La crisi delle tigri asiatiche

Introduzione

Le profonde modificazioni intervenute negli ultimi anni nei meccanismi di accumulazione del capitale stanno producendo una permanente instabilità nel sistema finanziario e monetario internazionale. Con regolarità impressionante e con una frequenza sempre più intensa, il mercato finanziario mondiale è periodicamente colpito da gravi crisi che mettono a repentaglio la stabilità dell’intero sistema capitalistico.

I processi di mondializzazione dell’economia e la liberalizzazione dei mercati finanziari sono stati accompagnati in questi ultimi 15 anni da violenti scossoni finanziari. Senza voler ripercorrere le varie tappe critiche del sistema finanziario internazionale, possiamo ricordare che già nel 1982, a pochi mesi dall’inizio della deregolamentazione inglese e statunitense, i mercati mondiali furono scossi dalla crisi di solvibilità del Messico. La nuova politica economica statunitense, improntata sugli alti tassi d’interessi, nel giro di pochi mesi aveva determinato una modificazione nei flussi del capitale finanziario. I capitali, attratti dagli alti tassi d’interesse, affluiscono sul mercato americano, danneggiando le aree economiche, come quella messicana, che più di altre dipendevano dal finanziamento dei capitali stranieri. Solo grazie all’aiuto delle istituzioni finanziarie internazionali, che accordano al Messico sostanziosi prestiti e una dilazione dei termini per il pagamento degli interessi, il capitalismo messicano evita di dichiarare il proprio fallimento.

Nella seconda metà degli anni ottanta un altro terremoto colpisce il sistema finanziario mondiale: il clamoroso crollo della borsa di New York. In una sola giornata la borsa di Wall Street perde il 22% del proprio valore. Il capitalismo mondiale vive un periodo di suspense, memore del grande crollo del 29, ma sostanzialmente il sistema finanziario, grazie all’ingente massa di liquidità monetaria immessa sul mercato dalla Federal Reserve, riesce a superare la crisi e a rilanciare su scala allargata le attività finanziarie. Dalla paura di un nuovo crollo si passa all’euforia finanziaria. Dopo il crack di Wall Street del 1987 la finanza mondiale conosce un lungo periodo di crescita, sviluppandosi costantemente e coinvolgendo tutti i mercati mondiali.

Negli anni novanta il susseguirsi delle crisi si fa più incalzante. La crisi valutaria del 92 che ha colpito l’Europa, con la fuoruscita della lira e della sterlina dal sistema monetario europeo, la crisi finanziaria giapponese e soprattutto quella messicana, che nel dicembre del 1994 ha portato il Messico e l’intero continente latino-americano sull’orlo della bancarotta, sono solo tra i momenti più significativi di un nuovo modo di essere del capitalismo nella sua fase di decadenza.

In questi ultimi mesi una nuova e allarmante falla si è aperta nel fragile equilibrio del sistema finanziario internazionale. Dall’estate scorsa i mercati finanziari e monetari dei paesi del sud-est asiatico sono scossi da una violenta crisi, caratterizzata da pesanti cadute degli indici di borsa e da una forte svalutazione delle varie monete rispetto al dollaro statunitense.

Dopo una brevissima parentesi di relativa calma sui mercati internazionali, durante la quale l’ideologia borghese non ha perso occasione di decantare pregi e vantaggi della mondializzazione dell’economia, il sistema finanziario mondiale ha vissuto lo scorso mese di ottobre una delle giornate più critiche degli ultimi 20 anni.

L’ondata speculativa originatasi sui mercati finanziari del sud-est asiatico ha sommerso le borse dell’intero pianeta. La borsa di Hong Kong, la più importante del sud-est asiatico dopo quella di Tokyo, in soli tre giorni ha visto l’indice crollare del 40%, mentre tutte le altre piazze borsistiche dell’area per contenere le perdite hanno deciso di sospendere le contrattazioni. Con un perverso "effetto domino", la crisi finanziaria e valutaria del sud-est asiatico travolge le borse di tutto il Pianeta. A pagare le maggiori conseguenze, in termini di cadute degli indici azionari, sono state le borse dell’America Latina. Le borse di Città del Messico, Buenos Aires e di Rio de Janeiro in pochissime sedute subiscono perdite che variano dal 15 al 25%. Per dare un’idea della gravità della crisi finanziaria in corso, bisogna ricordare che nella sola giornata del 28 ottobre, quando l’indice della borsa di New York ha subito un ribasso del 7,2%, nelle varie piazze borsistiche mondiali si sono "bruciati" capitali per una cifra che sfiora i due milioni di miliardi di lire.

