contenuti, al medesimo e irrisolto problema del calo del saggio medio del profitto. Risulterebbe altrimenti inspiegabile il fatto che sia le politiche economiche adottate fino a tutti gli anni Settanta che quelle successive abbiano prodotto lo stesso risultato: una elevata sovrapproduzione della componente fittizia del capitale finanziario. Come sottoprodotto della variazione artificiosa dei prezzi nella prima fase e dell’altrettanto artificiosa variazione del valore delle monete, mediante il rialzo dei tassi di interesse, nella seconda. Comune ad entrambe è stato poi l’aver facilitato e reso permanente il processo di svalutazione dei salari al di sotto del loro valore e condotto alla desertificazione economica di intere aree del pianeta.

La desertificazione economica

La coincidenza e la puntualità con cui entrambe le politiche hanno condotto all’impoverimento totale di intere aree economiche è impressionante.

Durante gli anni Settanta, quando a causa dell’inflazione i prezzi delle materie prime, seppure a rimorchio di quelli dei prodotti industriali, salivano rapidamente, i paesi produttori chiesero e ottennero con facilità grossi prestiti dalle banche dei paesi industriali e in particolare da quelle statunitensi. Tali prestiti che nella retorica ufficiale dovevano servire per favorire lo sviluppo economico di queste aree, in realtà vennero utilizzati dalle borghesie locali per investimenti di natura speculativa perché sicuramente più redditizi degli investimenti industriali.

Emblematiche - scrive Manlio Dinucci nel suo Il sistema Globale - le scelte fatte da alcuni governi africani che, in linea con gli interessi delle élite al potere e delle società transnazionali operanti nei loro paesi, destinarono gran parte dei fondi non alla realizzazione di infrastrutture rurali e industriali, all’istruzione e alla sanità, ma all’ammodernamento delle loro capitali con la costruzione di lussuosi quartieri residenziali, centri degli affari e aeroporti ultramoderni. (8)

Anche allora esattamente come è accaduto in questi ultimi tempi per le famosi tigri asiatiche e la Russia, dopo un breve periodo in cui sembrava che l’indebitamento avrebbe potuto essere riassorbito dalla crescita economica e da quella delle esportazioni, improvvisamente il prezzo di tutte le materie prime diminuì mediamente del 50% sia perché i paesi produttori incrementarono l’offerta sui mercati mondiali sia perché:

Il grosso del loro commercio è gestito da grandi società transnazionali, le quali esercitano un regime di oligopolio o monopolio sull’intero ciclo - dall’acquisto al trasporto, dalla lavorazione alla vendita - e sono quindi in grado di influire in modo determinante sul corso dei prezzi. Basti pensare che circa il 75% del mercato mondiale delle banane è controllato da sole tre società (Chiquita, Dole e Del Monte). (9)

Il calo dei prezzi insieme all’aumento dei tassi di interessi produsse una drammatica inversione dei trasferimenti finanziari netti e la liquidazione definitiva di ogni prospettiva di sviluppo economico. Basti pensare che mentre nel periodo 1980-82 i paesi industrializzati versarono ai cosiddetti paesi in via di sviluppo 49 miliardi di dollari in più di quanto avevano ricevuto, nel periodo 1983-89 sono stati questi ultimi a versare 242 miliardi di dollari in più ai paesi industrializzati .

Per taluni di essi il solo costo di servizio del debito ha superato e supera tuttora il valore dell’intero prodotto nazionale lordo annuo; ma nonostante questa autentica spoliazione il loro debito estero ha continuato a crescere. Secondo dati della Banca Mondiale dal 1980 al 1990 esso è più che raddoppiato e dal 1990 al 1996 è cresciuto del 28%. (10)

Leggendo, in questo stesso numero, l’articolo Il crollo della Russia e la fine dell’illusione liberista, si rileva la sostanziale unitarietà del processo che in entrambi i casi ha condotto a una crisi finanziaria per molti aspetti irreversibile. E identico nei contenuti risulta essere anche il percorso che ha condotto al fallimento le economie dei paesi del Sud-est asiatico; e con l’unica differenza che in questi paesi il riassorbimento del debito era stato affidato all’esportazione di alcuni prodotti industriali resi competitivi dallo sfruttamento bestiale della forza-lavoro e dal massiccio ricorso al lavoro minorile più che alla esportazione di materie prime. Ma anche qui è bastata una variazione dei rapporti di cambio fra yen e dollaro perché all’improvviso i prezzi di questi prodotti risultassero troppo bassi e andasse in corto circuito tutto il processo di finanziamento del debito. E anche qui, come era già accaduto in molti paesi africani, il debito estero è servito a finanziare più la speculazione mobiliare e immobiliare che lo sviluppo della base produttiva. (11)

La terza fase

Alla luce di quanto abbiamo fin qui esaminato, l’idea che una nuova fase espansiva dell’economia mondiale possa aver luogo mediante il rilancio di politiche economiche di tipo keynesiano appare del tutto infondata perché mancano tutti i presupposti fondamentali necessari alla sua pratica applicazione.