Le mistificazioni della borghesia

A soli tre anni dalla crisi messicana, durante la quale le borse dell’America latina hanno fatto registrare pesantissime flessioni negli indici azionari e le varie monete dell’area si sono fortemente svalutate rispetto al dollaro americano, il capitalismo mondiale è quindi ancora una volta scosso da un violento terremoto finanziario. Sempre pronto a difendere il capitale, il "pensiero unico" dominante quando giudica le turbolenze (così sono definiti i crolli borsistici di questi ultimi mesi) esprime addirittura giudizi positivi, in quanto, per l’ideologia borghese, nel medio periodo gli scossoni possono rivelarsi salutari per l’intera economia mondiale. Per il pensiero unico le crisi costituiscono semplici turbative che il mercato è costretto a subire per l’ingombrante presenza dell’azione statale nei meccanismi economici. Più mercato e meno stato è la ricetta miracolosa del pensiero unico. Nella ricerca del consenso verso politiche economiche che si stanno rivelando drammatiche per il proletariato mondiale, la classe dominante, pur di nascondere i veri motivi di queste periodiche crisi, è pronta a mistificare spudoratamente la realtà dei fatti. Economisti, esperti e guru della finanza quando sono chiamati a commentare le crisi che periodicamente colpiscono il sistema finanziario e monetario internazionale, strumentalmente utilizzano due pesi e due misure in relazione alle aree interessate alla crisi. Infatti, nel commentare l’ultima crisi borsistica, quando si riferiscono ai paesi del sud-est asiatico, o ad altre aree periferiche, i motivi della crisi sono da ricercare in politiche economiche poco liberiste o negli antiquati sistemi bancario-finanziari, mentre i crolli delle borse europee e nordamericane sono ritenuti ingiustificati in quanto i parametri dell’economia reale sono tutti di segno positivo. Da un lato si giudicano le crisi finanziarie come un effetto salutare per l’economia in quanto impongono ai vari governi politiche più liberiste, dall’altro le ritengono dannose e ingiustificate o addirittura inesistenti in quanto l’economia reale va a gonfie vele ed invitano gli investitori a non lasciarsi prendere dal panico.

I motivi dell’instabilità

I processi di globalizzazione, grazie all’impiego dell’informatica nella circolazione finanziaria e alla completa libertà d’azione con la quale i capitali si possono spostare nelle diverse aree del pianeta, hanno permesso al capitale finanziario di rompere i precedenti vincoli a cui era sottoposto e dar vita ad un unico grande mercato mondiale. L’azione combinata di questi due fattori (informatizzazione e liberalizzazione) ha permesso al capitalismo di spostare ingenti masse di capitali da un capo all’altro del pianeta con una semplicità estrema. Attualmente il capitalismo, con un semplice ordine d’acquisto o vendita fatto tramite un terminale collegato in rete, è in grado di collocare le proprie risorse finanziarie in quei mercati che presentano le migliori prospettive di guadagno. Ma tutto questo ha determinato che la crisi finanziaria di un paese si ripercuota immediatamente sull’intero sistema non risparmiando neanche quei paesi in cui il trend economico è positivo. La logica di tali fenomeni è da ricercare nel fatto che il capitale finanziario negli ultimi dieci anni, grazie alla completa liberalizzazione del mercato e alla creazione di nuovi strumenti finanziari (opzioni, futures, warrant ecc.), si è sempre di più distaccato dall’andamento dell’economia reale. Il capitale finanziario, nello scegliere i mercati e settori nei quali investire, valuta esclusivamente i tassi d’interesse, in quanto sono questi in definitiva a determinare l’alta o bassa remuneratività del capitale investito.

Il fatto nuovo degli ultimi quindici anni è costituito dal fatto che il capitale finanziario presente sui mercati mondiali solo in una piccolissima parte è reinvestito nel mondo della produzione. Mentre fino a tutti gli anni settanta i surplus di capitale finanziario inutilizzabile sul mercato interno veniva reinvestito in attività produttive in quei paesi dove si prospettavano margini di profitti più elevati, dai primi anni del decennio scorso il capitale finanziario, per dirla con Marx, evita di sporcarsi le mani nella produzione. Il grande capitale finanziario, per garantirsi un’adeguata remuneratività, ha imposto un cambiamento radicale nella distribuzione della rendita finanziaria, basato esclusivamente sulle attività parassitaria. Ma se la crescita dei corsi azionari è avvenuta senza un adeguato sviluppo del sistema produttivo, ma solo grazie a manovre speculative e ad impieghi nel settore immobiliare, le cadute verticali delle borse interessando anche le azioni delle società inserite nel mondo della produzione determinano delle conseguenze disastrose sull’intero apparato produttivo e nelle condizioni di vita del proletariato. Inoltre, la globalizzazione finanziaria non solo ha creato un mercato mondiale ma ha determinato l’unificazione del mercato azionario e di quello valutario. Se ci soffermiamo su questo aspetto possiamo cogliere un fenomeno nuovo nelle dinamiche capitalistiche. A causa delle relazioni tra i due mercati, anche il valore della moneta si è sganciato dall’andamento dell’economia reale, ma ciò introduce nel sistema ulteriori motivi d’instabilità che nel medio-lungo periodo manifestano tutte le loro nefaste conseguenze.

Il "miracolo" economico delle tigri asiatiche

La propaganda borghese, nell’esaltare le virtù del mercato, ha individuato nelle tigri asiatiche l’esempio migliore degli attuali processi di globalizzazione dell’economia. Aggressivi sul piano della concorrenza internazionale, capaci di competere con i giganti dell’economia, i paesi del sud-est asiatico spesso sono stati indicati come il maggior pericolo commerciale dal quale difendersi nel prossimo futuro. Nel corso degli ultimi trenta anni i paesi del sud-est asiatico hanno fatto registrare una spettacolare crescita del prodotto interno lordo. Gli esempi più significativi di tale crescita sono Singapore, che nel periodo 1966/90 ha fatto registrare un tasso annuo di crescita del 8.5%, la Corea del sud, che nell’arco del 1970/90 ha visto il Pil crescere ad un ritmo del 9.6%, Hong Kong, dove il Pil nell’arco dello stesso periodo è cresciuto del 10.5% ed infine Taiwan. In quest’ultimo paese i dati testimoniano dello sviluppo economico raggiunto dall’isola: reddito pro-capite di 11 mila dollari, il più alto dell’Asia dopo il Giappone, riserve di valute internazionali di 90 miliardi di dollari, cifra che nessun altro paese al mondo può vantare, e disoccupazione praticamente inesistente. Taiwan è il paese che maggiormente ha colto le opportunità di sviluppo createsi nella fase discendente del ciclo di accumulazione del capiate.

Sfruttando i bassissimi salari esistenti, le potenze imperialistiche a partire dagli anni settanta hanno pensato bene di trasferire una quota della produzione industriale nei paesi del sud-est asiatico. Nell’isola di Taiwan, grazie agli investimenti statunitensi e giapponesi, si è formato un tessuto produttivo efficientissimo costituito da una miriade di piccole e medie imprese che sfruttando intensamente il proletariato taiwanese hanno permesso all’isola di realizzare uno sviluppo economico eclatante. Taiwan, Singapore, Hong Kong sono diventate delle aree economiche sviluppatissime in virtù dell’incentivo che gli investimenti stranieri trovavano nei bassi salari del proletariato indigeno.