Per incoraggiare l’impiego del capitale finanziario, prodotto anticipatamente dallo Stato, nell’investimento produttivo ed evitare, come è già accaduto negli anni Settanta, che il finanziamento in deficit della spesa pubblica attivi processi inflattivi di natura speculativa e una nuova esplosione del debito pubblico, lo schema keynesiano prevede che i tassi di interesse siano inferiori al saggio medio del profitto industriale. Ora, in Giappone, per esempio, il tasso di sconto ufficiale a breve termine è prossimo allo zero; eppure gli investimenti ristagnano e il prodotto interno lordo diminuisce costantemente da molto tempo a questa parte. Recentemente, il tasso di sconto è diminuito anche negli Stati Uniti e nell’Europa dell’euro, escluso l’Italia dove è pari al 3,5% (ma è tornato ai livelli dei primi anni Settanta), è al 3%; ma come per il Giappone, anche in queste aree il prodotto interno lordo è in calo e le previsioni per il prossimo anno sono ancora peggiori. Evidentemente le aspettative di profittabilità degli investimenti industriali, che per loro natura si misurano sul lungo e medio periodo, in linea con tutte le valutazioni statistiche che danno il saggio medio del profitto industriale in ulteriore ribasso, non sono allettanti. Né potrebbe essere altrimenti visto che la contraddizione strutturale da cui si origina la tendenza alla riduzione del saggio medio del profitto non solo non è stata rimossa ma è stata ingigantita dall’ulteriore espulsione di forza-lavoro dai processi produttivi verificatasi in questi ultimi anni. Ma anche se lo fossero, alla riattivazione di un circuito virtuoso finalizzato al rilancio di una nuova fase di sviluppo, mancano altri presupposti fondamentali a cominciare dalla stessa possibilità per gli Stati di allargare il finanziamento in deficit della spesa pubblica. Si calcola che solo per riassorbire il debito dei paesi del Sud est asiatico occorrerebbero capitali per circa un miliardo di dollari. Recentemente i paesi del G7 per rifinanziare il Fondo Monetario internazionale sono riusciti a mettere insieme a mala pena 90 miliardi di dollari di cui 30 destinati al salvataggio del sistema bancario brasiliano e una sessantina per tamponare le falle di quello dei paesi asiatici. D’altra parte, non vi è paese al mondo, anche fra quelli maggiormente industrializzati, che non sia già alle prese con problemi di rientro da un debito pubblico che ha raggiunto dimensioni gigantesche. Con margini così ristretti, appare davvero difficile immaginare un ricorso massiccio al finanziamento in deficit della spesa pubblica senza aggravare ulteriormente proprio quei problemi di rientro dal debito che come abbiamo visto hanno condotto al fallimento prima le politiche keynesiane e ora anche quelle monetariste. A inficiare inoltre la percorribilità di un ritorno a Keynes, vi è il dato importantissimo e strutturale costituito dal fatto che l’effetto congiunto della globalizzazione del mercato del lavoro e della introduzione della microelettronica nei processi produttivi hanno dato e danno tuttora luogo: da una lato a una costante riduzione dei salari e dall’altro a una riduzione dell’occupazione (fino a qualche tempo fa, soprattutto nel settore manifatturiero, ma ultimamente anche in quello dei servizi) per cui una ripresa dei consumi e quindi della domanda appaiono molto improbabili mentre nello schema keynesiano costituiscono l’anello di congiunzione fra finanziamento in deficit della spesa pubblica e il rilancio dello sviluppo economico.

Come si può constatare, il groviglio di contraddizioni che soffocano l’economia mondiale è tale che la politica economica può poco o nulla e il suo fallimento, rispetto agli obbiettivi dichiarati, sia della versione keynesiana che di quella neoliberista e monetarista ne costituisce in fondo la prova migliore. In realtà se di una "nuova fase" si può parlare e si vuole parlare è solo per indicare che il ciclo complessivo della crisi è pervenuto a un nuovo stadio che la riporta nel cuore stesso della metropoli capitalistica lasciando intravvedere scenari in cui l’alternativa guerra o rivoluzione diventerà sempre più attuale.

Giorgio Paolucci

(1) Le Monde Diplomatique nov. 1998, La nave della finanza nella tempesta.

(2) Vedi Prometeo n 14 serie V, Il dominio della finanza.

(3) Il manifesto del 15 nov. 1998, I dollari virtuali vanno alla velocità della luce.

(4) Ibidem.

(5) Ibidem.

(6) Pier Luigi Ciocca - L’economia mondiale nel novecento - Ed. Il Mulino 1998 - pag. 47.

(7) Ibidem.

(8) M. Dinucci - Il Sistema Globale - Ed. Zanichelli - 1998 - pag. 9.

(9) Ibidem.

(10) Ibidem pag. 12.

(11) Per maggiori dettagli sulla crisi asiatica vedi: Prometeo n° 15 V serie, L’Indonesia nella Bufera; BC n° 6, Crisi In Indonesia e BC n° 10, La Crisi del Giappone e le preoccupazioni americane.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.