Il portentoso sviluppo dei paesi del sud-est asiatico non è il frutto di ricette economiche miracolose, come spesso ha affermato la propaganda borghese, ma se analizziamo con meno enfasi i dati statistici scopriamo che il "miracolo" in realtà non esiste e che i tassi di crescita sono dovuti quasi esclusivamente agli spettacolari incrementi degli input di produzione. Esaminiamo tre esempi relativi a Singapore: il tasso di occupazione è cresciuto enormemente, con una popolazione occupata che è passata dal 27 al 51%; il livello di scolarizzazione è migliorato in modo impressionante grazie a precise scelte politiche, per cui se nel 1966 metà della forza-lavoro era priva di educazione formale, nel 1990 due terzi avevano completato la scuola media superiore; gli investimenti sono cresciuti in rapporto all’attività produttiva dall’11% a oltre il 40%. Questi dati dimostrano che l’economia di Singapore è cresciuta solo grazie ad un incremento dei fattori produttivi. Il miracolo delle tigri si sgonfia definitivamente se confrontiamo la crescita della produttività totale dei fattori fatta registrare in diverse aree geografiche. Tra il 1966 e il 1991 a Hong Kong la produttività cresce annualmente ad un ritmo del 2,3%, in Corea del sud, Singapore e Taiwan rispettivamente del 1,6%, - 0,3% e del 1,9%. Se confrontiamo questi dati con quelli fatti registrare in paesi diversi durante una fase di crescita dell’economia osserviamo che la produttività non è cresciuta di molto. Infatti nel periodo 1950/73 in Francia, Italia, Germania e Giappone la produttività totale dei fattori è cresciuta rispettivamente del 3%, 3.4%, 3.7% e del 4.1%.

I risultati della crescita asiatica, alla luce di questi dati, risultano meno spettacolari di quanto possano apparire. Le tigri sono cresciute mobilitando risorse umane fino ad allora sottutilizzati, usandole in combinazioni con un massiccio impiego di investimenti pubblici e soprattutto provenienti dall’estero. Nei primi anni novanta si manifestano i primi segnali di crisi. Le tigri crescono ma ad un ritmo sempre più blando; inizia un periodo di lento quanto inesorabile declino che porta diritto all’attuale crisi che sta seminando il panico nell’intero sistema finanziario mondiale.

La crisi delle tigri

La crisi finanziaria che ha colpito i paesi del sud-est asiatico non è quindi un fulmine a ciel sereno o il frutto delle sole speculazioni del finanziere Soros, come afferma insistentemente il presidente malese Mahathir, ma è la logica conseguenza dell’azione combinata di profonde modificazioni intervenute nell’ambito dei rapporti economici internazionali che hanno turbato il fragile equilibrio macroeconomico nell’intera area del Pacifico. Dopo decenni di crescita del Pil a due cifre negli ultimi tre anni le economie dei paesi del sud-est asiatico segnano il passo.

In questi ultimi tre anni è andato in crisi un modello di sviluppo che aveva garantito all’intera regione di industrializzarsi e diventare competitiva sui mercati mondiali. Capire i motivi della crisi significa soprattutto conoscere le relazioni economiche internazionali, i rapporti commerciali e finanziari che legano il sud-est asiatico agli Stati Uniti e al Giappone, e quell’insieme di meccanismi che hanno permesso alle tigri asiatiche di sostenere uno sviluppo economico per un periodo così lungo.

Nel corso degli anni ottanta il capitalismo giapponese, grazie ai surplus commerciali e ad un’elevatissima competitività del sistema industriale, è riuscito ad accumulare una quantità enorme di capitale finanziario inutilizzabile sul mercato interno. Tale massa di capitale finanziario da un lato è servita a finanziare il debito pubblico americano, cresciuto a dismisura nel decennio scorso a causa della politica degli alti tassi d’interesse, mentre una consistente quota è stata investita nei paesi del sud-est asiatico, contribuendo a finanziare un’economia altamente dinamica. Con l’afflusso di capitali stranieri, le economie delle tigri asiatiche si sono finanziate senza particolari problemi, e con un costo della forza-lavoro decine di volte più basso rispetto alle aree più avanzate, il circuito virtuoso dello sviluppo economico si è prolungato per molti anni. Contenuto costo della manodopera e capitali a buon mercato sono state le componenti che hanno permesso alle tigri asiatiche di affermarsi e diventare competitive sui mercati mondiali.

Il meccanismo dello sviluppo economico si è basato su alcuni fattori chiave. Da un lato i capitali stranieri davano le necessarie garanzie di finanziamento delle economie, dall’altro lato le esportazioni delle merci sul mercato mondiale garantiva un equilibrio nei conti con l’estero. Questo meccanismo ha determinato che i paesi del sud-est asiatico orientassero le loro economie esclusivamente verso il mercato estero. Per le tigri esportare i propri prodotti diventa un imperativo categorico per due ordini di motivi: primo perché le merci prodotte, in virtù di una domanda interna blanda, non possono che essere vendute sui mercati internazionali, in secondo luogo i proventi delle esportazioni servono a controbilanciare il passivo derivante dall’importazione di capitali. Mentre i paesi dell’Unione Europea, gli Stati Uniti e il Giappone esportano fuori dai propri confini mediamente il 10% del Pil aggregato, i paesi del sud-est asiatico esportano una percentuale di Pil notevolmente più elevata. Nel 1991, in Corea del sud il rapporto esportazioni/Pil aggregato è stato del 30%, in Malaysia del 81%, a Singapore e ad Hong Kong tale rapporto sfiora il 90%. Un rapporto esportazioni/Pil aggregato così elevato ha sempre condizionato le tigri asiatiche, in quanto la crescita economica è dipesa per anni esclusivamente dai mercati esteri, e nel medio-lungo periodo in seguito alla contrazione della domanda mondiale si è dimostrato catastrofico.

Per evitare che l’afflusso di capitali si traducesse in importazione d’inflazione, tutte le monete dell’area del sud-est asiatiche si sono ancorate al dollaro statunitense. La parità fissa delle monete nazionali con il biglietto verde ha dato nel corso degli anni ottanta e primi anni novanta degli indubbi vantaggi alle economie delle tigri asiatiche. Infatti l’ancoraggio al dollaro non solo ha permesso loro di avere capitali a tassi d’interesse più bassi rispetto a quelli che si avrebbero avuti senza la parità fissa, ma grazie al costante deprezzamento del dollaro rispetto alla moneta giapponese le tigri asiatiche hanno potuto incrementare le esportazioni verso il Giappone e il resto del mondo.

Le prime avvisaglie della crisi dei paesi del sud-est asiatico si registrano quando, nel corso dei primi anni novanta, il Giappone sprofonda in una situazione economica gravissima. L’economia nipponica dopo decenni di crescita entra in una fase recessiva. La borsa di Tokyo, dopo la speculazione selvaggia degli anni ottanta che ha gonfiato a dismisura i valori dei titoli azionari, entra in una fase deflattiva e in un solo anno , il 1995, fa registrare un calo del 30% dell’indice Nikkei. Tale crollo, per il fatto che gli istituti bancari rappresentano un terzo dell’intero indice borsistico, ha avuto delle conseguenze disastrose sull’intero sistema bancario giapponese.

Lo scoppio della bolla speculativa. dei primi anni novanta non solo ha messo in crisi l’intero sistema bancario e finanziario nipponico ma ha praticamente privato le tigri asiatiche della principale fonte di finanziamento delle loro economie. Il primo provvedimento preso dalla borghesia giapponese è stato quello di ritirare i capitali investiti sui mercati internazionali per impiegarli sul mercato interno nel tentativo di dare ossigeno all’asfittica economia reale. La crisi economica del Giappone non si ripercuote solo sul piano finanziario ma anche sul piano commerciale; infatti, la contrazione del mercato giapponese provoca un vero e proprio tracollo delle esportazioni dei paesi del sud-est asiatico. Alle tigri asiatiche viene a mancare uno dei mercati più importanti dove esportare le proprie merci.

La situazione economica per molti paesi asiatici precipita quando nel 1995 gli Stati Uniti, per risollevare le sorti dell’economia giapponese, impongono una brusca inversione di tendenza nelle quotazioni del dollaro rispetto allo yen. La decisione statunitense di rivalutare il dollaro rispetto alla moneta nipponica accentua le difficoltà economiche e gli squilibri dei paesi del sud-est asiatico. Con la repentina svalutazione dello yen l’economia del Giappone ottiene una boccata d’ossigeno grazie all’incremento delle esportazioni, ma ciò avviene a discapito delle economie delle tigri asiatiche che vedono ulteriormente restringersi i mercati nei quali esportare.

La rivalutazione del dollaro ha delle conseguenze disastrose anche sul fronte del debito pubblico delle tigri asiatiche; infatti per mantenere la parità fissa della propria moneta rispetto al dollaro, le banche centrali sono costrette ad aumentare i tassi d’interesse con la conseguenza di aumentare gli oneri del debito pubblico. L’aumento dei tassi d’interesse produce la naturale conseguenza di spostare i capitali dal mercato azionario a quello dei titoli sul debito pubblico con la conseguenza di determinare un’inversione di tendenza nella crescita degli indici azionari. Finisce il boom delle borse e il grande capitale finanziario scappa verso lidi più remunerativi.

Come una bomba ad orologeria le contraddizioni economiche delle tigri asiatiche esplodono improvvisamente. Il crollo delle esportazioni determina nel volgere di pochissimi anni un forte peggioramento dei conti con l’estero. I deficit delle partite correnti si sono rapidamente allargati, arrivando al 6-7% del Pil. A questo punto il grande capitale finanziario, che in precedenza affluiva copioso, comincia a chiedersi se le tigri saranno in grado di saldare il conto.

In questo contesto contrassegnato da una profonda crisi economica si è inserita la speculazione finanziaria che ha colpito in primo luogo quei paesi come la Thailandia che più di altri si trovavano in difficoltà, seguita a ruota da tutti gli altri paesi del sud-est asiatico. Le svalutazioni sono partite a catena e hanno subito voluto dire un balzo verso l’alto dei debiti espressi in dollari, a cui non si poteva rimediare che cercando sul mercato altri dollari; ma così facendo si è aggravata la spirale della crisi. Nell’attacco speculativo sono saltate le parità di tutte le monete locali con il dollaro, con la sola eccezione della moneta di Hong Kong che, grazie alle riserve valutarie della Cina e all’innalzamento dei tassi d’interesse, è riuscita finora a mantenere l’ancoraggio con la moneta americana. Svalutazioni fra il 30 e il 40% hanno portato molte imprese e banche sull’orlo del fallimento. I capitali internazionali scappano da un’area sull’orlo di un collasso finanziario che rischia di travolgere l’intero sistema.

Conclusioni

Tra riprese degli indici azionari e nuovi scivoloni borsistici, la tempesta finanziaria è tutt’altro che superata. L’intero sistema finanziario mondiale, a causa dei continui scivoloni delle borse asiatiche, tiene quotidianamente il fiato sospeso. La crepa che si è aperta nel Far East si sta estendendo nell’intera area del Pacifico. Gli attuali sommovimenti finanziari rendono evidente che su scala mondiale non è in atto una semplice speculazione su un’area a rischio ma la partita che si sta giocando è la redistribuzione del capitale finanziario nelle diverse parti del mondo in relazione alla remuneratività che queste garantiscono. In altre parole l’attacco speculativo ha aperto la strada a un ridisegno dei potenziali di sviluppo economico prima tra le aree più sviluppate e quelli di nuova industrializzazione, e poi tra questi e le altre zone che in virtù di costi del lavoro più contenuto (vedi Cina e Vietnam) si pongono come i nuovi potenziali destinatari degli investimenti internazionali. La ricerca di nuove aree dove la forza-lavoro presenta un costo più basso è uno degli elementi che spinge masse ingenti di capitale finanziario a spostarsi da un angolo all’altro del pianeta. Ma tutto questo non avviene in maniera indolore, in quanto determina la completa desertificazione economica di interi continenti.

La crisi finanziaria in atto apre nuovi scenari nei rapporti tra le aree capitalisticamente più sviluppate. Se gli Stati Uniti, dimostrano ancora di tenere in pugno le redini della ripartizione della rendita finanziaria, potendo contare su uno strumento efficientissimo come il dollaro, in questa crisi per la prima volta è emersa la forza d’urto dell’Europa. A differenza delle precedenti crisi finanziarie e monetarie, durante le quali le monete europee reagivano in maniera scomposta rispetto alla moneta americana, in questa il capitalismo europeo ha mantenuto un sostanziale equilibrio monetario sia rispetto al dollaro sia fra le varie monete dell’Unione Europea. Fino a qualche anno fa, una crisi di tale dimensione avrebbe determinato una speculazione selvaggia sulle monete deboli dell’Europa (in particolare lira italiana) ed un sostanziale rafforzamento del marco tedesco, oggi assistiamo ad una stabilità dei cambi, il che dimostra che il progetto della borghesia europea di costituire una moneta unica capace di contrastare lo strapotere del dollaro prende sempre più corpo. Sarà la capacità di governare una massa monetaria quanto più grande possibile, che nel medio-lungo periodo, stabilirà quali fra i poli imperialistici avrà la meglio nell’assicurarsi il dominio nella ripartizione della rendita finanziaria.

L’eredità che lascia tale crisi è pesantissima. A differenza di quanto afferma la propaganda borghese, che nega che tali crisi finanziarie possano avere delle conseguenze significative sull’economia reale, la crisi non solo è il prodotto delle contraddizioni del capitale ma lascia sul campo paesi economicamente allo sbando. La crisi asiatica, per l’importanza che l’intera area rivente nell’ambito dell’economia mondiale, rischia di trascinare nella recessione l’intero sistema capitalistico.

Il Fondo Monetario Internazionale, come sempre avviene in occasione di crisi finanziarie, per concedere i prestiti necessari ad evitare il fallimento di intere economie, impone a questi paesi di risanare le dissestate finanze pubbliche. Per riuscirci occorre primo fra tutto riformare il sistema bancario e finanziario, liberalizzandolo ulteriormente, ma soprattutto comprimere ancor di più il costo del lavoro. Per il Fondo Monetario Internazionale solo così si può riconquistare la fiducia degli investitori internazionali e ipotizzare un rilancio economico delle tigri asiatiche. La ricetta imposta dalla borghesia internazionale ai paesi del sud-est asiatico per uscire dalla crisi prevede un aggiustamento dei conti pubblici che deve passare obbligatoriamente attraverso il rilancio delle esportazioni e la drastica riduzione della domanda interna. Ma questo significa che su scala mondiale la domanda globale sarà destinata ulteriormente a indebolirsi, acuendo di fatto gli scontri commerciali tra le diverse aree del pianeta. Se consideriamo che gli Stati Uniti esportano nell’area interessata alla crisi circa il 25% del totale delle merci esportate, è facile immaginare le conseguenze negative per l’economia statunitense e mondiale della crisi del sud-est asiatico e del Giappone.

I guasti procurati dal capitale finanziario dovranno quindi essere sanati ancora una volta dall’economia reale attraverso un attacco senza precedenti alle condizioni di vita del proletariato internazionale e asiatico in particolare. Il capitalismo in questa fase storica in cui dominano le forme di accumulazione più parassitarie, per soddisfare la fame di plusvalore deve continuamente attaccare le condizioni di vita del proletariato mondiale imponendogli nuovi e pesanti sacrifici in termini di riduzione del costo del lavoro.

Finora la lotta di classe purtroppo si sta combattendo a senso unico; una borghesia all’attacco per mantenere i propri privilegi e una classe operaia stordita e incapace di reagire agli attacchi subiti. Ma ciò non significa che il proletariato mondiale non possa, anche a breve, ricompattarsi attorno al programma rivoluzionario e riprendere l’iniziativa della lotta di classe per opporsi alle barbarie del capitalismo.

Lorenzo Procopio

(1) Leggere in proposito gli articoli apparsi su questa stessa rivista che approfondiscono i diversi aspetti della mondializzazione del capitale.

(2) Leggere il libro "La Globalizzazione dell’economia" di Hirst e Thomposon, Ed. Editori Riuniti.

(3) Vedere l’articolo "Il Giappone in crisi" apparso sul numero 12 V serie di Prometeo.

(4) Per l’approfondimento di tale aspetto leggere l’articolo che appare su questo stesso numero della rivista.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.